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la storia segreta!
M di Morgil
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Inviato il 13 gennaio 2006 15:53 Autore

IL RAID SEGRETO ROMA-TOKYO:

"DANNATI CAMERATI MACCARONI!"

 

Nel corso del secondo conflitto mondiale le Forze Armate aeree e navali italiane hanno compiuto non poche missioni speciali: azioni che, per implicazioni di natura tecnica, militare e politica, hanno assunto i connotati di veri e propri record. Tuttavia, di queste operazioni - quasi tutte condotte con esito felice - poco si sa. Un po' perché parte della documentazione top secret è andata distrutta o perduta dopo la resa dell'Italia (8 settembre 1943), un po' perché è nell'indole degli italiani dimenticare in fretta le guerre e le sofferenze ad esse legate.

Dopo l'attacco giapponese alla base Usa di Pearl Harbour (7 dicembre 1941), l'aggressivo Impero del Sol Levante si trovò di fatto, paradossalmente, isolato dai suoi partners dell'Asse. In seguito alla forzata interruzione dei normali e regolari collegamenti navali e aerei

 

tra l'Italia, la Germania e il Giappone (ricordiamo che queste nazioni il 26 settembre 1940 avevano sottoscritto un accordo di mutua assistenza militare ed economica: il "Patto Tripartito") sia la Germania che l'Italia iniziarono ad escogitare sistemi alternativi per rompere il blocco anglo-americano che impediva ai loro mezzi di raggiungere il Far East. La necessità di forniture e di interscambio di materie prime rare (bisogno condiviso per altro anche dai giapponesi) e quello di coordinare (attraverso scambi di consiglieri militari, piani militari e di codici cifrati) le operazioni contro le forze alleate stimolarono non poco l'immaginazione e la capacità progettuale dei tecnici dell'Asse.

Tra le varie operazioni di collegamento elaborate ed attuate per riallacciare i rapporti tra l'Europa occupata e il Giappone, un posto particolare spetta al raid aeronautico Roma-Tokyo. Nel gennaio del 1942, il Comando dell'Aeronautica Italiana - sollecitato dal Ministero della Guerra - iniziò a pianificare un progetto di volo senza scalo tra l'Italia e il Giappone. Data l'enorme distanza che separava le due nazioni, il generale Fourgier (comandante in capo dell'Aviazione Italiana) si rivolse ad un gruppo di specialisti di raid a lunga distanza: piloti che, in parte, nel 1940, avevano già partecipato, a bordo di speciali trimotori da trasporto Savoia Marchetti SM83, a molti voli transatlantici in direzione del Sud America e, nel 1940/41, a missioni di rifornimento alle piazzeforti italiane isolate in Africa Orientale (Gimma e Gondar). Gli uomini scelti per equipaggiare l'aereo speciale che venne scelto (una versione molto modificata del celebre trimotore da trasporto Savoia Marchetti SM75 (parente stretto dell'altrettanto famoso SM82 che aveva una maggiore capacità di carico ma un'autonomia sensibilmente inferiore). L'SM75 era un robusto monoplano, ideato prima della guerra per i trasporti civili e militari su lunghe distanze, equipaggiato con tre motori Alfa Romeo 128 RC 18 da 750 hp, pesante 11.200 chilogrammi a vuoto e oltre 22.000 a pieno carico[1].

L'aereo, che avrebbe avuto un equipaggio di 4 uomini e un carico utile di poche centinaia di chilogrammi era in grado di viaggiare per oltre 8.000 chilometri (senza scalo) ad una velocità di crociera di circa 300 chilometri all'ora e ad una quota compresa tra i 3.500 e i 5.000 metri. Inizialmente, l'equipaggio scelto dal Comando Aeronautico di Roma era composto dai piloti tenente colonnello Amedeo Paradisi (che partecipò al Grand Prix 1937 Istres-Damasco-Parigi e nel 1938 al raid Roma-Dakar-Rio De Janeiro) e capitano Publio Magini (pioniere del "volo strumentale cieco"), dal marconista Ezio Vaschetto e dal motorista Vittorio Trovi. Questo stesso equipaggio effettua il 9 maggio 1942 un volo sperimentale di 28 ore di durata fino ad Asmara (ex colonia italiana di Eritrea) per lanciarvi manifestini patriottici ("Italiani di Eritrea: la Patria non vi dimentica. Ritorneremo!"). L'ardita missione riesce e l'entusiasmo è tale da fare accelerare i tempi per il grande balzo fino al Giappone. L'11 maggio 1942, al ritorno dalla missione in Eritrea, dopo gli ultimi lunghi collaudi compiuti dalla ditta, l'SM75 GA (Grande Autonomia) esce dal suo hangar di Roma-Ciampino. Sfortunatamente, per ironia della sorte, durante il suo brevissimo trasferimento dall'aeroporto di Ciampino a quello di Guidonia (poco più di 50 chilometri!), il mezzo ha un'avaria simultanea a tutti e tre i motori e precipita come un sasso. Il comandante Paradisi riesce a compiere un disperato atterraggio di emergenza ma l'aereo si sfascia al suolo e lo stesso Paradisi perde la gamba destra nell'incidente.

Miracolosamente, il resto dell'equipaggio esce malconcio ma vivo dal disastro. Ripresisi dallo shock i tecnici e i militari italiani iniziano a lavorare febbrilmente. Il Raid Roma-Tokyo non può essere rimandato. Con uno sforzo enorme i meccanici della ditta riescono ad approntare in tempo record un secondo esemplare di SM75 GA e il 9 giugno l'equipaggio di cui fanno parte ora il capitano pilota Mario Curto e il sottotenente radio-aerologista

 

Ernesto Mazzotti. Il coordinamento dell'operazione viene affidato al tenente colonnello Antonio Moscatelli. Il 29 giugno 1942, alle 05,30, l'SM75 "RT" (Roma-Tokyo) al comando di Moscatelli decolla da Guidonia (Roma) e dopo un volo di 2.030 chilometri atterra a Zaporoskje (nell'Ukraina occupata dalle forze tedesche), base effettiva di partenza. Il 30 giugno, alle ore 18,00, dopo gli ultimi controlli e dopo avere caricato alcune casse contenenti preziosi cifrari e documenti top secret destinati all'ambasciata italiana di Tokyo, l'aereo italiano, sovraccarico di benzina (10.300 litri) riesce a decollare su una pista di appena 700 metri. In caso di atterraggio di emergenza in zona sovietica, l'equipaggio ha l'ordine di bruciare l'aereo e naturalmente la busta sigillata contenente i nuovi cifrari segreti e le carte nautiche. Per assecondare i desideri dei giapponesi, che non vogliono compromettere i loro rapporti con Mosca, gli italiani non portano alcun documento ufficialmente destinato a personalità di Tokyo[2].

Malgrado tutte le precauzioni e l'assoluto silenzio radio, durante il sorvolo di Stalino e del delta del Volga l'SM75 è individuato dall'artiglieria antiaerea pesante sovietica e viene addirittura intercettato da un caccia (probabilmente uno "Yak") che, fortunatamente, non riesce ad abbatterlo. Nelle sue memorie, il comandante Moscatelli a questo proposito scriverà: "Abbiamo avuto la netta sensazione che la nostra rotta fosse nota ai russi". L'SM75 prosegue comunque il suo lungo viaggio sorvolando la costa settentrionale del Lago Aral, tagliando il Baikal e la catena dei monti Tarbagatai fino a raggiungere i cieli dell'immenso deserto del Gobi. La cartografia di bordo si rivela però inesatta in particolare per quanto concerne l'altitudine e la dislocazione delle catene montuose, e nel contempo la possibilità di volare a quote di sicurezza superiori ai 5.000 metri è molto limitata dallo scarso quantitativo di ossigeno delle bombole (circa 4/5 ore). Le condizioni meteorologiche poi si fanno difficili mano a mano che l'aereo procede in direzione Est, cioè verso l'area del pianeta influenzata dai venti e dalle piogge e dagli addensamenti tipici dell'estate monsonica. L'equipaggio, in questo contesto, fatica nel calcolo della navigazione astronomica. Senza contare che nell'ultimo tratto di volo, in prossimità del confine tra la Cina e la Mongolia, l'SM75 viene investito da una violentissima tempesta di sabbia che lo perseguita fino ad oltre 3.000 metri di quota.

Ciò nonostante, il comandante Moscatelli tiene duro e verso le 22,00 del 30 giugno buca le nuvole e inizia la discesa seguendo l'ampio corso del Fiume Giallo. Alle 15,30 del 1 luglio 1942, il trimotore italiano, quasi al limite della sua autonomia, individua finalmente il campo di atterraggio giapponese di Pao Tow Chen (situato nella Mongolia Interna da tempo occupata dalle truppe di Tokyo) e atterra felicemente su una pista abbastanza buona di 1.300 metri. L'equipaggio viene accolto da un generale dell'aviazione giapponese, responsabile del settore del Hansi, accompagnato da una delegazione militare e da due ufficiali italiani giunti apposta dalla capitale giapponese (il capitano di vascello Roberto De Leonardis e il capitano Enrico Rossi). Dopo avere riposato una giornata, l'aereo riparte in direzione del Giappone che dista ancora 2.700 chilometri, non prima di avere mutato le insegne italiane di riconoscimento con quelle dell'alleato (per evitare di essere abbattuti per errore dalla caccia amica) e di avere preso a bordo un capitano pilota nipponico in qualità di interprete. Alle ore 20,00 del 1 luglio il velivolo italiano atterra all'aeroporto di Tokyo, tra l'entusiasmo della folta rappresentanza italiana. I giapponesi, dal canto loro, si mostrano cordiali ma nulla di più. Il timore di infastidire l'Unione Sovietica è molto forte, come lo è pure il rimpianto di non essere ancora riusciti a mettere a punto un mezzo aereo adeguato per compiere un raid simile in direzione opposta.

L'addetto militare tedesco a Tokyo è anch'egli presente ai festeggiamenti di rito che si svolgono all'aeroporto (e poi all'ambasciata italiana) e comunica subito, in cifrato, il risultato strabiliante della missione italiana al Comando del Maresciallo Herman Goering. Quest'ultimo manda quindi un caloroso messaggio di congratulazioni al generale Fourgier e poi se la prende con suo staff accusando i suoi bravi tecnici di non essere in grado di emulare le gesta de quei "dannati camerati maccaroni". Effettivamente, il volo dell'SM75 "RT" è stato un successo veramente eccezionale, dati i tempi e le contingenze. Il 16 luglio (dopo due settimane dense di incontri tecnici con parigrado e superiori giapponesi, italiani e tedeschi, e…di baldorie) l'equipaggio italiano riporta senza problemi l'aereo a Pao Tow Chen. Qui, dopo avere cancellato per bene le insegne giapponesi e averle sostituite nuovamente con quelle italiane, il velivolo viene revisionato e rifornito di 21.000 litri di carburante. E alle 21,45 del 18 luglio decolla, non senza problemi dato il sovraccarico e l'altitudine del campo (1.020 metri di quota), in direzione dell'Occidente. La rotta del rientro si snoda sul medesimo "routing" dell'andata e il viaggio si svolge tra parecchi inconvenienti: frequenti piovaschi, addensamenti di nuvole, violenti sbalzi di temperatura, formazioni di ghiaccio sulle ali.

Giunto in prossimità del Mar Caspio, il comandante Moscatelli cerca di mettersi in contatto radio con la base italiana di Stalino ma non ci riesce, forse per un guasto all'apparecchio. Fortunatamente, i sovietici non se ne accorgono e grazie ai calcoli astronomici

 

effettuati dal navigatore Magini l'SM75 riesce, alle 02,10 del 20 luglio 1942, ad atterrare felicemente sul campo di riserva di Odessa (Mar Nero), dopo un volo di 6.350 chilometri percorsi il 29 ore e 25 minuti di volo. Pochi giorni dopo, a Guidonia (Roma), Moscatelli e i suoi uomini verranno decorati al valore da Mussolini in persona. Data la penuria di mezzi e di denaro e gli impedimenti di carattere politico, il Comando Supremo Italiano decise di non effettuare nessun altro volo in direzione del Far East. Tuttavia, le importanti osservazioni e gli insegnamenti scaturiti dalla missione dell'SM75 "RT" consentirono ai tedeschi di inaugurare, a partire dall'inizio del 1944, un piano di collegamenti aerei con il Giappone, riuscendo ad effettuare alcuni raid con quadrimotori da trasporto speciali Junker 290.

 

NOTE

 

[1] L'SM75 era un velivolo da trasporto civile e militare, monoplano ad ala bassa a sbalzo, trimotore, di costruzione mista. L'aereo fu progettato dall'ingegner Alessandro Marchetti nel 1936 e il primo prototipo (matricola n/c. 32001) decollò dal campo prova di Cameri (Novara), ai comandi del collaudatore Alessandro Passaleva, nel novembre del 1937. L'SM75 venne concepito per dotare l'Ala Littoria (compagnia di bandiera italiana) di un moderno e capace mezzo atto a coprire medie e lunghe distanze con carichi di passeggeri e di merci. Subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia (10 giugno 1940), il Comando dell'Aeronautica di Roma, sulla base delle ottime prestazioni fornite dai pochi modelli civili già operativi, decise di militarizzare gli SM75 già disponibili e di incentivare la produzione di un nuovo lotto destinato, con adeguate modifiche, a missioni speciali a lunga autonomia. La grande distanza che separava l'Italia dai suoi possedimenti coloniali in Africa Orientale (Etiopia, Eritrea e Somalia) e l'isolamento di questi territori, circondati dal nemico, richiedevano infatti l'urgente disponibilità di un aereo in grado di coprire percorsi di non meno di 2.500 chilometri di sola andata. E l'SM75, grazie alle sue buone qualità e caratteristiche, bene si prestava a questo scopo. La versione civile dell'aereo poteva trasportare, normalmente, 17 passeggeri più bagaglio ad una distanza di 1.720 chilometri e ad una velocità massima di 363 chilometri l'ora a 4.000 metri di quota. La versione militare (dotata di una mitragliatrice difensiva dorsale Breda Safat da 12,7 millimetri in torretta Caproni-Lanciani) trasportava invece 24 soldati, con le medesime prestazioni del modello base. L'SM75 era equipaggiato con tre motori radiali Alfa Romeo 126 RC.34 da 750 cavalli a 3.400 metri o da tre motori Alfa Romeo 128 RC.18 da 860 cavalli a 1.800 metri di quota. Il prototipo aveva un'apertura di 29,68 metri, una lunghezza totale di 21,60 metri, un'altezza di 5,10 metri, una superficie alare di 118,80 metri, eun peso a vuoto di 9.500 chilogrammi ed uno a carico massimo di 13.000 chilogrammi. L'SM75 poteva salire a 4.000 metri in 17 primi e 42 secondi ed aveva una quota di tangenza massima di 6.250 metri. Il mezzo era in grado di decollare in 337 metri e di atterrare in appena 280: caratteristiche che lo rendevano idoneo ad operare anche su aeroporti secondari. L'equipaggio del modello civile era di 4 uomini che aumentavano a 5 (il mitragliere) per quello militare.

[2] A bordo dell'aereo, oltre ai cinque membri di equipaggio, armati con pistole Beretta 7,65 e con a disposizione un fucile Carcano da 6,5, vengono caricati circa 10 chilogrammi di viveri e medicinali e una decina di litri di acqua potabile e caffè. In conformità con gli impegni precedentemente presi con l'ambasciata giapponese a Roma, gli italiani rinunciano a qualsiasi carteggio o indizio che possa mettere in imbarazzo il governo di Tokyo. Per sicurezza, anche il messaggio personale del ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, indirizzato al Primo ministro della Guerra nipponico Hideki Tojo, viene lasciato a terra (esso verrà trasmesso via radio solo a missione completata)


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Inviato il 13 gennaio 2006 15:56 Autore

SILVESTRO II, PAPA DELL'ANNO 1000: SCIENZIATO ACCUSATO DI MAGIA

 

Il dotto Gerberto di Aurillac, precettore e amico di Ottone III, divenne papa con il nome di Silvestro II (999-1003) ed è sicuramente una delle figure più affascinanti nella storia della cultura medievale. Nato da una famiglia poverissima in un villaggio dell'Alvernia (terra di maghi), in Francia (la data non è certa: diverse fonti, comunque, riportano il suo compleanno tra il 938 ed il 950), rimase presto orfano e fu educato, inizialmente, nel monastero di Saint-Géraud. Imparò i primi rudimenti di retorica, geometria ed astronomia. Fu poi accolto nel monastero benedettino di Aurillac (riformato in direzione cluniacense da

 

Oddone di Cluny in persona) dove prese l'abito monacale e si distinse ben presto per la sua feconda intelligenza. Di carattere un po' vivace, ebbe sempre dei problemi con i bravi monaci. In seguito venne notato da Borel, conte di Barcellona, che lo portò con sé e gli permise di proseguire gli studi presso la scuola diretta dal vescovo di Vich, Attone, in Catalogna. Completò la sua formazione, a Vigo prima, poi a Cordova, presso scuole arabe. Il tipo di educazione che ricevette in questa scuola era quello tipico dell'epoca. Le materie di studio erano raggruppate in due gruppi distinti: il trivium (grammatica, dialettica e retorica) ed il quadrivium (aritmetica, musica, geometria ed astronomia). Questa esperienza arricchì il suo background culturale con originali innesti di cultura musulmana, aggiungendo così, alla sua gia' imponente cultura filosofica e teologica, ampie conoscenze. Nell'apprendere i primi insegnamenti islamici che il cristianesimo lasciava filtrare, entrò in contatto con circoli di saggi musulmani con lo scopo di giungere alla perfetta conoscenza dell'arte magica.

Questi saggi, però, richiedevano ai loro discepoli di abiurare la propria fede e di sottoporsi ad una specie di iniziazione. Gerberto accettò e fu, così, apostata. Ciò spinse i suoi detrattori ad attribuirgli, già all'indomani della sua morte, una fama postuma di mago e alchimista. Entrato in contatto col mondo arabo affinò le proprie conoscenze scientifiche... ed ecco che nacquero su di lui i pregiudizi: per la parte avversa egli non era altro che un mago[1]. Secondo Gregorovius fu "un genio che illuminò di luce vivissima l'epoca sua". Tale era in effetti la sua erudizione nel campo delle scienze, che sarebbe stata fraintesa. Molti diffidavano di lui perché era troppo diverso dagli altri pontefici. Si occupava di astronomia e di chissà quali altre "arti nere". Qualcuno pensava che fosse l'Anticristo. Tutta la sua sapienza non poteva che avere un'origine soprannaturale. Papa Mago rimase sempre circondato da un alone di leggenda a causa delle sue frequentazioni con la cultura "proibita" (quella degli Arabi). Il cronista Raoul de Longchamp diffuse la voce secondo cui si sarebbe costruito un Golem, ossia un demonio imprigionato in una testa d'oro, o forse di bronzo, alla quale poneva dei quesiti particolarmente difficili o insolubili. E la testa rispondeva con un cenno del capo. Tra le altre cose avrebbe pure indicato al pontefice il giorno esatto della sua morte[2]. In realtà, la testa "magica", che diceva sì o no, corrispondeva al calcolo con due cifre, l'odierno codice binario (0 e 1) su cui si basano i nostri moderni calcolatori. Ed è così che alla storia si affiancherà la leggenda popolare, secondo la quale egli aveva stretto un patto col diavolo: da Reims a Ravenna a Roma, tre "erre" alle quali venne attribuito un significato magico.

