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la storia segreta!
M di Morgil
creato il 30 giugno 2005

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Morgil
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Inviato il 02 dicembre 2005 18:12 Autore

sono commosso finalmente qualcun'altro che scrive in questo post!! :wub:

 

 

appena posso posto qualcosa di nuovo!!bell'articolo Endordil!studi storia russa?


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Endordil
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Endordil
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Inviato il 02 dicembre 2005 18:54

No, però mi interessa parecchio :wub:

Comunque le fonti sono semplicementeun paio di siti inglesi e la cara vecchia wikipedia.


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Morgil
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Inviato il 02 dicembre 2005 20:40 Autore

conosci qualcosa anche sulle guerre del nord?


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Arvin Sloane
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Arvin Sloane
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Inviato il 03 dicembre 2005 10:46

BATTAGLIA DI CANNE

 

BATTAGLIA DI CANNE

CONFLITTO Seconda Guerra Punica

DATA 2 Agosto 216 a.C.

LUOGO Canne, nei pressi del fiume Ofanto, Puglia Italia

RISULTATO Vittoria Cartaginese

 

COMBATTENTI

Esercito Romano Esercito Cartaginese

COMANDANTI

Consoli Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo Annibale

FORZE

Circa 80.000 Romani SconosciutoCartaginesi, alleati Numidici ed Iberici, mercenari Galli

PERDITE

Circa 50.000 Uomini Sconosciuto, Galli 5000

 

La Battaglia di Canne fu più la grande battaglia della seconda guerra punica, combattuta tra Romani e Cartaginesi. Si svolse in Puglia, nei pressi del fiume Ofanto, il 2 agosto del 216 AC con la partecipazione di 80.000 Romani, suddivisi in 8 legioni. Rappresenta uno dei migliori esempi di accerchiamento tattico completo della storia militare. In questa battaglia, vinta dai Cartaginesi comandati da Annibale, perirono 50.000 Romani e la maggior parte di quelli che sopravvissero, quasi tutti feriti, furono fatti prigionieri. Solo alcuni, rimasti di guardia all'accampamento, fuggirono nella città di Canosa. Annibale perse solo 5.000 uomini, per la maggior parte Galli. I Romani, quel giorno, erano comandati dal console Gaio Terenzio Varrone che li schierò a battaglia nonostante il parere contrario dell'altro console, Lucio Emilio Paolo. Annibale pose al centro dello schieramento i contingenti degli alleati Galli ed Iberici, disponendoli a formare un arco proteso in avanti. Lo scopo di questa particolare disposizione era quello di rendere meno compatta la massa d'urto dei Galli, favorendo così i Romani nello scontro diretto per poi farli cadere in un'imboscata. I Romani si erano disposti in uno schieramento molto compatto, costretti a questo anche dalla natura del terreno, con appena un chilometro e mezzo di fronte. Ciò pose le basi per la vittoria di Annibale limitando la loro mobilità. Alle ali stava la cavalleria, a nord-ovest quella romana (2.400 cavalieri) e a sud-est quella alleata (3.600 cavalieri). Altre circostanze sfavorevoli ai Romani erano una leggera pendenza del terreno in favore dei punici e il vento contrario. La disposizione delle truppe operata da Annibale prevedeva che i Romani avrebbero tentato di sfondare il centro, tenuto da 19.000 tra Galli ed Iberici, approfittando della schiacciante supremazia numerica (55.000 legionari). Come Annibale aveva previsto, i Galli presto dovettero soccombere e il centro iniziò a cedere. Ma, nel frattempo, la sconfitta romana si stava consumando sulle ali. Annibale, infatti, aveva disposto le sue truppe di cavalleria in una formazione asimmetrica: un'ala (a sud-est) di cavalleria numida di 3.600 unità con compiti di contenimento; l'altra, a nord-ovest di cavalleria pesante di 6.500 cavalieri con compiti di sfondamento, creando così una netta supremazia numerica e tattica sul fianco ovest, dove tra l'altro la cavalleria romana era pressata tra il fiume e le truppe romane in avanzata. La cavalleria pesante di Annibale compì tre cariche: con la prima distrusse la cavalleria romana sull'ala ovest, convergendo poi sulla cavalleria alleata sull'ala est e distruggendola; infine, dopo essersi riunita alla cavalleria numida, chiudendo la tenaglia con un attacco alle spalle della massa della fanteria romana. Contemporaneamente, la fanteria d'elite africana, che si trovava ai due lati estremi dello schieramento di fanteria cartaginese, si trovò quasi senza sforzo nella condizione di operare un cambio di fronte che la portò a chiudere i lati dello schieramento romano completando così l'accerchiamento. Fu un massacro. Come riferì lo storico Livio i Cartaginesi si fermarono solo quando furono stanchi di uccidere. Era dai tempi della Battaglia del Allia, che precedette il sacco di Roma da parte dei Galli di Brenno nel 386 AC che un esercito romano non subiva una disfatta tanto catastrofica.

 

schema_battaglia_di_Canne.GIF

 

Questo è un piccolo schema degli schieramenti in campo


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Morgil
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Morgil
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Inviato il 03 dicembre 2005 14:32 Autore

mik è sempre un piacere!!!! :wub:

 

LA DECOLONIZZAZIONE IN AFRICA.