Su di lui si diffuse una serie di leggende, alcune delle quali molto interessanti. Una in particolare mette in evidenza l'elemento "superstizione" che caratterizzò tutto il Medioevo. Si narra che Gerberto fosse un giovane che riusciva a distinguersi per le sue capacità, per il suo carattere e per la sua volontà di superare in intelligenza e nel parlare tutti gli studenti della scuola di Reims. Nonostante la sua superiorità, egli rimase turbato dalla bellezza di una fanciulla, che riuscì a stregarlo. Il suo unico desidero, oramai, era quello di conquistarla. A questo scopo, egli dissipò tutte le sue ricchezze e si coprì di debiti e di ridicolo. Ma un giorno, mentre si trovava a vagare per un bosco, disperato per lo stato in cui versava e per la fame che gli attanagliava lo stomaco, ecco apparire la fata Meridiana. Costei, in cambio della sua fedeltà, gli promise ricchezza, dignità, onore e gloria. Prima impaurito, poi rassicurato, Gerberto accettò. Si risollevò dalle terribili condizioni in cui si trovava e ottenne tutto quello che aveva sempre desiderato. Meridiana lo aiutò a raggiungere anche l'illuminazione della mente con studi notturni e segretissimi. In questa leggenda compaiono tantissimi elementi tipici della cultura medievale: l'amore passionale e struggente nei confronti di una donna, "strega", che si rivela non degna di questo sentimento; la distruzione fisica e morale del personaggio centrale; l'intervento esterno, divino o diabolico, che fa cambiare direzione al corso della storia del protagonista.

La figura di Meridiana può essere considerata una metafora: lo studio e la brama di conoscenza porteranno Gerberto a trovare la sua strada. Egli non si preoccupa di abiurare la sua fede: vuole raggiungere la perfetta conoscenza in piena libertà morale e religiosa. Il

 

rapporto con la fata continuerà fino a che ella non gli predirà il giorno della sua morte[3]: "non prima di dire messa a Gerusalemme". Naturalmente egli nascose tutto questo, altrimenti sarebbe stato considerato eretico. Interessante riportare anche un altro episodio della sua vita sempre frenetica, che ci viene riferito dallo storico inglese William di Malmesburn. Si narrava che, nel Campo Marzio, vi era una statua di metallo con l'indice della mano destra disteso, indicante sulla fronte la scritta "Colpisci qui". I più, credendo che vi avrebbero trovato un tesoro, avevano spaccato la testa della statua, ma inutilmente. Gerberto, invece, osservò di nascosto dove arrivasse l'ombra del dito a mezzogiorno in punto, ritornò a Campo Marzio di notte, con un suo cameriere, e fece spalancare la terra con una magia. Subito apparve loro una grande sala e cavalieri che giocavano a dadi e la statua, tutto d'oro, di un re, disteso con la regina davanti alla mensa apparecchiata con vasellame prezioso. Nella parte più interna rifulgeva un carbone ardente e, di fronte, vi era la statua di un fanciullo con l'arco teso. Tutte queste bellezze non si potevano toccare, altrimenti le statue balzavano contro gli intrusi. Il cameriere tentò di prendere un coltello di grande valore ed i simulacri d'oro presero a vibrare; l'arco del fanciullo lanciò la sua freccia che colpì il carbonchio, il tutto tra l'avanzare del buio.

Nel 970 fu a Roma con Attone, dove Ottone I gli affidò l'educazione del figlio, Ottone II. Venne chiamato a dirigere l'abbazia di Bobbio, presso Piacenza, nel 983. Forte dell'incondizionato appoggio dell'autorità imperiale, Gerberto cercò di ricondurre all'autorità abbaziale i molti livellari della zona, che tenevano le proprietà a titolo di feudi personali. Il tentativo fallì e l'abate fu costretto a fuggire nottetempo dal monastero a causa di un'energica rivolta dei livellari. Fu probabilmente l'ultimo abate ad avere sotto la propria amministrazione la curtis Turris. Trovò rifugio a Pavia, dall'imperatrice madre, Adelaide. In questa circostanza, la giovane vedova dell'imperatore lo incaricò dell'educazione del figlio Ottone III. Anche qui, però, non sentendosi soddisfatto, si recò a Reims, dove poteva dedicarsi ai suoi studi, oltre che all'insegnamento. Nel 991 diventa arcivescovo di Reims, sostituendo il deposto Arnolfo, grazie ad Ugo Capeto, re di Francia con il nome di Luigi XVI. Il suo incarico non durò molto. Nel 995, venne sospeso e scomunicato, mentre Arnolfo venne reintegrato. Gerberto ritornò allora dal suo ultimo allievo, Ottone III. Nel 998 diventò arcivescovo di Ravenna e gli si aprì la strada per il pontificato. Infatti, precisamente il 2 aprile 999, divenne papa con il nome di Silvestro II. L'abiura, l'apostasia e la scomunica scomparvero nel nulla, come se non fossero mai esistite.

Egli guidò la Chiesa con grande fermezza e rettitudine, ma anche, e soprattutto, con grande umanità sostenendo e confortando la comunità cristiana in un momento terrorizzante, ossia durante il passaggio da un millennio all'altro, dal 999 al 1000, l'anno che, secondo la credenza, avrebbe dovuto portare la fine del mondo. A Roma, il 31 dicembre 999 la vecchia basilica di San Pietro si riempì di fedeli in lacrime. Avevano fatto penitenza per mesi e avevano il capo cosparso di cenere. Silvestro II celebrò la messa notturna davanti ai presenti inginocchiati, che aspettavano con timore Io scoccare dell'ora fatale, la mezzanotte. Un silenzio di tomba riempiva l'antica basilica e, solo quando il papa pronunciò le parole di chiusura "Ite, missa est", seguite dai rintocchi della grande campana, l'incubo svanì. Il mondo non era finito, la terra non si era aperta sotto i loro piedi, né era piovuto il fuoco che avrebbe dovuto incenerirli.

Il pontificato di Silvestro II rappresenta un punto di svolta nella storia del papato romano, in quanto quello precedente era stato caratterizzato da lotte violente e sanguinose. Ottone III, re germanico, infatti, nel 996, aveva messo sul trono pontificio suo cugino, Brunone, che assunse il nome di Gregorio V. Questi, proprio per la sua origine tedesca, non fu accettato dai Romani, che, dall'epoca di Stefano I, erano stati abituati a vedere sul trono quasi sempre papi di nascita romana. Apertamente accusato da parte dei Romani, capeggiati da Giovanni Crescenzio, di corruzione degli alti funzionari civili con lo scopo di instaurare un regime dispotico favorevole all'imperatore, Brunone fuggì e si rifugiò a Pavia, dove ben presto fu raggiunto da Ottone III.

Nel frattempo a Roma Crescenzio aveva assunto il titolo di Patricius ed aveva proclamato un altro papa, Giovanni Filagato, che assunse il nome di Giovanni XVI e che, pertanto, fu considerato antipapa. La disputa ebbe termine in modo molto cruento e disumano: l'antipapa fuggì, fu ritrovato e per ordine dell'imperatore gli furono mozzati il naso, la lingua, le orecchie e strappati gli occhi. Fu rinchiuso in una prigione in un convento e poi condannato alla gogna. A Crescenzio non spettò sorte migliore: fu decapitato ed il suo cadavere venne appeso ad una forca posta ai piedi di Monte Mario, che, per i Romani, assunse il nome di Mons Malus. Il papa e l'imperatore avevano usato ogni mezzo per imporre il proprio potere e se Ottone III, successivamente, ebbe dei rimorsi e cercò la pace peregrinando tra vari conventi, Gregorio V mantenne una ferma dignità fino alla morte, che sopraggiunse a soli ventisette anni, il 18 febbraio 999.

Suo successore designato fu proprio Gerberto, nonostante egli lo considerasse un intruso protetto dall'imperatore. L'ideale di Ottone III si rifaceva a quello della Renovatio Imperii Romanorum di Carlo Magno. La sua fede era ardente, irrequieta e mistica. La sua missione consisteva nel far regnare contemporaneamente su tutto l'Occidente, e successivamente anche sull'Oriente, la pax romana e la pax Christi.

Già verso la fine del X secolo si assistette ad una considerevole espansione della predicazione missionaria. Questo movimento espansivo si rivolse in modo particolare alla conversione dei popoli slavi. Tracce di questa attività evangelizzatrice si ritrovano già al tempo di papa Benedetto VII (974-983). L'intenzione di Ottone III prefigurava un clero finalmente assoggettato al potere imperiale; papa Silvestro II, dal canto suo, attualizzava così gli ideali cluniacensi assorbiti durante gli anni di Aurillac. Nella medesima sintonia, i due decisero anche l'innalzamento a metropoli della diocesi di Gniezno, città natale di Adalberto, gia' vescovo di Praga e futuro martire per mano dei Prussi. È fortemente probabile che l'intenzione di Ottone III non fosse principalmente quella di assoggettare le nuove diocesi direttamente a Roma, quanto quella di sottolineare una sorta di "protezionismo imperiale" riguardo ai processi di formazione di autonomia delle nascenti chiese cristiano- orientali. Il papa aveva probabilmente inteso agire in coerenza con quelle ipotesi di riforma che solo la morte impedì, che però già anticipano le linee dell'azione gregoriana. Pietro e Cesare erano d'accordo. Volevano e sognavano una Renovatio Imperii Romanorum: imperatore e papa insieme e di comune accordo avrebbero governato e guidato i popoli lungo il cammino di Dio. L'imperatore avrebbe protetto il papa, esercitando, in questo modo, un forte controllo sulla Chiesa. Roma è la capitale dell'impero fin da Carlo Magno ed è sede del papato. L'imperatore si trasferì a Roma, costruendo il suo palazzo sull'Aventino.

Silvestro ed Ottone volevano imprimere al mondo la forma della Renovatio: una famiglia di popoli, diversi e coscienti delle loro differenze, uniti in un'unica fede e guidati dal vicario di Cristo. La costituzione della nuova diocesi era avvenuta in occasione del pellegrinaggio di Ottone III alla tomba di s. Adalberto. In questa occasione il duca Boleslao aveva richiesto all'imperatore l'invio di missionari che radicassero più saldamente l'ancora instabile conversione della sua nazione. Il senso della sua richiesta era probabilmente per lo più politico: trovare il modo di assoggettare le tribù pagane delle zone limitrofe. Ma la predicazione missionaria a est era uno dei punto "forti" nella concezione che Silvestro II aveva del papato. Si inserisce in questo la dettagliata narrazione di Bruno di Querfurt, che nella Vita quinque fratrum ci descrive mirabilmente il clima di entusiasmo evangelizzatore venutosi a creare a quel tempo. Partirono dunque i monaci Benedetto e Giovanni; in Polonia si unirono a loro Isacco, Matteo ed il fedele Cristino per portare la Parola di speranza e di pace a popolazioni ancora pesantemente condizionate da ampie sacche di paganesimo. Camminando e predicando attesero invano la licenza evangelica che certamente Silvestro II intendeva concedere. Latore di questa licenza avrebbe dovuto essere proprio Bruno di Querfurt, cronista del martirio. Il suo racconto, su questo punto, si fa lacunoso e vago: evidentemente la richiesta non giunse mai a Silvestro II: cinque monaci furono trucidati dai pagani e Bruno subirà la medesima sorte pochi anni più tardi. Tuttavia la sua predicazione giungerà ai confini della Russia di Kiev, mostrando una capacità di penetrazione cui solo la barbarie pagana impedirà di portare frutto.

Ma torniamo a osservare da vicino Silvestro II, colui che sarebbe passato alla storia come il "Papa dell'anno 1000". La sua figura divenne leggendaria. Gerberto non solo era versato in ogni campo del sapere medioevale, dalla teologia alla matematica alla filosofia, ma aveva anche un'abilità tecnica che gli permetteva di progettare e costruire meccanismi tanto complessi da risultare, a quel tempo, stupefacenti. E di un presunto automa androide si parlò anche nel famoso processo contro i Templari. Fu l'autore di molte scoperte precorritrici, tra cui l'orologio meccanico. In sostanza l'orologio moderno, remoto antenato di tutti i misuratori del tempo, basato su un congegno meccanico, non idraulico, fu inventato da un pontefice di Santa Romana Chiesa. Fu il primo ad ideare un orologio con il sistema "a peso". Il principio, più affidabile dello sgocciolio dell'acqua (che nei mesi freddi poteva gelare bloccando così il meccanismo), appare relativamente semplice: un peso è collegato, mediante una funicella, ad un contrappeso minore, identico al peso della funicella. Questa è arrotolata su un cilindro, la cui rotazione regolare è comandata da una ruota dentata; la rotazione di quest'ultima, a sua volta, è regolata da un asse con due denti opposti, che si inseriscono alternativamente girando sul pendolo. L'invenzione di Papa Silvestro II, che contribuì anche alla diffusione della numerazione araba al posto di quella romana, ha una importanza tecnica enorme: si garantiva all'orologio una propria autonomia di funzionamento.

Dai cronisti dell'epoca apprendiamo che egli inventò anche un "globo celeste in cui tutti gli astri avevano proprie orbite e propri movimenti e compivano in tempi proporzionati le proprie rivoluzioni"[4]. Si trattava, evidentemente, di un planetario, ma non mancò anche la creazione di un organo a vapore, tutte invenzioni distrutte alla sua morte. Silvestro II fu il primo papa della storia a lanciare un appello per la liberazione del Santo Sepolcro dai musulmani che spesso non lasciavano passare i pellegrini in visita alla Terra Santa. Appello che non fu raccolto allora, poiché non si era ancora pronti per una guerra santa. Anch'egli, come il predecessore, fu oggetto di minacce e ribellioni. Fu anche costretto a fuggire da Roma nel 1001. Ottone III morì il 23 gennaio del 1002 ed il papa non sopravvisse molto a lungo al "suo" imperatore ed anche sulla sua morte le leggende si moltiplicarono. Meridiana, l'abbiamo visto precedentemente, gli aveva rivelato che sarebbe morto "non prima di dire messa a Gerusalemme". Silvestro interpretò questa frase nel suo senso letterale e individuò Gerusalemme proprio nella città santa. Sarebbe dipeso solo da lui decidere se recarvisi o meno in pellegrinaggio. Ma il destino decise diversamente. Un giorno gli capitò di dire messa in una chiesa che prendeva il nome di Santa Croce in Gerusalemme dalla trave che poggiava su quella che recava l'iscrizione fatta mettere da Pilato sulla croce di Cristo.

Mentre diceva messa, vide apparire davanti a sé la fata Meridiana. La riconobbe e, dopo essersi fatto dire il nome della chiesa, capì che era giunto il momento. Chiamò tutti i preti, i prelati, i cardinali e la gente e, dopo avere reso pubblica confessione ed ordinato che da allora in poi l'ostia ed il vino venissero consacrate con il viso rivolto ai fedeli, chiese che il suo corpo fosse messo su un carro trainato dai buoi e che poi fosse sepolto nel luogo dove i buoi si fossero fermati.

Così fu. Il carro si fermò nell'atrio della chiesa di San Giovanni in Laterano, dove Silvestro tuttora riposa. Anche dopo la morte le leggende non l'hanno abbandonato: si diceva che, nell'imminenza della morte di un papa, dalla sua tomba scendesse un rivolo d'acqua; se invece si avvicinava la morte di un cardinale, la tomba si inumidiva leggermente. Tutto questo sarebbe avvenuto fino al 1648, quando il sepolcro venne aperto per una ricognizione e fu l'ultima magia: le spoglie del pontefice furono trovate perfettamente intatte, con le braccia incrociate e la tiara sul capo, ma, al contatto dell'aria, si dissolsero in un attimo.

Di lui ci restano varie lettere, una vita di S. Alberto ed opere scientifiche. Questo fu Silvestro II[5], a cui successe, nel giugno 1003, il romano Sicco (papa Giovanni XVII, che morirà nello stesso anno): un protagonista del suo tempo, rivolto al futuro. Un personaggio enigmatico, ma, al tempo stesso, imponente, con tutte le sue ricchezze intellettuali e le sue contraddizioni. Tra misticismo e magia. Fu apostata e cristiano, scomunicato e papa, ma ha rappresentato la cultura del suo tempo nel II Millennio.

 

NOTE

 

[1] Si diffuse anche la leggenda che avesse venduta l'anima al diavolo per soddisfare la sua smodata passione per l'erudizione. Per trovare un primo tentativo di lettura critica ed aliena dal pregiudizio, bisognerà attendere il sedicesimo secolo, allorche' il cardinale Baronio (1538-1607), nei suoi Annales ecclesiastici, mostrerà di non attribuire alcun credito alle dicerie riguardanti il pontefice.

[2] Per alcuni studiosi il Golem è il riflesso della coscienza di Gerberto, che si interroga e si risponde da solo, già consapevole, inconsciamente, del proprio destino. Anche se può sembrare strano, la costruzione di simili automi dal misterioso funzionamento viene attribuita a diversi studiosi, tra cui S. AIberto Magno, Ruggero Bacone, Arnaldo di Villanova.

[3] Vivendo a Roma in quel periodo, Gerberto non si preoccupò della profezia, dato che riteneva improbabile un viaggio fino a Gerusalemme. Solo nel momento culminante capirà il senso reale di quelle parole e la visione di Meridiana confermerà il suo sospetto.

[4] P. Richer, Gerbert d'Aurillac, Le pape de l'an Mil, Paris 1987; trad. it.: 'Il papa dell'Anno Mille', Milano 1988.

[5] Di grande ausilio per la stesura del saggio è stato lo studio di Roberta Fidanzia, Silvestro II: un papa a cavallo dell'anno Mille (fra storia e leggenda), che si può apprezzare nella Rassegna Storia On line sul sito www.medioevoitaliano.org/fidanzia.silvestroii.pdf. Altri testi utilizzati quali fonti bibliografiche: Mario Bacchiega, Silvestro II. Papa mago. Bastogi, 1981, Foggia; C. Rendina, I Papi. Storia e segreti, I grandi tascabili economici Newton, Roma, 1996.


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Inviato il 13 gennaio 2006 16:04 Autore

COME LA NAVE COLONIALE "ERITREA"GABBÒ LA MARINA BRITANNICA

Ua nostra unità, intrappolata nella base navale italiana di Massaua (1941), tenta

di sfuggire agli inglesi. Missione disperata. Dall'Oceano indiano al Giappone

 

 

 

Quando verso la fine di gennaio del 1941 la situazione militare in Africa Orientale Italiana iniziò ad aggravarsi e fu subito chiaro che la grande offensiva scatenata dalle forze britanniche di stanza in Sudan avrebbe prima o poi investito anche la base navale di Massaua (Eritrea), Supermarina attuò alcuni provvedimenti, preventivamente studiati, relativi all'abbandono della base da parte di tutte quelle unità, civili e militari (italiane ma anche di nazionalità tedesca), in grado di raggiungere porti neutrali o amici. Tuttavia, ai responsabili delle forze navali italiane di Massaua (nella fattispecie, l'Ammiraglio Bonetti) fu subito chiaro che il tentativo di sfuggire alla morsa nemica sarebbe riuscito soltanto ad un numero relativamente modesto di unità, cioè a quelle dotate di autonomia e attrezzature sufficienti ad affrontare le traversata che le avrebbe dovute condurre in salvo.

Per quanto concerneva la squadra militare, le uniche navi adatte ad intraprendere una così difficile missione (i porti neutrali o amici più vicini erano quelli della colonia francese del Madagascar) risultavano essere la nave coloniale Eritrea e le ex bananiere Ramb I e Ramb II, che erano state recentemente trasformate in incrociatori ausiliari. Dopo avere analizzato tutte le possibili rotte da percorrere, Supermarina decise di fare tentare alle tre unità (che tra tutte erano quelle in migliori condizioni e le uniche armate) la traversata più lunga e difficile: quella che avrebbe dovuto condurle in Estremo Oriente, dove avrebbero potuto trovare rifugio presso i sorgitori controllati dall'alleato giapponese.

L'approntamento delle tre unità venne ufficializzato nei primi giorni di febbraio e, per prima cosa, un folto gruppo di tecnici e marinai venne incaricato di iniziare immediatamente i lavori di revisione degli scafi, degli apparati motore e dell'armamento di bordo, nel mentre l'intendenza della base provvedeva a rifornire le navi di tutto l'occorrente (carburante, pezzi di ricambio, munizioni, viveri, acqua potabile e medicinali) per la missione.

Delle tre unità quella che per caratteristiche tecniche e belliche e per composizione dell'equipaggio risultava forse la più idonea a svolgere una così lunga missione era l'Eritrea: una nave piuttosto moderna (era entrata in servizio il 28 giugno 1937) destinata a specifici compiti coloniali. Senza nulla togliere alle due Ramb che pur essendo anch'esse dei buoni scafi, non erano state però concepite per svolgere impieghi che includessero azioni belliche. La presenza nel Mar Rosso e in Oceano Indiano di diverse basi militari britanniche e di numerose unità da guerra della Royal Navy, faceva infatti intendere che la missione delle tre navi italiane avrebbe, probabilmente, comportato l'incontro e lo scontro con il nemico: eventualità che si sarebbe trasformata in una autentica iattura per i piroscafi civili Ramb che poco avrebbero potuto fare contro navi militari britanniche.

L'Eritrea, dal canto suo, non era certo una nave da guerra temibilissima, ma proprio per le sue caratteristiche "militari" avrebbe potuto, in ogni caso, cavarsela meglio. Ovviamente, solo nel caso di un suo incontro con unità sottili nemiche. L'armamento dell'Eritrea risultava, infatti, sufficiente a controbattere la potenza di fuoco di un dragamine, di una torpediniera o, al massimo, di un caccia. Valutate tutte le soluzioni atte a dare il massimo dell'efficienza tecnica e operativa alla nave, l'ammiraglio Bonetti lavorò affinché l'equipaggio ad essa destinato fosse scelto con grande cura, affidando il comando dell'unità ad un ufficiale di vagliata esperienza: il capitano di fregata Marino Iannucci che alla fine di gennaio era stato fatto venire appositamente dall'Italia a bordo di un trimotore speciale Savoia Marchetti SM75 a lunga autonomia.

 

LA NAVE COLONIALE "ERITREA"

La nave coloniale Eritrea era, come si è detto, un'unità piuttosto moderna e ben riuscita. Impostata il 25 luglio 1935 nel cantiere di Castellamare di Stabia, essa venne varata il 20 settembre dell'anno seguente, entrando poi in servizio il 28 giugno 1937. La nave misurava 96,90 metri, era larga 13,32 metri e aveva un'immersione di 4,73 metri. Lo scafo dislocava 3.117 tonnellate ed era dotato di 2 motori diesel da 7.800 cavalli più 2 propulsori elettrici da 1.300 cavalli, che consentivano una velocità massima (diesel) di 20 nodi e una (elettrica) di 11. L'autonomia dell' Eritrea era di 6.950 miglia marine ad 11,8 nodi di velocità (diesel). E l'armamento di bordo era composto da 4 cannoni da 120 millimetri (su due torrette binate, prodiera e poppiera, parzialmente scudate), da 2 cannoncini semiautomatici da 40 mm. antiaerei e da 2 mitragliere da 13,2 mm. antiaeree. L'equipaggio della nave era formato da 13 ufficiali e 221 marinai.

 

GIAPPONE E GERMANIA LESINANO LA LORO COLLABORAZIONE

Prima di addentrarci nel racconto della missione dell'Eritrea, è opportuno fare il quadro della situazione politico-militare del periodo, in stretta relazione con gli avvenimenti concomitanti e con l'atteggiamento diplomatico del Giappone, nazione alla quale il Governo italiano aveva chiesto la necessaria collaborazione per la riuscita della missione dell'Eritrea e delle Ramb I e Ramb II. In un primo momento (nell'autunno del 1940), la disponibilità a cooperare da parte di Tokyo era apparsa ai vertici di Supermarina (organo al quale spettava, ovviamente, il coordinamento di tutte le operazioni coinvolgenti le unità italiane) quasi certa.

Tuttavia, dopo qualche mese (tra il febbraio e il marzo 1941), il governo dell'alleato nipponico decise di fare un passo indietro, costringendo il Comando della Regia a modificare improvvisamente alcuni dettagli inerenti all'operazione combinata delle tre unità. Nella fattispecie, quando gli addetti militari giapponesi a Roma vennero a sapere che era intenzione di Supermarina non soltanto fare fuggire le sue navi dislocate a Massaua in direzione del Far East, ma fare compiere ad esse, durante la traversata, azioni di guerra nei confronti di isolati piroscafi britannici, Tokyo comunicò subito la sua totale disapprovazione, minacciando di ritirare ogni promessa fatta in precedenza.

Per questa ragione, l'11 marzo del '41, cioè ben più tardi della partenza delle tre navi da Massaua (in quella data l'Eritrea e la Ramb II si trovavano in procinto di passare dall'Oceano Indiano al Mar delle Molucche, mentre la Ramb I - comandata dal tenente di vascello Bonezzi -giaceva già in fondo al mare essendo stata intercettata e affondata da un incrociatore britannico Leader ad ovest delle Maldive il 27 febbraio), Supermarina dovette comunicare ai comandanti delle due unità superstiti (la Ramb II era comandata dal tenente di vascello Mazzella) di astenersi tassativamente da qualsiasi azione offensiva.

Contrordine che venne impartito per due precisi motivi: l'assoluta volontà manifestata dal Giappone di non inimicarsi l'Inghilterra e gli Stati Uniti e la presenza in Oceano Indiano di navi corsare tedesche che già da tempo si appoggiavano, più o meno segretamente, a basi nipponiche del Pacifico. Nella circostanza, fu anche l'atteggiamento, altrettanto palesemente contrario, dell'Ammiragliato germanico (che temeva un'intrusione di unità italiane, peraltro bellicamente poco efficienti, nelle aree battute dai propri efficientissimi "corsari") a fare desistere Supermarina dai suoi progetti offensivi. A questo proposito, va ricordato che, ai primi di marzo del '41, il responsabile dell'ufficio Collegamento della Kriegsmarine di Roma, ammiraglio Weichold, aveva messo in guardia Supermarina circa "l'inopportunità diplomatica e tecnica di una disposizione - quella di affidare all'Eritrea e alle due Ramb il compito di effettuare 'guerra di corsa' in Oceano Indiano o in Oceano Pacifico - che avrebbe potuto incrinare seriamente i rapporti tra Germania, Italia e Giappone": un consiglio, quello dell'ammiraglio tedesco, che assumeva, per il tono e la sostanza, i connotati di un vero e proprio ordine che il Comando della Regia (già fortemente dipendente nei confronti della Germania per le forniture di nafta) non ebbe la forza di ignorare.

 

UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA

L'Eritrea lascia la base di Massaua all'imbrunire del 18 febbraio, e la sera seguente supera agevolmente lo stretto di Bab el Mandeb, sfuggendo alla ricognizione aerea inglese di base ad Aden. Il 22, quando la nave si trova a circa 250 miglia dalla costa somala, il comandante Marino Iannucci è costretto ad ordinare il "posto di combattimento" per l'avvistamento di un'unità sconosciuta, individuata ad una distanza di circa 30 chilometri. Passato un quarto d'ora, il comandante ha più chiara la situazione, distinguendo con il binocolo alcune caratteristiche della nave che si rivela essere un grosso incrociatore ausiliario inglese da 12/14.000 tonnellate, presumibilmente armato con più pezzi da 152 millimetri.

Fortunatamente, l'unità inglese (dopo avere, a sua volta, avvistato l'Eritrea) effettua un'improvvisa manovra di allontanamento, dando la chiara impressione di volere evitare lo scontro. Il comportamento del nemico agevola Iannucci che fa subito accostare a dritta l'Eritrea, favorendo l'allontanamento. L'equipaggio italiano tira un sospiro di sollievo. Tuttavia, alle 19,23 del giorno successivo le vedette dell'Eritrea avvistano, al largo dell'Isola di Socotra, un altro piroscafo che viaggia a fanali spenti. Gli uomini tornano ai loro posti di combattimento. La sensazione di Iannucci è infatti quella di trovarsi di fronte ad un "avviso scorta" della classe Pathan.

Giunto ad una distanza di 6.000 metri, il comandante italiano accosta e cerca di allontanarsi, ma si accorge che la nave nemica non intende abbandonare il contatto visivo, forse per fare accorrere sul posto altre unità da guerra. Iannucci sa bene che in quel quadrante di Oceano sono frequenti i convogli scortati britannici operativi lungo le rotte Socotra-Mahè e Mombasa-Bombay. Il rischio di essere intercettati da preponderanti

 

forze nemiche è quindi molto alto. La tensione a bordo sale. Gli artiglieri, in posizione ai loro pezzi da 120 e anche le mitragliere da 40 e quelle da 13,2 sono pronti al tiro. Le vedette scrutano l'orizzonte, ma la visibilità è molto bassa a causa dell'oscurità.

Sulla plancia, accanto ad alcuni marinai fa la guardia anche un personaggio decisamente strano, un ascaro eritreo quarantenne di nome Mohammed Shun Omar; un uomo alto, magro e con il turbante bianco in testa. Egli è l'unico elemento di colore imbarcato sull'Eritrea. Mohammed viene più volte consultato dai suoi compagni. Gira voce che sia dotato di un particolare intuito extrasensoriale. In circostanze drammatiche come questa, i marinai, stirpe notoriamente scaramantica, si appellano non soltanto a ciò che è noto ma anche all'ignoto. Mohammed guarda l'oscurità, senza battere un ciglio, in totale silenzio, poi si volta verso i compagni e li rassicura sussurrando: "Tranquilli, la nave nemica non aprirà il fuoco". E così accade.

Il comandante Iannucci, dopo avere tentato invano di sganciarsi dall'unità inglese, sempre alle calcagna, cerca di allungare la distanza che separa quest'ultima dall'Eritrea (i due scafi stavano viaggiando quasi paralleli e ad una distanza di neanche due chilometri). La situazione si fa troppo pericolosa. Da un momento all'altro i cannoni della nave nemica potrebbero aprire il fuoco. Gli artiglieri italiani sono sempre ai loro posti, ma Iannucci preferirebbe evitare un combattimento. Un colpo fortunato dell'avversario potrebbe colpire qualche organo vitale della nave o peggio (sulla coperta sono, tra l'altro sistemati, ben 750 fusti di nafta aggiuntivi imbarcati a Massaua per aumentare l'autonomia della nave) e compromettere l'intera missione.

Quindi, meglio sganciarsi, protetti da una cortina fumogena. E così l'Eritrea accosta a dritta verso sud, azionando i fumogeni che in pochi minuti la avvolgono completamente. Sconcertata dall'improvvisa manovra di Iannucci, la nave inglese non apre il fuoco e cerca invece di aggirare la cortina di sopravento per poi accostare a sinistra e riprendere il contatto. Ma la manovra fallisce in quanto l'Eritrea riesce a dileguarsi nella notte. Come raccontò lo stesso comandante Iannucci: "alle 23,00, dopo accuratissime esplorazioni, le mie vedette si accorsero che il nemico era stato seminato. La missione poteva quindi procedere e l'Eritrea si avventurava in pieno Oceano Indiano, in direzione sud-sud est", lasciandosi alle spalle l'isola di Socotra, e il nemico con un palmo di naso.

L'8 marzo 1941, dopo circa 16 giorni di navigazione piuttosto tranquilla nel corso della quale l'Eritrea non incrocia navi nemiche, l'unità italiana raggiunge le acque a sud di Giava, tra la grande isola olandese e il piccolo isolotto di Christmas. Tutto procede per il meglio: il morale dell'equipaggio è altissimo e i motori dell'unità non sembrano affaticati dalla lunga traversata. L'Eritrea è quasi a metà del suo viaggio. Il comandante Iannucci annota sul suo diario di bordo: "Fra tre giorni mi troverò nei mari della Malesia. Le rotte e i passaggi sono obbligati; non ho come in Oceano Indiano la possibilità di evitare di essere avvistato da qualche nave nemica e di sfuggirle scegliendo la rotta che più fa comodo nei 360° dell'orizzonte.

Sono quindi costretto a provvedere al camuffamento della nave. Ed escludendo che possa trasformare l'Eritrea in un mercantile, non mi rimane che cercare sull'almanacco navale un'unità militare appartenente ad un paese neutrale che abbia una sagoma abbastanza vicina alla nostra". Dopo qualche ora di attenta ricerca, Iannucci trova sull'annuario una bella immagine fotografica del Pedro Nunez, un avviso scorta portoghese che, assomiglia parecchio all'Eritrea. La scelta da parte di Iannucci di una nave lusitana non è casuale. Il Portogallo possiede infatti metà orientale dell'Isola di Timor (quella occidentale è sotto dominio olandese) e come nazione non belligerante può inviare in quelle acque (che verranno solcate dall'Eritrea) qualsiasi nave militare, senza che la Marina britannica se ne preoccupi più di tanto.

Per cercare di fare coincidere il più possibile le caratteristiche esterne delle due unità, Iannucci fa innalzare sull'Eritrea un finto tripode di prora e fa costruire un altrettanto finto pezzo di murata lungo la sezione poppiera di coperta. "Oltre a ciò, rivestiamo due stralli

 

del trinchetto in modo che abbiano un diametro di una trentina di centimetri, e invece che a murata faccio loro dormiente in coperta più spostati al centro, in modo che il tripode risulti giustamente divaricato. Alla battagliola di poppa, infine, faccio mettere il para gambe pitturato in grigio come il resto dello scafo". Effettuate queste modifiche, l'Eritrea risulta quasi completamente somigliante al Pedro Nunez. Intanto la navigazione procede e la nave italiana punta verso l'Isola di Sumba, situata ad occidente di Timor.

L'11 marzo, Iannucci riceve un telecifrato da Supermarina che gli consiglia il passaggio lungo il canale tra Timor e la piccola isola di Alor per poi addentrarsi nel Mare di Banda. Il 14 marzo, dopo avere doppiato la costa ovest dell'Isola di Buru ed essere riuscita a sfilare ad occidente dell'Isola di Waigeo, l'Eritrea esce dal Mare di Banda ed entra finalmente nell'Oceano Pacifico, puntando decisamente verso nord-est. Il 16 marzo, la nave si lascia sulla sua destra l'Isola di Yap (Isole Caroline occidentali) e prosegue la sua navigazione verso nord in direzione delle Isole Bonin, che raggiunge il giorno 18.

L'Eritrea naviga ora in una zona posta sotto il controllo della Marina Imperiale giapponese. Salvo qualche sgradito ma improbabile incontro con qualche unità britannica, la lunga missione sembra volgere a termine nel migliore dei modi. E così è. Pochi giorni dopo essersi lasciata alle spalle le Bonin, la nave coloniale italiana raggiunge Kobe. Ad accogliere e a festeggiare il comandante Iannucci e il suo equipaggio non sono in molti. Soltanto una piccola e discreta delegazione diplomatica e militare italiana attende su un molo. La conclusione dell'epica missione dell'Eritrea non deve suscitare infatti troppo clamore.

Questo è il desiderio espresso dal governo e dalla Marina di Tokyo che, curiosamente, proprio in quei giorni stanno ultimando in gran segreto i dettagli di un eventuale attacco a sorpresa contro le forze anglo-americane in Asia.


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Inviato il 16 gennaio 2006 20:32 Autore

QUANDO GLI INVISIBILI RAMBO COMBATTEVANO PER I MUJAHE

La guerra segreta in Afghanistan (1979 - 1988). L'invasione da parte dell'Armata Rossa e la controreazione clandestina degli Usa

 

L'Afghanistan è situato in una collocazione strategica dell'Asia centrale, anche se non si può certo dire che la geografia abbia contribuito molto alle fortune del Paese. Anzi è quasi possibile affermare il contrario, dato che l' Afghanistan ha pagato spesso un prezzo assai salato a causa della sua condizione di stato cuscinetto. D'altra parte le guerre e le occupazioni militari straniere ne hanno contrassegnato la storia passata e presente.

Senza dover rifare in questa sede la storia degli ultimi secoli di quel contrastato territorio, sarà sufficiente, ai fini del nostro argomento, partire dall'inizio degli anni Settanta. Esattamente dal 1973, quando il principe Mohammad Daud, approfittandosi dell'assenza del re Zahir, ricoverato in un ospedale in Italia per motivi di salute, diede il via ad un colpo di stato che portò all'abolizione della monarchia e alla nascita della prima repubblica

L'Armata Rossa in Afghanistan

 

afgana. Presidente, nonché Primo Ministro della nuova Repubblica, manco a dirlo, fu lo stesso Daud. n regime di Daud, in verità assunse anche toni progressisti, fortemente ispirati da un sincero spirito riformista e sostenuti dallo scopo di modernizzare il paese. Ad esempio, vennero introdotte alcune riforme sociali che prevedevano, tra l'altro,

l'abolizione dell'esclusione delle donne dalla vita pubblica. Tuttavia, questa suggestione civilizzatrice fece ben presto i conti con l'altra vocazione di Daud che era dichiaratamente di matrice totalitarista. Infatti, nonostante le attese inizialmente riposte in lui dalle varie forze politiche e sociali, Daud procedette a porre i massimi poteri sotto il suo controllo dando inizio alla violenta repressione di tutte le opposizioni.,

Di fronte aD'abolizione della monarchia e aII'instaurazione di un nuovo governo, e temendo una crisi di successione nel paese, Unione Sovietica, Stati Uniti e Pakistan cominciarono a far aftluire ingenti aiuti ai gruppi d'opposizione all'interno del paese. n 27 aprile 1978, con l'aiuto dell'esercito, un movimento d'opposizione, il PDP A, rovesciò il regime di Daud e proclamò la Repubblica Democratica dell'Afghanistan (RDA) con Presidente Nur Mohammad Taraki.

 

Nella tradizione afgana la guerra è una costante presenza. La storia del paese è costellata di conflitti, soprattutto tribali, che testimoniano quanto poco fosse omogeneo quel popolo formato da una miriade di tribù. Così, non sorprenderà il lettore sapere che poco tempo dopo la nascita della RDA, scoppiarono molteplici rivolte nel paese. Spesso sostenitrice di tale situazione fu la guerriglia islamica che intensificò le proprie attività, cominciando a dare filo da torcere alle forze governative. La situazione a Kabul si complicò il 16 settembre 1979, quando Taraki venne ucciso da Amin, che concentrò nelle sue mani il poco potere rimasto. Ormai il livello di guardia era stato abbondantemente superato; in Afghanistan poteva accadere quello che era avvenuto in Iran.

A fame le spese maggiori sarebbe stata, senza ombra di dubbio, l'Urss, i cui confini sarebbero stati minacciati da un altro stato islamico, presto o tardi seguito dalle repubbliche socialiste a maggioranza musulmana come Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan.

I sovietici cominciarono a prendere in seria considerazione l'ipotesi di un intervento diretto, che prontamente avviene il 27 dicembre del 1979.

La nostra attenzione si sposta, a questo punto, alle prime ore di quel giorno invernale. Un pallido sole illumina Kabul. L'inverno in Afghanistan è particolarmente duro. La capitale si sta svegliando pigramente; quella notte il termometro ha toccato i dieci gradi sottozero e i pochi cittadini della capitale, che escono di casa per recarsi al lavoro, non si aspettano certo la sorpresa che i sovietici hanno in serbo per loro. Così, quando i primi carri armati sovietici entrano in città sono veramente pochi ad accorgersene. Si tratta di un contingente pari a una divisione che si preoccupa immediatamente di impossessarsi dei palazzi pubblici. Tra le prime vittime a cadere sotto il fuoco degli invasori c'è il presidente Amin, freddato senza pietà per aver avuto il coraggio di opporsi alla volontà del Cremlino. Al suo posto si insedia, quasi immediatamente, Babrak Karmal, che fino a quel momento ha vissuto in Cecoslovacchia come esule. Karmal è uno dei leader del People's Democratic Party ed è un fedelissimo di Mosca, destinato a restare al suo posto sino al 4 maggio 1986.

 

I paracadutisti sovietici hanno ricevuto l'ordine di sparare su chiunque accenni anche solo minimamente alla resistenza. Non importa che indossi la divisa o il tradizionale vestito afghano. L'importante è non correre rischi. Velocemente i centri nevralgici ella città e del paese sono occupati dai soldati di Mosca.

L'azione, fulminea e violenta, suscita immediatamente la condanna di ogni musulmano del

 

Caucaso e dell'Asia centrale, che dal 1978 aveva nutrito la seria speranza di assistere anche nel loro paese agli avvenimenti dell'Iran, dove Khomeini, con i suoi aihatollah, aveva costretto all'esilio lo Scià. Nasce cosÌ, quasi spontaneamente, l'opposizione armata dell'unione islamica, che riunisce le varie fazioni dei guerriglieri mussulmani (mujaheddin). Iran e Pakistan divengono velocemente paesi ospitali e solidali, dove impiantare le basi logistiche dei mujaheddin afghani, e di tutti coloro i quali hanno compiuto la scelta di resistere al sopruso sovietico. (Il termine "mujaheddin" letteralmente significa "combattenti per la fede", traslitterato anche come mujiihidin, mujahedeen, mujahedin, mujahidin, mujahideen, ecc.) è la forma plurale di mujahid, che si traduce letteralmente dall'arabo con il termine "combattente", qualcuno che si impegna nella jihad, o "Iotta', ma viene spesso tradotto come "guerriero santo". (Si veda a tal proposito il sito Internet http://it. wikipedia.orgiwiki/Invasione_sovietica_dell'Afghanistan). Come abbiamo detto, le ragioni di tale invasione devono essere certamente ricercate nel timore sovietico dell'estensione della ribellione afghana alle repubbliche islamiche dell'Urss (Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan).

Pochi giorni dopo l'inizio delle operazioni militari, gli effettivi russi ammontavano a ben 90.000 uomini. Dopo Kabul, caddero repentinamente anche Kandar e Mazar-I-Sharif, Herat e Jalalabad. L'Armata Rossa si dirigeva verso Kyber Pass e gli altri valichi tra le montagne dell'Hindu Kush che portano ai centri pakistani di Peshawar e Rawalpindi, già da tempo basi della guerriglia islamica e destinate nei prossimi mesi a divenire luoghi protetti dei mujaheddin. L'Armata Rossa si aspettava cosÌ di bloccare i collegamenti con il Pakistan, isolando l'intero paese. Ma Bremev e gli esperti militari del Cremlino non avevano calcolato il ruolo della religione in un paese come l' Afghanistan.

 

Spesso i soldati utilizzati dai russi erano di religione islamica, perché provenivano proprio dalle repubbliche socialiste dell'Asia centrale che si voleva difendere dalle pericolose penetrazioni musulmane. Oppure si trattava di soldati afghani che avevano aderito alla causa russa, ma che comunque erano correligionari dei mujaheddin. Un musulmano non spara ad un altro musulmano, specie se quest'ultimo si definisce "combattente per la fede". Inoltre, se la religione non basta a giustificare i primi insuccessi russi, certamente l'impreparazione militare di molti soldati, soprattutto afghani, basterà a farlo.

Inizialmente, quindi, i mujaheddin hanno facilmente ragione dei loro avversari. Fallì miseramente la prima di ben nove offensive sovietiche stabilita per spezzare la resistenza di questi soldati anticonvenzionali. Uno degli eserciti più forti del mondo, spina dorsale di un impero ideologico a cui per forza ed estensione è riconosciuto il rango di super potenza, non può essere fermato, come ebbe a sostenere un alto ufficiale russo: " ... da quattro straccioni male armati e male odoranti, che hanno più familiarità con un mulo che con un'arma".

Ma i mujaheddin erano, per dirla alla russa: doushki, fantasmi, inafferrabili guerrieri santi del nemico. Questi ultimi sferravano attacchi feroci e velocissimi. A Herat riuscirono ad infliggere numerosissime perdite, affrontando e sconfiggendo un intero reggimento corazzato russo. I "Kalashnikov" spesso erano sottratti dalle caserme degli stessi russi; inoltre, i combattenti di Allah non si limitavano a difendere le posizioni, ma prendevano sempre più frequentemente l'iniziativa. In particolare si distinsero le milizie di Ahmed Shad Massud, "il leone del Panishir", il più famoso dei leader che guidava gruppi di guerriglieri, apertamente formatisi nei primissimi giorni della reazione antisovietica:.

Nel maggio 1986 l'URSS decise di sostituire Babrak Karmal con l'ex capo della polizia segreta Najibullah, che tentò invano una politica di riconciliazione nazionale, annullando molte delle misure prese dai predecessori. Tuttavia la resistenza dei mujaheddin proseguì, sempre guidata dal comandante tajiko Ahmad Sha Massoud.

 

E fin qui nulla di nuovo. Sull'invasione dell' Afghanistan da parte dell' Armata Rossa si sono versati fiumi di inchiostro, sono stai pronunciati discorsi a non finire negli idiomi più diversi. I libri e gli articoli sull'argomento non si contano e gli effetti furono, potremmo dire con un certo gusto ante litteram, globalizzanti. Si pensi solo al boicottaggio delle olimpiadi di Mosca del 1980 da parte degli Usa e di Paesi vicini all' amministrazione americana. Alla fine, in segno di protesta numerosi paesi filo-occidentali non parteciparono all'importante rendez-vous sportivo.

Per il resto assistiamo al solito "balletto" di accuse reciproche tra superpotenze a cui ci ha abituato la Guerra Fredda. Gli americani incolpano i russi di invadere un paese indipendente, i russi, che non accettano denunce da chi ha fattolo stesso in Vietnam e in molti altri luoghi, rispondono che si tratta di un' azione preventiva, destinata, appunto, a frenare il dilagante problema islamico sorto con la rivoluzione di Komeini. Anche da questo si può facilmente comprendere come il concetto di "guerra preventiva" non sia certo una trovata degli ultimi anni.

Nel frattempo nasce e si diffonde l'opposizione armata dell'Unione islamica, che riunisce le varie fazioni dei guerriglieri musulmani (i mujaheddin, appunto) stanziati nella cittadina di Peshawar, al confine con il Pakistan.

Chi sono questi uomini? Luciano Garibaldi nel suo libro, Un secolo di guerre, li descrive come "... ciò che di più variegato si potrebbe immaginare: la loro età spaziava dai verdi anni degli adolescenti (non erano rari i combattenti di 12 o 13 anni) alle rnghe dei veterani della terza guerra d'indipendenza afghana, gli ultraottantenni che avevano affrontato e battuto gli inglesi nel lontano 1919. Un esempio di fierezza nazionale con ben pochi precedenti in tutto il mondo". E ancora: "1/ mujaheddin non dorme, non mangia, vive nelle grotte delle montagne, usa pugnali e bombe a mano. E all~rmata Rossa non resta che copiare la strategia americana nel Vietnam: bombardamenti aerei, villaggi rasi al suolo, esodi biblici delle popolazioni"".

Vietnam, sindrome del Vietnam, pantano indocinese. Gli spettri del passato agiscono, a volte, in modo più intenso e pervicace dell'azione militare.

 

Per la "giovane"amministrazione Reagan il paragone si trasformò presto nel motto: "Fare dell' Mghanistan il Vie1nam russo". Così, l'opinione pubblica internazionale, che era rimasta così colpita dagli elicotteri americani in fuga dall'ambasciata di Saigon, sarebbe rimasta parimenti impressionata dagli Hind sovietici che lasciavano in fretta e furia i tetti di Kabul. Insomma, l'assunto che non basta essere una superpotenza per avere ragione del nemico, soprattutto quando l'avversario si nasconde tra le montagne, usando la medesima tattica del "mordi e fuggi" adottata dai vietcong, doveva tradursi in un assioma incontrovertibile.

Le previsioni dell' amministrazione Reagan si trasformarono presto in realtà. La Russia si trovò ad avere che fare con un' interminabile ossessione, che presto si tradusse nelle immagini deformate di un incubo.

Sin da subito apparve chiaro agli osservatori che la guerra sarebbe durata a lungo. I fatti d'arme non tardarono a fornire le prove per verificare l'ipotesi, visto che già i primi mesi del 1981 furono contrassegnati dalla vittoria dei mujaheddin nella battaglia di Paghman, una località distante solo 20 chilometri da Kabul. Allo smacco militare seguì presto l'insuccesso di ben due offensive dell'esercito russo rispettivamente a giugno e a settembre dello stesso anno. Nel 1982, l'armata russa si rafforzò, visto che arrivarono truppe fresche per permettere il successo di una serie di operazioni militari di terra appoggiate dall'aviazione e dall 'utilizzo egli elicotteri.

Anche da questo punto di vista è possibile tracciare un paragone con il conflitto in Vietnam. Le immagini degli elicotteri statunitensi utilizzati spesso in appoggio alle truppe di terra è un classico di quel conflitto. Un'abitudine alla quale ci ha addestrato anche Hollywood con film come "Apocalipse now","Platoon", etc. Ebbene, se si deve cercare un protagonista del conflitto russo - afghano, non lo si deve rintracciare solo tra gli uomini ma anche tra i mezzi. Si tratta del Hind, la più importante arma sovietica: più importante persino dei supersonici Mig 27 e SU 25.

 

In particolare il MI 24 Hind, l'elicottero d'assalto, apriva vuoti micidiali tra le file dei guerriglieri, che venivano decimati soprattutto con il lancio di gas tossici. Collaboravano con i russi anche soldati "fratelli" giunti un po' da ogni latitudine dell'impero rosso: cubani, tedeschi dell'Est, bulgari, vietnamiti, siriani.

Altro protagonista della guerra,inconfondibile compagno dei mujaheddin fu il fucile d'assalto AK-47, arma di fabbricazione russa che per la sua robustezza ben si adattava alle difficili condizioni ambientali della "guerra di resistenza".

Comunque andassero le cose i combattenti afghani non erano certo soli. Numerosi e variegati amici li aiutavano, li consigliavano e soprattutto provvedevano agli armamenti. Si trattava di organizzazioni spesso poco note al grande pubblico come l'ISI pakistana (servizi segreti pakistani), anche se chi teneva le fila dell'organizzazione era principalmente la CIA.

Si potrebbe parlare, parafrasando il giornalista scrittore John K. Cooley, di un'organizzazione dalla duplice struttura. Un'organizzazione piramidale, potremmo quasi definire "classica", organizzata verticalmente il cui vertice è rappresentato dai quadri e dagli ufficiali, in prevalenza pakistani, ma con importanti presenza afghane e di altre nazionalità il cui compito era quello di addestrare i volontari destinati a combattere i russi sulle montagne afghane. A questa struttura se ne affiancava un' altra "orizzontale", diffusa capillarmente in moltissimi paesi, che riappoggiava alle moschee e alle scuole coraniche, il cui scopo era quello di reclutare gli uomini per la lotta.

La "guerra santa" finiva così col servirsi di enti religiosi e filantropici musulmani. Certamente a volte si trattava di associazioni del tutto formali, organizzate dalla stessa !SI se non addirittura fondate dalla CIA, ma a volte no. Un chiaro esempio è dato dalla Tablighi Jamaat, una vasta organizzazione islamica di tipo missionario, con sede in Pakistan, ma con numerose ramificazioni in varie parti del mondo musul mano , ma non solo. L'anno di fondazione della Tablighi Jamaat risale al 1926, quando un gruppo di poche decine di musulmani decise di organizzarsi in associazione per rispondere adeguatamente ai precetti della da wa ("chiamata islamica" che grossomodo corrisponde all'evangelizzazione di matrice cristiana).

 

Tra i padri fondatori, il posto d'onore spetta a Maulana Mohammed llyas (1885 - 1994), un noto studioso dell'Islam di origini indiane convinto sostenitore della necessità di creare una struttura che svolgesse una missione antagonista alle attività di proselitismo induista. Nacquero così numerose madrasa, scuole coraniche secondarie in cui era professata la parola del Profeta attraverso attività di predicazione e di carità. Le madrasa spesso e volentieri non sostenevano la causa islamica solo da un punto di vista puramente confessionale; presto in quei luoghi in cui il tempo era scandito, più che in ogni altro quartiere cittadino, dal canto del muezzin, cominciò il reclutamento vero e proprio di volontari da inviare ovunque i musulmani fossero impegnati nella Jihaad.

L'organizzazione risultava spesso del tutto ignota agli europei e agli americani non musulmani, mentre godeva di una certa fama tra i seguaci di Maometto. Si pensi che solo nel 1988, a Chicago, riuscì a radunare più di seimila musulmani provenienti da varie parti del pianeta; lo stesso anno la Tablighi Jamaat organizzò una conferenza a Rawindi in Pakistan che attirò più di un milione di islamici. Oggi quella conferenza è diventato un incontro annuale di tale portata nel mondo islamico da essere secondo solo a uno dei cinque capisaldi dell'Islam, il tradizionale ha}, meglio noto come pellegrinaggio alla Mecca.

n metodo della Tablighi era ispirato alla più rigida ortodossia, non rivolta in senso involutivo, interiore che d'altra parte è consequenziale per chi preferisce gli studi teorici del Corano, quanto più proiettata verso un acceso attivismo nella predicazione e sull'insistenza sul concetto di fratellanza. I rapporti personali tra i membri sono di gran lunga superiori alla valenza dei testi scritti. I talebani, nel cui nome, "studenti", risiede tutto il paradosso del caso e il cui regime ierocratico si sostituì a quello politico in Afghanistan pochi anni dopo il ritiro delle truppe sovietiche, nasce come espressione di un atteggiamento austero figlio proprio del rigido approccio ortodosso che si realizza nel regolare la vita dei cittadini stabilendone le regole civili, le norme penali finanche a intaccare le libertà individuali.

 

Verso la metà degli anni Ottanta, la Tablighi Jamaat cominciò a far aflluire un numero sempre crescente si combattenti non afghani tra le montagne del Pamir; inizialmente si trattava di uomini che, come in Tunisia, erano stati attirati dall'offerta di un viaggio in Pakistan con lo scopo di approfondire la conoscenza della religione. Normalmente, il corso

Geografia dell'Afghanistan

con divisione tribale

 

aveva durata di sei settimane, alla fine delle quali alcuni funzionari dell'ISI, rigorosamente in abiti borghesi chiedevano se qualcuno fosse disposto a seguire un corso sull'uso delle armi per autodifesa e per delle non meglio definite attività avanzate.

Accettare equivaleva varcare la soglia di un campo di addestramento, dove migliaia di algerini~ egiziani, sauditi e sudanesi vennero introdotti anche sui nemici di Dio: atei, comunisti, russi.

Negli Usa il reclutamento non veniva direttamente gestito dalla CIA, che delegava volentieri il compito alle migliaia di organizzazioni islamiche diffiIse in tutto il paese, pur restando al comando dell'intera operazione. Alla fine l'unico problema risultava essere non tanto il reperimento di uomini, quanto l'addestramento militare, un ostacolo che venne rimosso proprio grazie all'interessamento della CIA.

Esistevano sul territorio statunitense numerosi campi di addestramento militare, nati durante la guerra del Vietnam e che ben si adibivano a palestre per l'ammaestramento all'uso delle armi.

Così John K. Cooley ricorda l'episodio: "Le sedi dell'indottrinamento iniziale dei jùturi combattenti della guerra santa erano modeste e squallide. Una era nel quartiere arabo a New York, a BrookIin, lungo l ~tlantic A venue. Un 'altra era presso un 'associazione di tiro a segno privata in un ricco centro del Connecticut. Altre sedi si trovavano nelle grandi comunità di immigrati arabi e di arabo-americani di Detroit e di Dearbon nel Michigan, di Los Angeles e della baia di San Francisco.

A BrookIin, il Centro per i projùghi AI-Kifah, come veniva ufficialmente chiamato, era invece noto ai gruppi di arabi, arabo-americani e musulmani che arrivavano dall 'estero per incontrarsi e lavorare lì col nome di AI-Jihad, in quanto era la sede sia del reclutamento sia della raccolta di fondi per la Jihad afghana".

 

Ma da dove arrivavano i soldi? Quale era la principale fonte di finanziamento? Una cospicua parte arrivava dalle donazioni a favore dei profughi afghani e non mancavano sostanziose sovvenzioni fatte da privati cittadini come quelli fornite dal magnate saudita del settore immobiliare Osama Bin Laden sul quale torneremo oltre. Tra i sostenitori della Jihad afgana troviamo, inoltre, lo sceicco cieco Ornar Abdel Rahman, il leader islamico egiziano che reclutava a nome e per conto della CIA e che inviò anche due dei suoi figli tra le montagne afghane. Si tratta dello stesso personaggio che nel 1993 sarà coinvolto nel attentato al World Trade Center costato un migliaio di feriti e sette morti. n terrorismo islarnico mostrerà sin da quel momento quanto autonomo e potente fosse diventato, assumendo, dopo la caduta del muro di Berlino, i connotati del nuovo pericolo pubblico numero uno per l'intero mondo occidentale.

Con i soldi raccolti a cui doverosamente si devono aggiungere tutta una serie di fondi segreti messi a disposizione della causa afgana, in alcune zone degli Usa si cominciarono ad aprire campi per favorire l'addestramento militare dei volontari. A capo di questi campi furono posti alcuni Berretti Verdi, molti dei quali veterani del Vietnam (ancora una volta torna il parallelo Aghanistan -Vietnam, n.d.r.). Tra i campi più famosi troviamo Camp Perry, un centro della CIA che giocò un ruolo fondamentale nell'addestrare i futuri combattenti in Afghanistan. Si trattava di circa 25 miglia quadrate di terreno a sud -est di Williamsburg, nello stato della Virginia.

Qui si svolgevano attività variegate tra le quali, sempre a detta di Cooley spiccavano: "l'uso e il rilevamento degli esplosivi, la sorveglianza e la contro sorveglianza, la redazione di rapporti secondo gli standard "aziendali" della CIA, l'uso di armi diverse e la gestione di operazioni antiterrorismo, antinarcotici e paramilitari. Erano inoltre previsti corsi su materie fondamentali come il reclutamento di nuovi agenti, di corrieri e di aiutanti van"".

Scendendo nello specifico, si scopre che i futuri mujaheddin dovevano apprendere i fondamenti di oltre sessanta materie che andavano l'uso di spolette, di temporizzatori ed esplosivi raffinati, dia armi automatiche e semiautomatiche dotate di proiettili perforanti e di dispositivi telecomandati per innescare mine e bombe. Un arsenale che nulla aveva da invidiare a quello di Rambo. Si insegnava ad uccidere un uomo in mille modi e chiunque era nel mirino, ma non un leader politico. Infatti, vigeva la regola, peraltro ratificata da un'ordinanza dello stesso Ronald Regan (Ordine Esecutivo n. 12.333) che stabiliva "Nessuno impiegato o agente per conto del governo degli Stati Uniti sarà coinvolto in omicidi o cospirerà per esseme coinvolto ".

 

Come suonano strane queste parole così generiche, in realtà utilizzate solo nei confronti dei leader politici avversari, mentre agenti della CIA, Berretti Verdi, etc. insegnavano come eliminare il nemico comune strangolandolo, pugnalandolo o addirittura a mani nude. D'altro canto i mujaheddin non erano certo teneri col nemico; un esempio di

 

efferata crudeltà è dato dall'abitudine di tagliare la gola all'avversario, caduto prigioniero, che non si fosse immediatamente convertito alI 'Islam. Il terrore di cadere vivi nelle mani dei "combattenti di Dio" si diffuse velocemente tra le truppe russe, al punto che numerosissimi prigionieri si convertivano prontamente alla fede di Allah pur di non subire l'atroce supplizio. Una crudeltà destinata ad essere esportata in altri Paesi (Algeria, Cecenia, Iraq), divenendo il marchio di fabbrica del terrorismo dei nostri giorni.

La cosa più sorprendente tuttavia è il fatto che accanto alla formazione militare, i volontari subivano un vero e proprio indottrinamento secondo i principi guida della Guerra Fredda, secondo cui durante la guerra, la forza della mente è immensamente superiore a quella del fuoco. Altre nozioni di carattere strategico vennero fornite ai combattenti di Allah, come ad esempio alcune massime di Sun Tzu, tra cui spiccava il detto: " Sottomettere il nemico senza combattere corrisponde al massimo delle capacità". Anche se poi, in realtà, verso la fine del conflitto i mujaheddin sembrarono dimenticare ciò che avevano appreso dai loro istruttori americani negli Usa o dai funzionari dell'ISI in Pakistan, in quanto soprattutto verso la fine degli anni Ottanta, quando ormai le truppe sovietiche battevano in ritirata, spesero un enorme prezzo in uomini e mezzi nel porre le basi fortificate del nemico sotto assedio, senza peraltro conseguire risultati utili.

Da questo punto di vista, per chiarezza, sarà utile rammentare l'episodio di Herat. Quest'ultima era postazione fortificata in una posizione chiave, difesa efficacemente dalle truppe sovietiche e dai loro alleati afghani. I tentativi di conquistarla da parte dei mujaheddin costarono numerosissime vittime senza mai essere coronati da una vittoria militare. La fortezza, alla fine, venne occupata solamente grazie al fatto di essere stata abbandonata dai difensori.

 

Anche la popolazione civile afgana fece ben presto i conti con la guerra. In Vietnam le parti in conflitto non si limitavano a distruggere il nemico, in quanto spesso e volentieri i villaggi che servivano come basi d'appoggio per i viet-cong o che comunque favorivano la causa filo-occidentale erano divenuti obiettivi militari come e quanto lo erano i soldati. La stessa cosa venne fatta anche in Afghanistan. In termini tecnici si definisce "sabotaggio strategico" ed era materia di studio a Camp Perry di eguale dignità "scientifica" del semplice sabotaggio. Si realizzava nella distruzione di villaggi, raccolti o di qualunque prodotto utile a sostenere il regime filo-sovietico di Karmal prima e di Najibullah dopo. Una lezione ben appresa dai terroristi algerini che negli anni Novanta tentarono, con scarso successo, di distruggere gli impianti industriali destinati alla raccolta del petrolio e del metano di proprietà statale o sotto il controllo di capitali stranieri.

Nel conflitto, ad un certo punto, comparve un'arma micidiale, destinata ad un successo e una fama certamente meritata. Si tratta dello Stinger, uno dei missili antiaerei più pericolosi e sofisticati di fabbricazione americana, come presto gli elicotteri Hind sovietici avrebbero imparato a loro spese.

Ma i russi non restarono a guardare. Nel luglio del 1985 venne nominato comandate in capo delle forze russe in Afghanistan il generale Mi kh ail Mitrofanovich Zaitsev, che cominciò la sua opera ammodernando completamente l'addestramento delle truppe, incoraggiando l'iniziativa individuale e spingendo gli ufficiali a cavarsela da soli. Sino a quel momento, la pecca principale dell'esercito russo era stata l'enorme difficoltà di muoversi coordinati in una guerra tra le montagne che aveva più della guerriglia che dello scontro convenzionale. Incoraggiare l'iniziativa individuale, significava conferire ai singoli reparti impegnati sul difficile fronte afghano l'autonomia necessaria per colpire senza chiedere l'autorizzazione a qualche alto papavero in uniforme, significava, in ultima analisi, provvedere al problema tempestivamente senza rendere conto a nessuno del proprio operato. La guerra allora assunse un aspetto terrificante. Fecero il loro ingresso sui campi di battaglia le forze speciali sovietiche, le Spetmas, che non dipendevano ( e non dipendono tuttora) dal GRU, il servizio segreto militare sovietico.

 

Esse erano direttamente sotto il controllo del ed agivano in modo tanto tempestivo quanto micidiale da lasciare stupiti gli stessi militari sovietici. Il lettore ricorderà come

Soldato dell'Armata Rossa

in un momento di riposo

 

reparti Spetznas furono impiegati recentemente per "risolvere" il problema degli ostaggi al teatro di Mosca contro guerriglieri ceceni o come, drammaticamente, venne risolta la questione della scuola di Bezlan. Quest'ultimo episodio ha destato clamore e orrore in tutto il mondo in quanto su persero la vita proprio durante il tentativo di liberarli da parte delle teste di cuoio russe. In definitiva si tratta di uomini che badano più al risultato che al modo di ottenerlo. Con tali interlocutori la guerra afgana si incrudelì ulteriormente.

Alla crudeltà della guerra si aggiunsero presto altri problemi di natura culturale e religiosa. In Afghanistan cominciarono a prestare il loro servizio organizzazioni sanitarie internazionali come Medici senza frontiere, Medicin du Monde e Aide Medicale Internazionale, che inviarono specialisti e fornirono ai dottori locali preziosissime informazioni su come curare i malati. Un medico francese, Gilles Cavion, rivelò come la causa della morte di moltissime donne afghane fosse il divieto del marito di farsi curare da medici di sesso maschile. Inoltre, alcuni combattenti rifiutavano l'amputazione di un arto, finendo inesorabilmente la loro vita tra atroci tormenti; durante il mese di Ramadan, i mujaheddin si opponevano alle iniezioni endovenose, in quanto era proibito assumere liquidi dall'alba al tramonto. Si trattava certamente di persone molto temprate e convinte. "Questa è la Jihad. E Allah per loro è onnipotente", (John K. Cooley).

Verso la fine del 1983, l'Armata Rossa, con il chiaro intento di dividere le forze nemiche, propose un armistizio alla milizia di Massud che, pur accettata, terminò dopo pochi mesi. Nella primavera del 1984, Massud riprese le armi e, per due anni inflisse alle forze avversarie continue sconfitte. La stessa capitale fu soggetta a continui attacchi da parte dei mujaheddin respinti dai paracadutisti sovietici a prezzo di gravissime perdite. Lo stesso governo - fantoccio di Kabul venne ritenuto responsabile di non aver sostenuto lo sforzo russo, al punto che lo stesso Karmal, come abbiamo già visto, venne sostituito da Najibullah, ritenuto più energico.

 

A questo punto, mentre i soldati russi restavano asserragliati in posizioni difendibili,quasi l'ottanta per cento del territorio afghano era realmente controllato dai mujaheddin. Nello stesso tempo, i russi limitavano la loro azione a conservare il check-up delle vie di comunicazione (strade e aeroporti).

Al contrario dell'esercito afghano, la Resistenza, pur fonData da ben sette partiti politici tra loro divisi in tradizionalisti e fondamentalisti, era tuttavia saldamente unita dall'odio per l'Urss. L'odio è certamente un cemento efficace, capace di passare oltre alle divisioni più feroci. Ma che succede se il nemico si dichiara sconfitto? Se manca l'oggetto cui convogliare tutto il risentimento di un intero popolo?

Con l'arrivo al potere di Mickhail Golbaciov nel 1985, le vicende afghane finirono col saldarsi agli accadimenti di carattere più generale destinati a coinvolgere l'intera Russia. D'altra parte la mentalità di Leonida Bresnev (al potere dal 1964 al novembre del 1982), che governò l'URSS avvalendosi della collaborazione di Kossigin e a Podgomy, era ben Fu Bresnev a volere il conflitto in Afghanistan,seguendo i dettami di una politica da super potenza diversa rispetto a quella di Golbaciov. Fu Bresnev a volere il conflitto in Afghanistan, seguendo i dettami di una politica da super potenza che non poteva ammettere pericoli di qualsiasi tipo, che a lungo andare si sarebbero rivelate controproducenti per l'unità nazionale. Era necessario combattere, anzi, era l'unica strada. Alla morte di Bremev, fu Yuri Andropov a raccogliere la sua eredità. Quest'ultimo, ex capo del KGB, si dimostrò presto molto vicino alle posizioni di Breznev. Certo non s'impegnò maggiormente in quella guerra, abbastanza preoccupato di un allargamento del conflitto e delle sue conseguenze internazionali.

Ci volle un uomo della statura politica di Golbaciov per cambiare le cose. Già alla sua nomina a segretario generale del Pcus, l'Il marzo 1985, sembrò chiaro che qualcosa stava cambiando. Non era, certamente, solo l'Afghanistan l'unico dei problemi. Si trattava più generalmente di cambiare l'intero assetto delle cose. L'URSS non era il paradiso dei lavoratori come tanto amavano definirla i suoi rappresentanti. La corruzione dilagava e la bancarotta economica era dietro l'angolo. Ben presto sarebbero caduti i veli e con essi anche i muri della divisione ovest-est.

 

Le riforme di Gorbaciov, passate alla storia come "perestroika" (letteralmente "ristrutturazione"), e "glasnost", cioè trasparenza. Gorbaciov dichiarò guerra alla corruzione, licenziando il 70 per cento dei funzionari corrotti, insediando al loro posto persone dalla provata onestà. Aveva permesso il rientro di molti dissidenti e formato una commissione che avrebbe dovuto indagare sui crimini dello stalinismo. Insomma Gorbaciov cominciò quel processo di disgregazione del comunismo i cui effetti si scontano anche oggi. fuoltre Golbaciov diede inizio a un processo di distensione con l'occidente e soprattutto con gli USA, suggellato dai tre incontri con Reagan di Ginevra (novembre 1985), Rejkiavik (ottobre 1986) e Washington (dicembre 1987), culminati nello smantellamento degli arsenali nucleari.

Ovviamente anche l' Mghanistan non poteva restare una questione invariata. Per cui il ritiro delle truppe sovietiche deciso da Gorbaciov non fece scalpore più di tanto. L'inizio della ritirata dell'Armata Rossa avvenne silenziosamente, al di fuori dei clamori dei media a cominciare dall'ottobre del 1986 e si concluse il15 febbraio del 1989.

Ma la fine di una guerra ben presto sancì l'inizio di un'altra. n terrorismo islamico che tanto preoccupa l'occidente ha un preciso legame con la guerra in Afghanistan. Lo stesso Osama Bin Laden fece dell'esperienza afgana un banco di prova per le future imprese di al-Qaida, l'organizzazione estremista da lui fondata. Osama Bin Laden compare in Mghanistan sin dall'inizio delle ostilità nel 1979, assumendo immediatamente un ruolo di primo piano. In primo luogo si tratta di un multimiliardario saudita che dispone di fondi propri e che quindi gode di una certa autonomia di azione. Egli inoltre, grazie ad una serie di operazioni quali il restauro e la costruzione di santuari alla Mecca e Medina, si guadagnò presto la fama di pio musulmano, facendo lievitare a dismisura la sua notorietà tra gli esponenti el mondo islamico. Appare quasi superfluo aggiungere che agli occhi della CIA Osama Bin Laden aveva certamente le caratteristiche per svolgere il ruolo di leader.

 

Nel 1979, non appena riverificò l'invasione sovietica in Afghanistan, Osama Bin Laden si unì ai mujaheddin, assumendo velocemente un ruolo di primo piano nella resistenza anti-russa. Inoltre, cominciò ad utilizzare i suoi capitali per organizzare l'addestramento e il trasporto in Afghanistan dei volontari della Jihad.

Nel 1985 cominciò ad organizzare al-Qaida, che come è noto è ancora attiva a livello internazionale. Nel corso della Jihad afgana, Osama Bin Laden fece arrivare, attraverso le sue società, innumerevoli attrezzature per la costruzione di ospedali, gallerie, strade e grandi rifugi tra le montagne del paese per ospitare i combattenti. Così quando l'Armata Rossa si ritirò, l'organizzazione di Bin Laden era talmente ricca e autosufficiente da continuare da sola la sua lotta per l'affermazione mondiale dell'islamismo. Fu quello l'inizio del terrorismo islamico che ancora oggi fa tremare il mondo occidentale. Fu quella l'alba livida dell' Il settembre...


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Ser Oswell Whent
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Inviato il 19 gennaio 2006 15:41

ragà, l'incontro era solo di presentazione, qndi nn abbiamo parlato di nulla di storico :unsure: cmq prima mi è capitata fra le mani una cassetta che mio padre registrò dell'attacco alle torri gemelle..e mentre la rivedevo, analizzando benela dinamica della vicenda, mi sn sorti alcuni dubbi:

 

1) è una questione di fisica: come può, un oggetto verticale, se colpito alla sommità, collassare su sè stesso?

2) xkè alla base di una delle torri, dopo che uno degli aerei vi si è abbattuto, si vedono dei vetri che esplodono verso l'esterno, come se qualcuno avesse minato la torre?

 

Pensateci..


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Morgil
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Inviato il 19 gennaio 2006 17:09 Autore

ser credo che l'argomento torri gemelle essendo ancora di attualità esuli dal discorso storico e rischierebbe di portare ot l'intera discussione! :unsure:

 

comunque per rispondere credo che visto che ormai doveva crollare abbiano fatto saltare le fondamenta in modo che la torre colassasse su se stessa e che non cadesse sugli edifici vicini! ^_^


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Arvin Sloane
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Inviato il 20 gennaio 2006 20:02

 

1) è una questione di fisica: come può, un oggetto verticale, se colpito alla sommità, collassare su sè stesso?

2) xkè alla base di una delle torri, dopo che uno degli aerei vi si è abbattuto, si vedono dei vetri che esplodono verso l'esterno, come se qualcuno avesse minato la torre?

 

Pensateci..

La prima risposta mi sembra semplice. L'edificio è stato progettatto per cadere su se stesso, per evitare di travolgere gli edifici vicini. Poi quale sia il principio non ho la minima idea. Per quel che riguarda la seconda ipotesi, non lo so. E non ho nemmeno notato il particolare.

 

Comunque i teorici della cospirazione ti direbbero che l'edificio è caduto su se stesso perchè le fondamenta erano minate, come tutto l'edifico del resto, il che spiegherebbe i vetri che scoppiano all'esterno. Direbbero che non è stata Alkaeda, ma l'amministrazione americana.

 

Io non ci credo !! E voi ??? >_>:ninja:


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Morgil
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Inviato il 20 gennaio 2006 20:36 Autore

nemmeno io! >_>


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Mornon
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Inviato il 20 gennaio 2006 20:50
1) è una questione di fisica: come può, un oggetto verticale, se colpito alla sommità, collassare su sè stesso?

2) xkè alla base di una delle torri, dopo che uno degli aerei vi si è abbattuto, si vedono dei vetri che esplodono verso l'esterno, come se qualcuno avesse minato la torre?

 

http://www.attivissimo.net/antibufala/11se...ttembre_p01.htm >_>


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Inviato il 21 gennaio 2006 0:42 Autore
1) è una questione di fisica: come può, un oggetto verticale, se colpito alla sommità, collassare su sè stesso?

2) xkè alla base di una delle torri, dopo che uno degli aerei vi si è abbattuto, si vedono dei vetri che esplodono verso l'esterno, come se qualcuno avesse minato la torre?

 

http://www.attivissimo.net/antibufala/11se...ttembre_p01.htm >_>

ti ho sempre detto che mi perdo nei tuoi post immenso ma stavolta sei stato assolutamente provvidenziale!!! :ninja::ninja: :smack: :wub:^_^

 

grande Mornon!!! ^_^


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Inviato il 21 gennaio 2006 9:29
1) è una questione di fisica: come può, un oggetto verticale, se colpito alla sommità, collassare su sè stesso?

2) xkè alla base di una delle torri, dopo che uno degli aerei vi si è abbattuto, si vedono dei vetri che esplodono verso l'esterno, come se qualcuno avesse minato la torre?

 

http://www.attivissimo.net/antibufala/11se...ttembre_p01.htm :ninja:

E' una cosa molto interessante e alcune cose potrebbero anche essere plausibili, ma sinceramente le ruputo tutte delle st*****te.

 

Mi rifiuto dicredere che un governo o per lo meno gli alti livelli di esso decidano di organizzare un attentato. La cosa è plausibile, se consideriamo che anche gli attentati attribuiti alle brigate rosse in Italia furono compiuti dalla CIA, ma se ciò dovesse riultare vero, noi non siamo altro che carne da macello, sacrificabile per interessi più alti. >_>:ninja:


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Endordil
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Inviato il 22 gennaio 2006 15:06

Sì certo... ed è stato Roosevelt a dire ai giapponesi di attaccare Pearl Harbor...(che fra l'altro come ipotesi è molto più plausibile)... ma andiamo. >_>


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Mithrin
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Inviato il 22 gennaio 2006 19:58
1) è una questione di fisica: come può, un oggetto verticale, se colpito alla sommità, collassare su sè stesso?

2) xkè alla base di una delle torri, dopo che uno degli aerei vi si è abbattuto, si vedono dei vetri che esplodono verso l'esterno, come se qualcuno avesse minato la torre?

 

http://www.attivissimo.net/antibufala/11se...ttembre_p01.htm >_>

Interessante questa pagina.

Il problema di queste teorie del complotto, come afferma lo stesso autore, sono la mancazna di prove.

Il fatto che alcune delle parti siano teoricamente plausibili non ha nessuna relazione col fatto che siano vere.


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Mornon
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Mornon
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Inviato il 23 gennaio 2006 1:46

Il problema è anche quando nel tentativo di dimostrare qualche complotto si forniscono immagini, testi, ecc., scelti ad arte per nascondere ciò che non ci dovrebbe essere se il complotto fosse vero...


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Morgil
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Inviato il 05 febbraio 2006 1:07 Autore

INTEGRALISMO ISLAMICO

Dalla rivoluzione degli ayatollah in Iran alla

nascita dei movimenti terrostici che tengono sotto scacco il mondo occidentale

 

Il Medio Oriente è una regione che gode ormai da tempo di una notevole importanza strategica ed economica. Sin dai primi anni del secolo scorso, questo territorio assistette allo sviluppo di un movimento nazionale arabo che, indirizzatosi inizialmente contro il governo ottomano, si scagliò successivamente contro le potenze europee, accusate di sfruttare attraverso la pratica coloniale le ricchezze destinate ai musulmani.

Nel movimento arabo confluivano due principali componenti: quella tradizionalista, propugnatrice di un ritorno integrale ai precetti originari dell’Islam (da cui l’espressione “integralismo islamico”) e un’altra laica e nazionalista, più attenta alle tendenze moderniste e progressiste in senso economico. Nonostante la seconda tendenza, sostenuta sin dall’inizio dai capi dinastici, dai militari e dalle borghesie locali, finisse col prevalere sulla parte tradizionalista, non riuscì comunque ad estrometterla completamente. Fu così che il richiamo religioso all’ortodossia religiosa rimase molto forte.

La parola integralismo ha tuttavia un’origine ben diversa. Oggi, in modo sommario, il termine integralismo è spesso associato alla parola “fondamentalismo”, nonostante il senso più ampio che quest’ultima parola tende ad assumere.

Il termine fondamentalismo apparve per la prima volta in Inghilterra, collegato ad una serie di pubblicazioni uscite fra il 1910 e il 1915 con il titolo esplicito di The fundamentals. La paternità di queste pubblicazioni era attribuibile ad alcune chiese protestanti americane, che avevano come obiettivo l’opposizione alla neonata industria cinematografica, nonché il netto dissenso ai processi di secolarizzazione della religione cristiana.Le crociate anti-moderniste ebbero poi un’importante appendice nella fondazione della World christian fundamentals association. I primi passi del fondamentalismo avvennero quindi in ambito cristiano, anche se poi il termine era destinato a valicare i confini confessionali per assumere chiari significati concettuali e finanche di ideologia.

La parola fondamentalismo, da questo punto di vista, può essere comodamente impiegata sia in ambito religioso sia politico e affonda le sue radici in un passato in realtà più remoto del XX sec.

Oggi, con una certa sicurezza si può concordemente sostenere che per fondamentalismo si intende una forte reazione a qualsiasi processo di secolarizzazione e/o di contaminazione della religione. Ogni religione rivelata si serve di dogmi, ovvero di verità sostenute da testi sacri che non possono venire assolutamente messe in discussione. Il fine è ovviamente quello di difendere le verità di cui la religione si fa portavoce e, al tempo stesso, di porre in atto un sistema difensivo nei confronti delle influenze della società moderna.

D’altro canto l’integralismo è una posizione intransigente secondo la quale i fondamenti della religione devono diventare anche la fonte da cui scaturisce il diritto giuridico, nonché modello per la vita pubblica e privata. Il chiaro diniego integralista nei confronti di una delle basi del pensiero politico recente, ovvero la sostanziale divisione tra Stato e Chiesa, pone qualsiasi individuo che assume posizioni integraliste in netta antitesi con buona parte delle società moderne o comunque di derivazione illuminista.

 

Storicamente la prima unione tra integralismo e fondamentalismo avvenne verso la fine degli anni Settanta in Iran, dove l’ayatollah Khomeini e la sua visione dell’Islam aliena da ogni forma di critica divennero il modello di tale associazione.

L’Iran si trasformò in un luogo d’eccezione per lo svolgimento dello scontro tra forze laiche, rivoluzionarie, conservatrici o comunque aperte alle influenze dei Paesi occidentali, e quelle integraliste/fondamentaliste.

E’ bene precisare che, sin dal primo dopoguerra, le forze laiche del mondo islamico avevano eletto come loro roccaforte la Turchia nata dalla rivoluzione di Mustafà Kemal e del Movimento dei giovani turchi. Inoltre, sarà utile rammentare che la Turchia godeva di una posizione geograficamente agevolata che la poneva in condizioni vantaggiose in contatto più con l’Europa che con l’Asia. Nel 1952 la Turchia aderì alla Nato, quasi a sottolineare ulteriormente la sua importanza nell’ambito dello scacchiere internazionale dettato dalle nuove esigenze della Guerra fredda.

Se la Turchia si avvicinava sempre di più all’Occidente, altre zone, come l’Iran, divennero, a partire dal 1979, la base delle correnti integraliste islamiche, di solito minoritarie nei Paesi musulmani.

L’Iran è un paese vasto e molto popolato, ricco di materie prime come il petrolio. Anzi potremmo dire che è proprio il petrolio a fare dello stato iraniano un importante punto di riferimento per gli interessi industriali. La posizione geografica permette al paese medio orientale di essere un importante crocevia per molte delle rotte petrolifere. Non mancavano né sono mai mancate quindi le attenzioni dei Paesi occidentali, ampiamente dimostrate dalla posizione politica del governo dello Scià prima dell’avvento del regime degli ayatollah. Sino a quel momento l’Iran aveva saldamente fatte proprie le posizioni filo occidentali della Turchia, divenendo tra l’altro un partner ideale per gli Usa nel controllo e nel rafforzamento delle posizioni occidentali in Medio oriente.

 

Ogni tentativo d’intromissione nel campo degli interessi petroliferi era stato duramente colpito. Una riprova era dimostrata dal colpo di stato del 1953 che portò alla rovinosa caduta del primo ministro Mossadeq, colpevole di aver tentato, tramite una

riforma, di nazionalizzare le compagnie petrolifere operanti in territorio iraniano.

Da quel momento il Paese venne governato con metodi autoritari e a tratti dispotici dallo Scià (imperatore) Rheza Palhavi . Lo Scià nel corso degli anni Sessanta aveva avviato un accelerato processo di modernizzazione del Paese, che aveva come scopo quello di raggiungere presto il grado di potenza militare. Le riforme non ebbero, tuttavia, una ricaduta a favore della popolazione, che anzi vide velocemente peggiorare le proprie condizioni di vita.

L’effetto politico fu un sostanziale irrigidimento delle posizioni politiche dell’opposizione sia di sinistra sia del clero tradizionalista che si pose, nel 1978, alla guida di un vasto movimento di protesta popolare.

Lo Scià tentò dapprima la via della repressione poi quella del dialogo richiamando al governo alcuni esponenti dell’opposizione, noti per le posizioni moderate. Tuttavia, nel gennaio del 1979, dopo che anche gli Stati Uniti decisero di abbandonarlo, scelse la strada dell’esilio.

L’Iran divenne una Repubblica islamica di matrice teocratica, in cui si ebbe per la prima volta nella storia post – coloniale del Medio oriente, la realizzazione di uno Stato integralista/fondamentalista, la cui guida, Khomeini, era anche il massimo leader spirituale della comunità sciita.

 

Le posizioni antioccidentali del neo- governo iraniano si fecero sentire sin dalle prime battute nel forte contrasto che oppose il nuovo regime e gli Usa, accusati di aver appoggiato lo Scià e di averlo ospitato dopo la sua fuga. Si arrivò presto allo scontro, quando, tra il novembre 1979 e il gennaio 1981, il personale dell’ambasciata satatunitense a Teheran venne tenuto prigioniero da un gruppo di militanti islamici in piena sintonia con le autorità locali. Il fallimentare tentativo ordinato dal presidente Carter di liberare gli ostaggi nell’aprile dell’80 da parte di un commando USA, accrebbe a dismisura la tensione. Infine, la questione degli “ostaggi di Teheran” si risolse solo dopo una lunga ed estenuante trattativa.

Nella nascita della Repubblica islamica iraniana si evidenziò chiaramente come integralismo e fondamentalismo fossero sinonimi di utilizzo politico della religione, che si esplicava e ancora si esplica nel rifiuto nei confronti di molte libertà individuali da cui nascono i principi del pensiero pluralista e democratico.

Inoltre, il fondamentalisno/integralismo nella sua forma islamica in particolare, ma più in generale in qualsiasi altra religione, determina una concezione del mondo in cui l’identità individuale deve sottoporsi ai dettami divini per tutto ciò che riguarda la società (economia, politica, comportamenti sociali, etc.).

Conseguentemente il vero credente deve accettare e fare accettare la legge divina, tentando anche di imporla ovunque essa non sia arrivata. Tale obbligo assume il nome di jiahd che molta letteratura occidentale ha erroneamente tradotto con l’espressione “guerra santa”, ma che in realtà significa “sforzo” e “fatica”.

 

Con l’uso di tale termine si fa riferimento quindi allo sforzo di diffondere la parola di Dio, lottando strenuamente soprattutto contro l’ignoranza del mondo occidentale, ma anche nei confronti dei fratelli che hanno smarrito la retta via.

Come hanno ben riportato Antonio e Gianni Cipriani nel recente volume “La nuova guerra mondiale. Terrorismo e intelligence nei conflitti globali” (Ed. Sperling e Kupfer, Milano 2005): “ La nuova realtà sociale che ne consegue limita l’individuo in una condizione di assoluta immobilità culturale e crea i presupposti ottimali per la negazione della protesta. Ciò accade laddove la società è organizzata sulla base delle leggi islamiche o, meglio ancora, sulle interpretazioni fondamentaliste di esse. In una società dove il progresso e l’evoluzione culturale vengono spesso intesi come rottura con le tradizioni e perdita di identità, l’Islam fornisce ai credenti una direttrice morale, religiosa, giuridica e politica che permette di strutturare l’andamento della loro vita terrena”.

Chiaramente si commetterebbe un errore di valutazione, pensando che il fondamentalismo e l’integralismo siano le uniche interpretazioni dell’Islam, anche se poi risultano essere presenti in varie forme sia tra i sunniti che tra gli sciiti.

Vero è che l’integralismo e il fondamentalismo hanno giocato un ruolo di grande importanza all’indomani della sconfitta del nazionalismo pan –arabo di chiara derivazione socialista e laica, che ebbe nell’uomo politico egiziano Nasser la sua più felice caratterizzazione.

A tale visione i tradizionalisti non perdonarono mai le aperture moderniste nonché le posizioni nazionaliste, fortemente in contrasto con la visione di unicità della nazione islamica, dove i confini territoriali fossero spazzati via in nome dell’unità di tutti i fratelli musulmani.

 

Ne consegue, inoltre, che la visione integralista dello Stato urta prepotentemente

Di nuovo in patria

 

contro qualsivoglia regime politico, repubblicano o monarchico, criticati per la loro corruzione e giudicati lontani dal vero Islam.

Paradossalmente il primo vero grande esperimento integralista avvenne grazie alla rivoluzione iraniana del 1979,ovvero proprio per mano e nel luogo di maggiore concentrazione sciita che attualmente rappresenta circa il 10 per cento della popolazione musulmana.

I sunniti, dal canto loro, ebbero altre esperienze legate all’integralismo e al fondamentalismo, tra le quali degne di nota appaiono il salafismo e il wahhabismo.

Il salafismo è una corrente fondamentalista che ha mosso i primi passi grazie all’opera del riformatore religioso egiziano Muhammad Abduh (1849 – 1905), le cui idee vennero riprese e ampliate dal suo seguace Rashid Rida (1865 – 1935). Le idee base del salafismo, la cosiddetta Salafiyya, sostenevano che per conferire una nuova accelerazione e credibilità all’Islam, fosse necessario depurare la religione di tutti quegli elementi che nel corso della sua storia ne avevano contaminato i precetti originari. Non ci si deve quindi confrontare con il mondo moderno, ma bisogna combattere le posizioni progressiste in funzione del recupero della purezza originaria del messaggio islamico. Salaf in arabo significa antenato e viene utilizzato come nome per il movimento che ha come riferimento l’Islam dei primi musulmani.

Muhammad Abduh sosteneva che solo attraverso il diretto contatto con le fonti del primo Islam si potesse cogliere il vero messaggio.

 

Tali fonti sono identificabili nel Corano, il libro sacro per eccellenza, e la Sunna che descrive i comportamenti palesi o impliciti di Maometto nel corso della sua vita.

Il salafismo non ha contrasti con la scienza, purché quest’ultima non invada il campo della religione; inoltre i salafiti si mantengono su posizioni fortemente critiche nei confronti del tradizionalismo islamico, in quanto non ammettono alcuna interpretazione del messaggio se non quella dei primi musulmani.

Questi “puristi” dell’Islam, ovviamente, da un punto di vista squisitamente politico, non possono che avversare profondamente qualsiasi forma di governo nazionale, dato che la loro visione politica si muove più su posizioni “internazionaliste”, coincidenti con la diffusione mondiale dell’Islam, che sulla considerazione delle differenze nazionali.

Il salafismo, ma in realtà l’Islam, è alieno da qualsiasi forma di razzismo sia antropologico che culturale, in quanto l’unica distinzione tra gli uomini avviene nei termini di credente (muslim) e non credente (kafir).

Oggi questa corrente, che per molti anni era rimasta impegnata su questioni di ortodossia attraverso metodi puramente formali, si è diffusa soprattutto tra le giovani generazioni di musulmani emigrate in occidente e fiduciose di recuperare e salvaguardare la loro identità e le loro origini. Il modello occidentale avvertito come foriero di contaminazioni, in molti casi ha determinato un ritorno al paleo – islamismo di cui il salafismo jihadista si è fatto interprete, entrando di forza anche nel confronto politico tra Islam e Occidente. Così è giunta ben presto da parte occidentale l’accusa nei confronti dei salafiti di rappresentare una base ideologica del terrorismo.

 

Un’accusa che, per dire la verità, ha trovato tristi conferme nelle operazioni terroristiche di alcuni gruppi estremisti, soprattutto di nazionalità marocchina e algerina, che hanno recuperato nella predicazione salafita una forte motivazione nella lotta contro i “crociati e i sionisti”.

Il salafismo non nasce come esperienza estemporanea, in quanto risulta a sua volta influenzato dal wahhabismo e dal movimento della Wahhabyya, una corrente di pensiero sunnita, riconducibile al saudita Muhammad bin Abd al-Wahhab (1703 – 1791), che denunziò nel corso della sua predicazione il pericolo di corruzione che minacciava l’Islam.

Il wahhabismo strinse un’importante e solida alleanza nella Penisola arabica con l’emiro Muhammad bin Saud (1744) volta ad estromettere per sempre la presenza ottomana da quei territori. La lotta ispirata dagli insegnamenti di al-Wahhab e condotta dall’esercito di bin Saud, si concluse solo tra il 1924 e il 1925, quando gli eredi di bin Saud completarono e consolidarono il loro controllo sulla penisola. Nel 1932 Abd al-Aziz Abd al-Rahaman bin Saud divenne il primo re di quella zona del mondo arabo da allora denominata, appunto, Arabia Saudita.

Il wahhabismo finì comunque col contaminare la nascita dello stato saudita in quanto da sempre si propose a favore di un apparato legislativo che prendesse spunto dalla sharia, la legge islamica, da imporre in senso stretto su tutto il territorio. Ne consegue che se ancora oggi il diritto saudita prevede il taglio della mano per i ladri, la lapidazione delle adultere, la decapitazione in pubblica piazza per i reati più gravi e la pratica legale della poligamia, tutto ciò è chiaramente ascrivibile a tale influenza.

 

L’influenza del wahhabismo si fa sentire anche nelle proibizioni relative all’uso di alcol, caffe, tè o tabacco, tutte giudicate sostanze intossicanti o sull’uso del velo imposto alle donne quando si trovano fuori dalla loro abitazione.

Inoltre, il wahhabismo ha trovato notevoli contrasti con gli sciiti, in quanto contrario a qualsiasi forma di manifestazione esterna di devozione e quindi critico contro i pellegrinaggi quasi fanatici degli sciiti verso le tombe dei personaggi religiosi protagonisti della genesi islamica o del loro attaccamento quasi morboso nei confronti dell’imam (capo religioso di una comunità islamica locale).

Insomma il wahhabismo finì con l’alimentare il divario tra sciiti e sunniti che scaturì anche in momenti di alta tensione come nel luglio del 1979, quando alcune centinaia di militanti sciiti, guidati dal leader politico e religioso Muhammad Qahtani, occuparono la moschea della Mecca tentando di imporre un controllo armato dalla tomba di Maometto. Solo l’intervento delle forze speciali saudite impedì l’avverarsi di tale disegno, che comunque causò la morte di 101 persone e la decapitazione in pubblica piazza di 63 sciiti fatti prigionieri, mentre Qahtani veniva celebrato dal mondo sciita come il nuovo messia islamico.

Nel 1987 un nuovo tentativo da parte sciita di alimentare la protesta contro la famiglia regnante saudita, giudicata indegna di custodire la tomba del profeta Maometto, sfociò in scontri che costarono la vita a 402 iraniani uccisi dalle forze di sicurezza saudite.

 

In effetti la caleidoscopica realtà del fondamentalismo e dell’integralismo islamico appare ben più complessa e articolata o, comunque, non unicamente riconducibile a matrici sciite o salafite e wahhabite ascrivibili alla dimensione sunnita jiadhista.

Antonio e Gianni Cipriani, nell’ opera sopra citata, sostengono che: “Oggi alcuni movimenti fondamentalisti, in ambito sunnita (la corrente che raccoglie il 90 per cento circa dei musulmani), auspicano un ritorno al califfato, cioè a un’unica rappresentanza politco-religiosa della umma, la comunità islamica. I gruppi salafiti accusano i regimi musulmani “moderati” di corruzione, guardando al “tempo d’oro” dell’Islam rappresentato dai califfi “ben guidati”, e riprendono spesso concetti del wahhabismo e della società dei Fratelli musulmani”.

L’anima riformista che guida i gruppi jiadhisti volge quindi verso la creazione di una grande nazione islamica, ove il termine nazione dovrebbe essere sostituito dalla parola califfato ( in memoria del primo califfo della storia islamica, Abu Bakr, marito di A’isha figlia di Maometto), secondo una chiara posizione nettamente contraria a qualsiasi modello occidentale, anche di ispirazione socialista “alla Nasser”. Tali posizioni sono alimentate da un’analisi storica che sancisce il sostanziale fallimento di nazioni arabe (e in tal senso devono essere inquadrati gli sforzi di Egitto, Siria e Libano) basate sull’affinità socio-linguistica e su denominatori comuni rintracciabili nelle vicende storiche delle singole nazioni. Tale fallimento è, in primo luogo, ravvisabile nella sconfitta di tali entità politiche scaturita dallo scontro con Israele e alimentata dalle forti divisioni interne, cui unico rimedio sembra essere un ritorno al fondamentalismo islamico e ai “principi politici” da esso propugnati.

 

Inoltre, i fondamentalisti si distinguono per negare qualsiasi possibilità positiva al

Un giovanissimo Khomeini

 

progresso umano, destinato comunque a fallire se privato della guida della religione. Ma non sono solo i principi filosofici (di natura hegeliana potrebbe asserire un occidentale) ad essere messi al bando, quanto l’intera impalcatura del pensiero occidentale dall’Illuminismo ad oggi, che posta sul banco degli imputati, rischia di diventare la “pietra dello scandalo” e non (come dovrebbe essere) il frutto di secoli di lotta contro l’ignoranza e il pregiudizio per l’affermazione delle libertà individuali e collettive.

Al-Qaeda, organizzazione terroristica internazionale che propugna l’unità dei musulmani contro i soprusi dell’Occidente, ha edificato su quest’asserto la propria ideologia.

In tal senso agiscono altri gruppi estremisti islamici come la Jamaa al-Islamia al-Musallah (Gruppo islamico armato, Gia) nata in territorio algerino nel 1992 con lo scopo di opporsi militarmente al tentativo di cancellare il risultato delle elezioni politiche che avevano sancito la vittoria del Fis (Fronte islamico di salvezza). La nascita di tale gruppo ha dato il via ad una vera e propria guerra civile che ha insanguinato l’Algeria per buona parte degli anni Novanta.

Ben presto il Gia è stato isolato dalle altre forze politiche algerine a causa dell’efferatezza delle sue azioni in particolare rivolte verso la popolazione civile.

Tra i fondatori del Gia vi sono molti veterani che parteciparono alla guerra in Afghanistan contro l’Armata Rossa che sosteneva il governo filo – comunista di Naijbullah e che si concluse con la sconfitta dei russi.

 

Negli ultimi anni, proprio quando la tensione tra governo algerino e sostenitori del Fis si è acutizzata, si è fatta strada una generazione di giovani leader che hanno trasformato in senso ancora più settario la struttura organizzativa per timore di infiltrazioni.

Tra i nuovi capi spicca la figura di Antar Zouabri, che al momento della nomina aveva solo 26 anni, distintosi per aver organizzato direttamente o comunque supportato una vasta azione terroristica rivolta contro strutture governative o atta a colpire gli harki (così sono definiti i sostenitori del governo; il termine harki deriva da quegli algerini che durante la guerra d’indipendenza contro la Francia militavano nell’esercito francese).

Le azioni dei gruppi comandati da Zouabri si sono rese tristemente celebri per essere connotate da estrema violenza, culminate frequentemente nella violenta eliminazione di civili, tra cui donne e bambini, la cui colpa era unicamente quella di avere un rapporto di parentela con i sostenitori del governo del presidente algerino Liamine Zéroual. A tal proposito estremamente significativa appare la posizione espressa da Assouli Mahfoudh, l’esperto religioso del gruppo, che in un bollettino informativo sosteneva la legittimità di assassinare donne e bambini se in rapporti di parentela con i “nemici dell’Islam”. Inoltre Mahfoudh, nel tentativo di rassicurare i militanti del Gia davanti ad eventuali abusi, aveva aggiunto che “gli innocenti tra essi andranno in paradiso. Quando sentite parlare di stragi e di sgozzamenti in una città o in un villaggio sappiate che si tratta di partigiani del tiranno”.

La tensione in Algeria nella seconda metà degli anni Novanta è cresciuta a dismisura. Gli occidentali si sono quasi abituati ad apprendere notizie di massacri e attentati ad opera del Gia, dove tuttavia non è sempre rimasta esclusa una certa responsabilità da parte del governo militare.

 

Infatti in alcuni casi le azioni terroristiche del Gia sono state perpetrate senza che le forze di sicurezza governative avessero fatto qualcosa per impedirle. Si sono verificati anche casi in cui le stesse forze governative abbiano volutamente tardato ad intervenire “perché l’innalzamento del livello dello scontro e il massacro di civili erano utili all’isolamento del Gruppo islamico armato rispetto alla base simpatizzante”.

La situazione è degenerata dopo l’uccisione di Antar Zouabri, avvenuta l’8 febbraio 2002 ad opera delle forze di sicurezza. Al suo posto un giovane ventiseienne di nome Rachid Tourab è divenuto il nuovo emiro del Gia e ha promosso una vasta azione di violenza senza precedenti destinata ad infiammare buona parte del Paese maghrebino.

Rachid Tourab è stato infine arrestato nel novembre del 2003; con il suo arresto l’azione delle forze di sicurezza algerine si è fatta più incisiva, determinando la fuga di molti membri del Gia in Marocco, Mali e Mauritania.

Il Gia per la politica estremamente violenta adottata e a causa delle secessioni interne è stato gradualmente posto ai margini della vita pubblica sino a ritrovarsi completamente isolato.

Fonti ufficiali parlano di 100.000 vittime cadute a causa della guerra civile tra il 1992 e il 2003; tuttavia, fonti attribuibili ai partiti di opposizione, supportate dalle testimonianze di osservatori internazionali, affermano che nel medesimo lasso di tempo sono morte circa 150.000 persone.

“Un bilancio troppo elevato anche per coloro i quali, al pari del Gruppo islamico armato, hanno tra i loro progetti quello della costituzione di una repubblica islamicadi Algeria, le cui leggi dovrebbero essere uniformate alla sharia”.

 

Una repubblica islamica algerina d’ispirazione sunnita che ispirerebbe la propria costituzione più sul modello dello stato islamico talebano d’Afghanistan che sull’ esempio iraniano di chiara appartenenza sciita.

Il termine “talebano” deriva dall’arabo “talib” che significa studente in senso generico. La più diffusa traduzione occidentale tende ad equiparare il talebano con lo studente del Corano, anche se questa accezione è invalsa a partire dall’affermazione politica dei talebani afghani. In occidente si è anche affermata la tendenza ad equiparare il talebano al fanatico o integralista di fede islamica, proprio partendo dalla presa del potere di questo gruppo che ha radicalmente trasformato la vita della popolazione afgana, ispirando la propria azione ad una serie di principi derivati dall’interpretazione letterale del Corano e alla rigida applicazione della sharia.

I talebani compaiono in Afghanistan nel 1994 nelle aree a maggioranza pashtun. Dalla loro comparizione non erano trascorsi ancora due anni dalla fine del conflitto tra i mujahidin e il governo di Najibullah, che aveva insanguinato il paese tra il 1979 e il 1992. Il conflitto aveva visto tra i protagonisti anche l’Armata rossa che, però, dopo la caduta del muro di Berlino, aveva deciso di ritirare le proprie truppe.

I mujahidin dopo la conquista della capitale Kabul, misero fine al regime di Mohammad Najibullah, successore di Barbak Karmal e ultimo esponente del Partito comunista afghano.

Ma i mujahidin erano ben lungi dall’essere l’espressione di un unico movimento politico, anzi spesso e volentieri erano militanti in diverse compagini che avevano avuto in comune solo l’obiettivo da abbattere. Una volta cessata questa priorità riemersero con forza le divisioni tra i combattenti di Allah che peraltro nelle loro diversità riproponevano spesso differenze di origine tribale.

 

In ciò è ravvisabile una costante che si perpetua nella tormentata storia afghana, una terra situata in una collocazione strategica dell'Asia centrale, anche se non si può certo dire che la geografia abbia contribuito molto alle fortune del Paese. Anzi è quasi possibile affermare il contrario, dato che l’Afghanistan ha pagato spesso un prezzo assai salato a causa della sua condizione di stato cuscinetto. D’altra parte le guerre e le occupazioni militari straniere ne hanno contrassegnato la storia passata e presente.

“L’Afghanistan è da secoli una terra di passaggio e mosaico di gruppi etnici e religiosi diversi: i pashtun, tribù di tradizione nomade, numericamente maggioritaria,élite politica e militare; i tagichi, di lingua persiana ma sunniti (in Iran la maggioranza è di fede sciita), soprattutto commercianti e agricoltori; gli hazari sciiti, arroccati nel massiccio centrale afgano; infine le tribù appartenenti al ceppo turco-uzbeco delle regioni più settentrionali”.

In questo vero e proprio crogiuolo di etnie, nel 1994, comparve tra i pashtun una nuova forza politico-militare, che si dichiarava acerrima nemica di tutte le fazioni che fino a quel momento avevano combattuto unite contro i comunisti, ma che dopo la fine della guerra avevano fatto precipitare il Paese in una nuova drammatica guerra civile.

I membri di questo partito di chiara ispirazione coranica si facevano chiamare talebani, ovvero studenti dell’Islam. La maggior parte di loro era nata e cresciuta nei campi profughi, che sorgevano numerosi lungo il confine pakistano e sostenuti soprattutto dal movimento islamico radicale Jamiat-e-Ulema Islami (Jui, Associazione islamica degli ulema), con il sostegno finanziario dell’Arabia Saudita.

 

Nel corso degli anni molti giovani pashtun erano stati indottrinati secondo le più rigide regole coraniche e, in cambio di vitto e alloggio, avevano giurato fedeltà ai principi guida del Corano; i primi talebani avevano, inoltre, ricevuto una formazione militare parallela a quella religiosa grazie all’intervento e alla supervisione dei servizi segreti pakistani (ISI) che agivano a loro volta coadiuvati dalla CIA. L’interesse degli USA nell’area era evidentemente denotato dal conflitto in corso in Afghanistan tra russi e mujahidin e rientrava quindi in un’ottica tipica della Guerra fredda. Finita l’”emergenza russa” i talebani approfittarono della caotica situazione politica afgana per iniziare la loro vittoriosa marcia verso Kabul con l’evidente intento di fare del Paese una repubblica islamica. Di fronte alle milizie talebane molti mujiahidin di etnia pashtun non opposero resistenza finendo spesso col confluire nelle loro file. In poco tempo l’Afghanistan meridionale e centrale venne occupato fino a giungere alle porte di Kabul. I talebani

Il mondo islamico visto da

un illustratore statunitense

 

trovarono ben presto nuovi alleati come i militanti di Hezb-e-Islami (Partito islamico) o come i fedeli di Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra pashtun.

“Il 27 settembre il mullah Mohammad Omar guidò l’assalto finale talebano alla capitale, che fu conquistata rapidamente . Il comunista Najibullah fu prelevato dalla sede Onu , evirato e impiccato a un lampione assieme con il fratello. Come primo atto del nuovo potere, dunque, gli studenti delle madrasse violarono l’immunità accordata a una persona dalle Nazioni Unite, provocando la dura reazione dell’Onu e orrore ed esecrazione in tutto il mondo. In seguito i talebani imposero il loro orien fino al 2001, quando le bombe americane e l’offensiva dell’Alleanza del Nord (il fronte che dal 1996 univa i gruppi di opposizione ai talebani, in supporto al deposto governo di Burhanuddin Rabbani) decretarono la fine del regime”.

 

Ma quale dottrina seguono i talebani? Quali sono le loro relazioni con il fondamentalismo/integralismo arabo internazionale? Sono veramente scomparsi dalla scena afghana dopo l’interevento americano seguito ai fatti dell’11 settembre 2001? Domande alle quali appare difficile rispondere visto l’attualità dei fatti cui si fa riferimento, ma alle quali cercheremo di fornire una chiave interpretativa, evidenziando il modello di riferimento delle milizie talebane e i rapporti privilegiati tra l’Afghanistan talebano e il noto terrorista Usama bin Laden.

In primo luogo è bene chiarire quali sono i fondamenti del progetto politico dei talebani e del loro leader storico, il mullah Omar. Il progetto che quest’ultimo si era ripromesso di realizzare aveva come prerequisito la unificazione del popolo afghano, da sempre diviso, come abbiamo già visto, da interessi tribali. Dopo l’unità, si sarebbe dovuto insediare un governo islamico di stretta osservanza, che avrebbe dato un nuovo apparato giuridico alla nazione attraverso la rigida applicazione della sharia.

Inizialmente i talebani riscuoterono comunque il plauso di una buona parte della popolazione afghana, convinta che il loro avvento al potere avrebbe portato una ventata moralizzatrice nella tormentata politica nazionale. A loro erano favorevoli anche importanti settori della diplomazia internazionale. Le stesse Nazioni Unite, dopo aver condannato aspramente l’episodio legato alla morte di Najibullah, intravidero l’opportunità di una soluzione definitiva nella decennale guerra civile alimentata dalle fazioni. Gli Stati Uniti non disdegnarono i rapporti diplomatici con il nuovo regime di Kabul, visto che i talebani erano appoggiati dal Pakistan, alleato degli USA e antagonista dell’Iran del progetto di costruire e controllare oleodotti e gasdotti che sarebbero dovuti passare proprio attraverso l’Afghanistan.

 

D’altra parte il governo di Washington non aveva certo dimenticato la crisi di Teheran del 1979 e da allora i rapporti diplomatici con il regime sciita iraniano erano stati tutt’altro che pacifici (Allo stato attuale delle cose l’Iran è inserito nell’elenco dei Rogue States – Stati canaglia avversati dagli USA). Anche l’Arabia Saudita guardava con grande interesse al regime talebano, in quanto l’apparato ideologico di quest’ultimo faceva esplicitamente riferimento al movimento fondamentalista del waabhismo, che, come abbiamo visto, nacque e si diffuse ampiamente in Arabia.

Tuttavia una volta entrati a Kabul i talebani fecero vedere realmente di che pasta erano fatti. In primo luogo qualsiasi possibilità di mediazione venne rigettata. Numerose furono le esecuzioni sommarie e gli atti di violenza “giustificati” dalla volontà di adempiere alle prescrizioni divine.

La stessa popolazione si accorse ben presto che la pacificazione del Paese avrebbe preteso il pagamento di un enorme tributo in termini di libertà. Gli uomini furono costretti a farsi crescere la barba, mentre alle donne veniva fatto obbligo di indossare il Burqa ogni qualvolta fossero uscite di casa.

Le donne, inoltre, vennero escluse da ogni forma di vita civile e relegate a una posizione subalterna rispetto agli uomini. Così Antonio e Gianni Cipriani hanno descritto la situazione:“… i talebani più giovani non conoscevano né l’Afghanistan né la sua storia. Odiavano i mujahidin che avevano portato il paese alla guerra civile e sognavano una società islamica come quella di Maomettto; erano degli stranieri in patria, con una base ideologica non paragonabile ad alcuna delle correnti fondamentaliste più estreme. Ingaggiavano una jihad contro i musulmani corrotti, colpevoli della rovina dell’Afghanistan e, da un punto di vista dottrinale, si basavano sul deobandismo, una corrente riformista radicale nata in India alla fine dell’Ottocento.

 

In pratica i talebani costrinsero le donne a nascondersi completamente sotto il burqa, senza avere il diritto al lavoro e all’assistenza sanitaria. Gli uomini erano costretti a lasciarsi crescere la barba, mentre vennero proibite le arti e il divertimento, come la musica e la televisione, ritenute immorali.

Per cancellare ogni traccia preislamica, inoltre nel febbraio del 2001,i talebani ordinarono che le truppe speciali del ministero della Virtù e del Vizio distruggessero le due gigantesche statue di Buddah (alte 53 e 37 metri) scavate nella roccia nella regione di Bamyan, risalenti al II e al IV secolo dopo cristo e considerate dall’Unesco patrimonio dell’umanità”.

Dopo la guerra contro l’Afghanistan promosso nell’ottobre del 2001 dagli USA, il Paese è guidato dal leader Hamid Karzai che ha conquistato il potere grazie all’appoggio statunitense. I talebani non hanno cessato, tuttavia, di rappresentare un elemento di forte destabilizzazione degli equilibri politici nazionali, riaffermando la loro presenza attraverso numerosi attentati contro le forse occidentali presenti sul territorio.

Lo stesso Karzai, chiamato ironicamente “il sindaco di Kabul”, controlla solo la zona attorno della capitale, mentre il restante territorio è ancora sottoposto al controllo dei vari capi tribù nonché signori della guerra.

Non sfuggirà all'attento lettore, a questo punto, la strana amicizia che sembra stringere due personalità così diverse come il miliardario saudita Osama Bin Laden e il mullah Omar. Il primo è un ricchissimo guerrigliero dalle esperienze e dalla formazione cosmopolita, il secondo sembra più un mullah da villaggio, che il capo riconosciuto e seguito di un'intera nazione, l'Afghanistan.

Le personalità dei due leader appaiono estremamente diverse. Non si sottrae a questa distinzione l'intera visione del mondo e delle leggi che lo regolano, la formazione culturale e l'educazione ricevuta. Si può quasi affermare che la stessa visione globale dell'islam di Osama differisca molto dalla concezione religiosa di matrice tribale propria di Omar.

Osama Bin Laden conosce approfonditamente i testi degli ideologi più radicali che si rifanno al wahhbismo e non solo, attinge le sue informazioni e comunica tramite i più moderni sistemi come internet, anzi, potremmo dire, usa sapientemente i media a vantaggio della sua organizzazione terroristica, Al Qa'ida.

Il suo fondatore non ha avuto gli umili natali del mullah Omar. E' figlio del costruttore di corte della famiglia Saud, famiglia regnante in Arabia Saudita ed erede di un immenso patrimonio che userà ben presto per finanziare l'attività del suo movimento.

Bin Laden cresce alla scuola di Sayyid Qutb, uno dei teorici della scuola egiziana dei Fratelli Musulmani. Sono proprio i fuoriusciti dall'Egitto, espulsi per il loro eccessivo radicalismo che trovano rifugio in Arabia Saudita e prolificano nell'università di Gedda.

Osama non ha interesse unicamente per la religione; studia con passione e attenzione anche economia e amministrazione pubblica.

 

Tra i maestri di Bin Laden, per quanto concerne le obbligatorie materie coraniche cui devono

sottoporsi gli studenti di Gedda, vi è il fratello di Sayyid, Muhammad Qutb, il depositario del pensiero del parente scomparso e autore di un fondamentale studio sul concetto di jahiliyya, il regno dell'ateismo e dell'errore.

Tra i professori di Osama vi è anche Abdallah Azzam, un palestinese di Jenin, destinato a diventare il principale ideologo e sostenitore della jihad in Afghanistan contro l'Armata Rossa. Azzam è un veterano della Guerra de Sei giorni, combattuta da Egitto, Siria, e Giordania nel 1967 contro il giovane stato di Israele, che, contro il parere dei Fratelli Musulmani, ha deciso di dedicare la sua vita all'insegnamento e alla speculazione ideologica.

Grazie a tali maestri, Osama impara la contrapposizione di sapore manicheo tra il bene che muove le azioni del "Partito di Dio" e il male che invece ispira le nefandezze del "Partito di Satana", tra Islam e mondo della corruzione che ha risvolti esterni e interni all'Islam stesso.

I miscredenti, identificati negli USA e in Israele hanno come principale obiettivo la distruzione dell'Islam. Per perseguire ciò, sostengono governi corrotti nel cuore dei territori musulmani. D'altra parte, a detta di Qutb, il sostegno garantito da Washington a Gerusalemme deve inquadrarsi all'interno di questa visione.

Nel 1982 Osama va a vivere a Peshawar,in Pakistan, dove riallaccia i rapporti con Azzam e comincia a reclutare volontari per la jiadh in Afghanistan. In questa località fonda la Beit al Ansar, la Casa dei sostenitori, dove alloggiano e si addestrano volontari giunti da ogni parte del mondo.

 

Ansar erano chiamati i primi sostenitori del profeta Maometto, durante la sua fuga dalla Mecca verso Medina e Ansar sono chiamati i seguaci di Osama. Il richiamo alla purezza dell'Islam originario, di chiara matrice waahbita e salafita, non manca, anche in questo caso, di farsi sentire.

"Tra il 1979 e il 1992 almeno 30.000 radicali, provenienti da almeno una quarantina di paesi musulmani, transiteranno nei campi di addestramento di Azzam e Bin Laden. Tra loro egiziani imprigionati dopo la morte di Sadat e l'insurrezione di Assiut, liberati in seguito da Mubarak, come Ayman al Zawahiri, bouyalisti algerini che hanno praticato la lotta armata contro il regime FLN già a partire dal 1982, ma anche islamisti sauditi e yemeniti cresciuti nelle scuole coraniche guidate dai Fratelli Musulmani e dagli ulama wahhabiti più intransigenti. Molti di loro combattono a fianco dei mujaheddin contro i sovietici e i loro alleati afghani.

E' in questa atmosfera carica di odio nei confronti del "Partito di Satana" che Osama Bin Laden, grazie ai suoi ricchi capitali, dà vita ai campi di addestramento ove muoverà i primi passi Al Qa'ida.

Così quando il maestro Azzam resterà ucciso in un attentato dai risvolti oscuri nel 1989, Osama rimarrà da solo alla guida del movimento. In seguito, la sconfitta della superpotenza sovietica infonderà nell'Emiro del terrore nuova fiducia e coraggio nello sfidare l'altra superpotenza mondiale: gli Stati Uniti d'America.

Osama nel corso degli anni Novanta si recherà in Pakistan e in Afghanistan, ma è in Sudan, presso Hasan al Turabi, capo riconosciuto del Fronte internazionale islamico, che Osama comincerà a organizzare le prime attività in senso anti-americano.

Inoltre il Sudan è un palcoscenico d'eccezione dove ordire piani di morte contro gli

americani e i loro alleati impegnati nell'operazione Restore Hope in Somalia, a seguito delle sanguinose vicende conseguenti alla guerra civile, che sta insanguinando il Paese del Corno d'Africa. Nell'ottobre del 1993 alcuni gruppi di uomini armati legati all'organizzazione di Osama Bin Laden attaccano i marines a Mogadiscio, causando 18 morti. La dichiarazione di guerra agli Usa diviene ben più palese nel 1996 con l'attentato al campo militare di Khobar in Arabia Saudita che provoca 19 morti e 250 feriti.

L'attentato però determina la richiesta del governo sudanese di allontanamento di Osama dal territorio nazionale, il quale decide di tornare in Afghanistan dove i talebani stanno conducendo la loro vittoriosa marcia verso Kabul.

Il movimento dei talebani, di cui il mullah Omar è il capo, sembra invece maturare un atteggiamento di netta chiusura nei confronti della modernità; un comportamento che poi si risolve nella distruzione dei televisori, degli stereo e di tutto ciò che a detta degli stessi talebani: "allontana il credente dal pensiero di Dio". D'altro canto rarissime sono le foto di Omar, assenza che testimonia il pessimo rapporto che ha con la tecnologia, oltre che una comprensibile esigenza di sicurezza.

"Il capo del movimento (talebano, n.d.r.) è un oscuro chierico di trentaquattro anni, Mohammad Omar, che presiede il Consiglio supremo dei Talebani, a Kandar. Un collega della TV turca che è passato per quella città (300.000 abitanti) ha detto di non aver visto una sola donna per strada e si sa che ogni scuola femminile è stata chiusa. I televisori e le antenne sono stati distrutti perché attraverso il video passa la brezza turpe del peccato. Il giornalista di Istanbul, che è per fortuna musulmano, ha dovuto inginocchiarsi e pregare cinque volte al giorno e al suo operatore non è stato consentito di riprendere il volto ispido e severo dei sacerdoti del Consiglio. Chi gioca al pallone deve indossare la zimarra talare, ma ho anche letto che il football è stato proibito del tutto perché in tempi remoti due mascalzoni di infedeli avrebbero preso a calci i teschi di due nipoti di Maometto.

Sarà poi vero che i talebani intendono vietare gli aquiloni che nelle giornate ventose sono l'ultimo divertimento dei bambini afghani?".

 

Eppure nonostante questa sostanziale diversità, il mullah Omar e Osama Bin Laden stringono un'alleanza dai risvolti micidiali.

Osama è molto conosciuto in Afghanistan a causa dei suoi trascorsi come capo di alcuni reparti di mujahidin impegnati nella guerra contro l'Armata Rossa e il governo di Najibullah tra il1979 e il 1992. Così quando vi fa ritorno nel 1996, seguito da decine di militanti islamici, viene accolto da più parti con entusiasmo. Inizialmente elegge la sua base a Jalalabad, ponendosi a disposizione della shura di quella città. Osama non sembra aver perso la sua naturale avversione nei confronti dei nemici dell'Islam, anche se questi ultimi non sono più identificabili negli atei comunisti russi o nei seguaci apostati di Najibullah. Adesso il loro volto sembra avere più i tratti caratteristici degli yankees. Conseguentemente, dalle stesse montagne dell'Hindu Kush nella regione del Kurashan,"le stesse da cui è partita la lotta contro la più grande forza militare infedele", l'Unione Sovietica, Bin Laden lancia la sua nuova sfida contro la nuova potenza del male, il Grande Satana, gli Stati Uniti d'America.

Le intenzioni di Osama Bin Laden sono chiarissime: egli intende fare dell'Afghanistan la base per un movimento radicale islamico dai metodi terroristici con collegamenti in tutto il mondo.

Al Qa'ida si sviluppa. Sono molte le organizzazioni estremiste che si fondono nel movimento fondamentalista di Bin Laden; una delle prime è il Gruppo salafita per il combattimento di Hattab, ma presto si aggiungono anche i filippini di Abu Sayyaf, fino a comprendere i fondamentalisti daghestani e ceceni.

 

"Al Qa'ida raggruppa circa 15-20.000 militanti. Ognuno di loro deve sottoporsi al rito della baya'a, la sottomissione all'emiro Bin Laden, al quale giura fedeltà sino alla morte. Essi si impegnano ad obbedire agli ordini dell'emiro, anche quando questi comportano il sacrificio personale sino al martirio.

Come ogni organizzazione islamista, anche Al Qa'ida ha un maijlis al shura, il consiglio consultivo, di cui fanno parte i principali dirigenti dei militanti dei gruppi che aderiscono al Fronte. Ayman al Zawahiri, leader del gruppo egiziano Al Jihad, è l'ideologo e, almeno formalmente, il numero due dell'organizzazione, divisa in comitati con specifici compiti,dal comitato militare a quello della fatwa, da quello della comunicazione e propaganda a quello logistico. Al Qa'ida si finanzia attraverso varie fonti: oltre al patrimonio personale del leader, stimato in circa 300 milioni di dollari, l'organizzazione conta anche sui residui fondi americani e sauditi, originariamente destinati allo jiahd anti-sovieticoe rimasti nella disponibilità di Bin Laden. Vi sono poi i contributi provenienti dalle associazioni caritatevoli islamiche dei paesi del Golfo, che giungono ad Al Qa'ida attraverso vari e incontrollati passaggi, e le donazioni personali di uomini d'affari arabi che simpatizzano per la causa".

Se le intenzioni e le motivazioni che spingono Bin Laden ad intraprendere questa nuova impresa sono chiare, non lo sono altrettanto quelle di Omar. Infatti nella sua scelta di ospitare in territorio afghano un personaggio scomodo come Bin Laden, appare alquanto strana soprattutto se si pensa che il governo talebano aveva avuto il riconoscimento del Pakistan e dell'Arabia Saudita, da sempre stretti alleati degli USA. Per cui senza il permesso dei servizi segreti pakistani (ISI), l'ospitalità dei talebani, con tutta probabilità, non avrebbe mai avuto luogo.

 

Anche l'Arabia Saudita apprezza che il suo sgradito cittadino abbia eletto Jalalabad come nuova residenza. In primo luogo i rapporti tra il regime dei Saud e i talebani sono ottimi, come di qualità appaiono i rapporti tra Osama e alcuni settori del governo saudita, intenzionati a dare un nuovo indirizzo anti-americano alla politica di Riad in vista di una successione al potere della dinastia regnante, i Saud.

Il Pakistan non può che sostenere la presenza in Afghanistan del primigenio gruppo di Al Qa'ida, in quanto può apparire utile alla causa dei talebani ancora impegnata dalla resistenza dell'Alleanza del Nord guidata da Massud. Inoltre i militanti jiadhisti di Osama possono essere utilmente impiegati a sostenere la lotta dei movimenti separatisti del Kashmir contro il governo indiano, da sempre guardati favorevolmente da Islamabad.

Infine, non si dimentichi che Osama Bin Laden è un miliardario che dispone di notevoli capitali, parte dei quali viene ben presto impegnato a far rifiorire il commercio dell'oppio, traffico dal quale molti gruppi, non ultimi gli stessi talebani, nonostante la loro radicale opposizione a qualsiasi stupefacente, traggono benefici economici.

D'altra parte se il vero musulmano rifiuta ogni droga, quest'ultima può essere utilmente impiegata per indebolire la società occidentale, "la società dell'errore", mentre i lauti guadagni saranno impiegati per sostenere la jiadh.

" In questo scenario, in cui ogni attore è preoccupato soprattutto delle proprie mosse, nessuno sembra prevedere che la radicalità del progetto ideologico dei Bin Ladin e il messianesimo del mullah Omar possano scombinare i giochi".

 

Nel 1997 la CIA tenta di rapire Osama Bin Laden ma il tentativo va a vuoto. Da questo momento Osama non lascerà più l'Afghanistan. Il suo trasferimento da Jalalabad a Kandar, la capitale spirituale del movimento talebano, sottolinea ancor di più la forte protezione assicurata da Omar a Bin Laden.

Mentre l'alleanza tra Omar e Osama si fa sempre più forte, cresce e prolifica l'organizzazione Al Qa'ida, che arruola nelle sue fila un numero crescente di militanti jiadhisti.

Chi sono i luogotenenti di Osama Bin Laden? Per rispondere a questa domanda è necessario tentare di capire l'atteggiamento di Bin Laden nei confronti dei suoi sottoposti; il miliardario saudita ha sempre avuto una certa predisposizione nell'allacciare rapporti con uomini dalla forte personalità come gli ideologi islamisti Azzam o al Zawahiri. In particolare quest'ultimo, dopo la morte di Azzam, diviene un punto di riferimento nell'impalcatura ideologica di Al Qa'ida.

Gli aiuti a favore del regime di Kabul non mancano e vengono dispensati da Osama con grande generosità. E' lui che provvede a fornire le armi e il materiale bellico, acquista le vetture e arriva, grazie alle sue imprese edilizie, a costruire le abitazioni per i principali dirigenti del movimento, compresa quella del mullah Omar.

Quello che realmente serve ai talebani sono i contatti finanziari internazionali che permettono di creare canali per la vendita dell'oppio.

Nel 1998, l'80 per cento dell'eroina che invadeva i mercati europei proveniva dai campi di papaveri della periferia sud-occidentale dell'Afghanistan (63.674 ettari). Ma questo aspetto sembra interessare poco gli studenti coranici, perché, secondo la dichiarazione di uno di loro: " . se l'eroina fa strage in Occidente, non importa: non si tratta di musulmani".

 

Grazie ai grossi capitali in suo possesso, Osama dà il via ad una serie di imponenti costruzioni in Afghanistan come moschee, edifici pubblici, strutture sanitarie e di assistenza. La cosa di per sé non è nuova. Infatti già nel corso della Jihad afgana, Osama Bin Laden fece arrivare, attraverso le sue società, innumerevoli attrezzature per la costruzione di ospedali, gallerie, strade e grandi rifugi tra le montagne del paese per ospitare i combattenti. Così quando l'Armata Rossa si ritirò, l'organizzazione di Bin Laden era talmente ricca e autosufficiente da continuare da sola la sua lotta per l'affermazione mondiale dell'islamismo. Fu quello l'inizio del terrorismo islamico che ancora oggi fa tremare il mondo occidentale.

Inoltre "Al Qa'ida fornisce aiuto ai Taleban anche sul piano militare. La milizia jiadhista viene incorporata nell'esercito regolare con il nome di Brigata 055. A contatto degli "afgani arabi", i Taleban sono così iniziati all'ideologia panislamista. Tra il 1997 e il 1998 gli "afgani arabi" di Osama andranno in aiuto degli studenti coranici nella loro offensiva al Nord. A Mazar i Sharif wahhabiti arabi parteciparono ai massacri degli odiati hazara sciiti (4 milioni su una popolazione di 17 milioni, n.d.r.), con l'obiettivo di ripulire l'Afghanistan dalla shi'a. Bin Laden assume così il ruolo di eminenza grigia e di vero e proprio uomo forte del regime Taleban".

Nel corso dell'estate del 1998 si evidenzia il reale pericolo che Al Qa'ida rappresenta per il mondo occidentale. Vengono infatti attaccate le ambasciate americane in Kenya e Tanzania; gli attentati provocano centinaia di morti; conseguentemente il governo di Ryad, su richiesta degli USA, pretende dal mullah Omar la consegna di Osama Bin Laden. Ma a tale richiesta segue il netto diniego del capo spirituale dei talebani, che anzi non perde l'occasione per scagliarsi contro il governo dei Saud, da lui giudicato corrotto e indegno.

 

A seguito di questo incidente, la famiglia regnante saudita interrompe ogni rapporto con l'Afghanistan, pur continuando a riconoscerne il governo.

Nel febbraio dello stesso anno si costituisce in Afghanistan il Fronte islamico per la jiadh contro gli infedeli e i sionisti, al quale i talebani aderiscono senza remora. Da quel momento il territorio afghano diviene un enorme campo di addestramento per la formazione di guerriglieri da inviare nelle più diverse parti del pianeta, ovunque vi siano "fratelli" impegnati nella lotta santa contro gli infedeli o governi islamici giudicati corrotti.

La risposta degli Usa non si fa attendere oltre. In agosto viene organizzato un attacco aereo contro i campi di addestramento di Al Qa'ida, al quale Omar reagirà violentemente, definendo gli Usa il primo terrorista al mondo.

Nell'autunno del 1998 entra in campo l'ONU che, sulla base di accuse precise volte ad evidenziare il sostegno al terrorismo islamico assicurato dai talebani, stabilisce una serie di sanzioni. Le accuse in realtà sono molteplici; esse vanno dalla violazione continua e reiterata dei diritti umani, al rifiuto di formare un governo di coalizione che preveda la partecipazione dell'Alleanza del Nord, di dare ospitalità a Osama Bin Laden e di aver ripreso, nonché intensificato il commercio dell'oppio.

Di conseguenza, mentre cresce l'isolamento internazionale del Paese, gli Usa adottano sanzioni commerciali ed economiche che si aggiungeranno a quelle già stabilite dall'ONU.

Le reazioni a questo stato di cose non tarderanno a venire. Sin dal 2000, il regime di Kabul comincerà a compiere una prima serie di azioni distensive con il chiaro intento di scalfire l'isolamento internazionale, ma senza sortire alcun benefico effetto.

 

La situazione precipita però nell'ottobre dello stesso anno, quando la nave americana Cole viene attaccata da un commando suicida che causa la morte di 17 marinai americani.

Alla chiusura dell'ONU, seguono altri irrigidimenti da parte del governo di Omar, che decide nel marzo del 2001 di dare seguito alla minaccia di distruzione delle due enormi statue di Buddah di Bamyan, simboli della cultura buddista, patrimonio mondiale dell'arte. Da tale, esecrabile, gesto, non sembra del tutto avulso lo zampino dello stesso Osama Bin Laden, convinto che, distruggendo le statue di Buddah di Bamyan, il governo di Kabul avrebbe suscitato un tale polverone dal grande valore mediatico.

Anche nei confronti dell'Alleanza del Nord, l'offensiva talebana non tarda a farsi sentire.

Nei primi giorni di settembre delo stesso anno due arabi appartenenti ad Al Qa'ida

Dopo un combattimento

nella città di Bassora

 

riescono ad uccidere Amhad Massud, ministro della Difesa, nonché grande stratega militare dell'Alleanza del Nord.

La morte di Massud lascia presagire che i talebani stiano organizzando una grande offensiva dagli echi internazionali, che farà vedere la reale portata solo qualche giorno dopo: l'11 settembre 2001.

Ma chi era Amhad Massud? Quale fu il suo ruolo nella resistenza al movimento dei Talebani? E perché la sua morte, a pochi giorni dall'attacco delle Twin Towers, può essere inquadrata in un progetto di ben più ampio respiro del terrorismo islamico la cui regia viene sapientemente architettata dai dirigenti di Al Qa'ida?

Amhad Shah Massud, Il Leone del Panshir, era il ministro della Difesa del decaduto governo Rabbani, capo militare indiscusso dell'Alleanza del Nord, un esercito formato in prevalenza da mujahidin dissidenti dal governo dei talebani.

 

Secondo la testimonianza di Massud Salili del portavoce dello Jamiat-i.Islami (il partito del presidente Rabbani e di Massud): "Noi siamo i veri musulmani e per questo abbiamo combattuto i regimi filosovietici di Karmal e Najibullah e l'Armata Rossa. Ma allo stesso tempo proponiamo un approccio moderato, l'islamismo deve aggiornarsi ai tempi, alla realtà d'oggi".

Ahmad Shah Massud ha le sue radici nella regione del Panshir in uno dei più caratteristici e suggestivi lembi di terra afgana con le terrazze coltivate a riso che declinano verso il fondo valle. E' una zona che riassume in modo emblematico i tratti somatici di un Paese in costante conflitto. Una terra che non vide mai il dominio dei talebani proprio grazie alla strenua difesa organizzata da Massud.

Forse i motivi che hanno guidato Massud nella scelta di dedicare la sua vita alla difesa di quella regione sperduta e, per esteso, del martoriato Afghanistan, devono essere rintracciati proprio nel viscerale attaccamento alla sua terra. Amore che gli ha impedito di seguire molti dei capi dell'Alleanza del Nord che conducono la loro lotta contro i talebani da Peshawar.

 

Massud trascorre la propria adolescenza a Kabul, dove si iscrive al Liceo francese, per poi frequentare la facoltà di ingegneria. A Kabul il giovane Massud mostra subito segni di intemperanza, in quanto sembra preferire nettamente l'azione alle attività riflessive. Per cui nessuno prova particolare sorpresa nello scoprire che sin dal 1978 svolge l'attività clandestina di guerrigliero impegnato a combattere il nuovo regime laico comunista di Taraki.

Combatte poi contro Najibullah e l'Armata Rossa e, infine, diviene l'ultimo baluardo del Panshir contro l'avanzata dei talebani.

Lo stesso Massud nel corso di un intervista ammette che: " I Talebani sono tanti e dispongono di un buon arsenale anche se non hanno quei "pezzi micidiali" che dicono di avere. L'obiettivo dl Pakistan, che li rifornisce e li addestra è di consolidare ed estendere il proprio spazio strategico, oltre ai vantaggi economici che gli deriveranno dalle pipelines: perché è prevedibile che l'apertura di nuovi corridoi commerciali comporterà un maggior margine di influenza politica nella Regione .

L'Afghanistan confina con tutti quei Paesi o ne ha libero accesso: non stupisce perciò che suscitiamo invidia. Ma l'efficienza militare de Talebani, ammesso che ce l'abbiano, è minata da tanti punti deboli: intanto l'esercito dei "folli di Dio" ha perso contatto con la gente e non ne gode più la fiducia. I massacri di Mazar-a-Sharif e di Bamyan hanno scatenato la furia dei fondamentalisti e dei pasdaran iraniani, anche se non credo che entreranno in guerra.

Gli eccessi e gli estremismi della leadership religiosa sostenuta dagli Ulema e dall'estrema destra pakistana, hanno contribuito ad allargare l'isolamento internazionale dei Talebani ed è assurda la speranza di un seggio all'ONU che legittimi la loro crociata. L'ospitalità che continuano a dare al finanziatore del terrorismo islamico, Osama Bin Laden, genero di Omar, ha messo in imbarazzo gli Stati Uniti che pure, attraverso l'Unocal, hanno sostenuto economicamente la loro avanzata . D'altra parte ogni tentativo diplomatico si blocca davanti al muro della loro intransigenza, come è avvenuto qualche mese fa quando ho contattato per telefono Mohammad Omar". Lo stesso Omar che vedrà favorevolmente la decisione di eliminare Massud nei primi giorni di settembre del 2001.

 

L'11 settembre 2001, pochi giorni dopo la morte di Massud, gli Stati Uniti d'America subiscono il più grave attentato della loro breve storia. Ma con la distruzione delle Torri gemelle comincia anche l'inesorabile fine del regime dei Talebani.

Gli attentati di New York e Washington hanno una diretta conseguenza sulle sorti politiche in Afghanistan. D'altra parte non è solo il governo americano a dichiarare lo stato di guerra permanente contro il terrorismo internazionale e suoi complici, ma anche una lunga serie di stati si unisce al coro, acuendo la condizione di isolamento in cui riversa ormai da tempo l'Afghanistan.

Alla condanna internazionale si aggiunge presto la disapprovazione del Pakistan, che, a malincuore, si vede costretto ad abbandonare i Talebani .

Ma nonostante la situazione catastrofica il governo degli ulema afghani decide di invitare Osama Bin Laden, in nome dell'ospitalità garantitagli dal mullah Omar, ad andarsene. Un tiepido invito che verrà di fatto ignorato.

Il presidente Bush dà inizio, il 7 ottobre 2001, alla nuova guerra contro il terrorismo. I cieli dell'Afghanistan solcati da centinaia di aerei da guerra prevalentemente statunitensi e parzialmente britannici, danno inizio a quella guerra asimmetrica che dovrebbe segnare la fine di Osama Bin Laden e dei suoi sogni di panislamismo globale.

La strategia di questa guerra asimmetrica prevede secondo il copione di distruggere le difese dei talebani facendo leva sulla totale superiorità aerea degli anglo-americani, favorendo in questo modo l'avanzata delle forze dell'Alleanza del Nord.

Ai talebani resta solo la visione del mullah Omar che giudica la guerra come una sorta di conflitto finale in cui le forze del bene (Islam) si contrappongono le forze di Satana (USA e alleati). Anzi la guerra assume i connotati di una vera e propria azione destinata a rafforzare il Partito di Dio, espellendo gli uomini dotati di una fede poco salda. Insomma nel medioevo afghano sembra affacciarsi il mito della "guerra sola igiene del mondo" tanto caro all'avanguardia futurista di nostrana memoria.

 

Ma gli accesi richiami di sapore messianico di Omar non sortiranno alcun effetto. La realtà per i talebani è davvero dura; devono fare i conti con la debolezza militare di un esercito impreparato a sostenere uno sforzo bellico contro la superpotenza americana, inoltre il regime di Kabul comincia a fare i conti anche con lo scarso consenso della popolazione afgana, ormai stanca delle continue vessazioni perpetrate dai talebani negli anni del loro dominio.

In tre mesi le forze talebane capitolano, dando inizio a una ritirata precipitosa. Il mullah Omar, grazie alle complicità di alcuni capi tribali si metterà in salvo, mentre Osama Bin Laden, alla stessa maniera, farà perdere le proprie tracce.

Il resto è storia di oggi .


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