IL DRAMMA DI PATRICE LUMUMBA

 

Nell'Africa Nera il processo di decolonizzazione giunse in ritardo.

Patrice Lumumba

 

Infatti se India e Algeria, si resero indipendenti nel volgere di breve tempo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i numerosi Paesi dell'Africa Centrale e Meridionale giunsero all'indipendenza molto più tardi.

A eccezione dell'Etiopia, dove l'imperatore Hailè Selassiè nel 1941 era rientrato in possesso del trono grazie all'appoggio delle truppe inglesi, le vecchie colonie di appartenenza europea conquistarono l'indipendenza solo verso la fine degli anni Cinquanta, soltanto dopo una fase di passaggio in cui il personale delle amministrazioni locali fu associato a quello europeo per quanto concerne la gestione amministrativa dei territori. Gli stati europei si prefiggevano di plasmare così una classe dirigente autoctona che, senza alcuna influenza, fosse in grado di svolgere autonomamente la propria funzione.

Dal canto loro le élites culturali africane si erano decisamente impegnate nel processo di decolonizzazione, tentando, ad esempio, di promuovere una coscienza africana che fosse basata sulla rivalutazione delle tradizioni, degli usi e costumi locali. E'inutile nascondere che dietro a questo tentativo si celava l'intento più o meno dichiarato di ricordare agli africani la loro vera origine, con la speranza che ciò servisse a far nascere un rinnovato, se non addirittura del tutto sconosciuto, spirito di unità nazionale.

Perciò vennero riportati alla luce i valori tradizionali della società africana e la cosiddetta negritudine acquisì nell'immediato numerosi estimatori. Il principale interprete di questo risveglio culturale fu l'uomo politico senegalese Leopold Senghor.

Mentre Senghor ricordava agli africani che le loro origini nulla avevano da invidiare al modello europeo, la Gran Bretagna concesse l'indipendenza alla maggior parte delle proprie colonie africane. Ciò accadeva tra il 1957 e il 1965 e si trattò, nella maggior parte dei casi, di un processo del tutto pacifico che solitamente si realizzò attraverso un concordato passaggio di consegne dalla metropoli alle colonie.

 

Non mancarono comunque le eccezioni come avvenne in Kenya e Rhodesia, dove l'indipendenza fu raggiunta solo alla fine di sanguinosi scontri.

Infatti in Kenya, tra il 1952 e il 1955, scoppiò la cruenta rivolta dei Mau - Mau, una setta di origine tribale che si prefiggeva l'obiettivo di eliminare la presenza coloniale in modo violento. La colpa dei bianchi, a detta dei Mau-Mau era quella di essersi impossessati delle terre migliori, abbandonando gli africani in condizioni penose. La miseria e il desiderio di emanciparsi economicamente e politicamente condussero molti abitanti del Kenya ad insorgere con le armi. La rivolta dei Mau-Mau fu repressa in maniera violenta, ma il Kenya raggiunse egualmente la tanto agognata indipendenza nel 1963 grazie alla guida di Jomo Kenyatta.

Nella Rhodesia meridionale la situazione non era molto diversa. Qui l'agitazione indipendentista della popolazione di colore venne duramente repressa dai bianchi meno numerosi ma meglio armati. Si trattava dei discendenti dei primi coloni europei di origine inglese, da sempre contrari a una decolonizzazione che implicasse la perdita dei loro privilegi e del controllo economico del paese. La Rhodesia del sud si dichiarò indipendente contro la volontà del governo londinese, instaurando un regime ispirato ad una politica di apartheid.

La Rhodesia del sud assistette quindi a una decolonizzazione imperfetta, in quanto restava indipendente, ma ancora soggetta al dominio dei bianchi.

Si trattava, in ultima analisi, "di una forma residuale di dominio coloniale" successivamente soppressa dalla lotta armata indipendentista, forte del sostegno garantitole dalla diplomazia internazionale.

Nel 1980 nacque lo stato indipendente della Rhodesia del Sud, espressione della maggioranza di colore e denominato Zimbabwe.

Per quanto riguarda le colonie francesi, esse raggiunsero lo status politico autonomo in modo del tutto pacifico. D'altra parte l'Eliseo si era reso conto per tempo di non poter ostacolare il processo indipendentista delle colonie dell'Africa nera. La Gran Bretagna aveva adottato un sistema pacifico, quindi un'eventuale decisione francese di ostacolare militarmente le rivendicazioni autonomiste, avrebbe inevitabilmente significato l'isolamento internazionale.

Fu per questo che nel giro di breve tempo (1958 - 1960) l'intera Africa francofona divenne indipendente. Come nel caso dell'Algeria anche qui fu determinante l'opera di mediazione attuata dal presidente Charles De Gaulle.

 

Ben diversa era la situazione del Congo belga. Nel corso della Seconda guerra

Durante un discorso

 

mondiale, mentre il Belgio era occupato dalle truppe naziste, il Congo belga divenne di fatto indipendente. Gli apparati amministrativi locali restarono senza il controllo del governo di Bruxelles, per cui l'autorità locale acquisì una notevole autonomia, rinforzata dall'importante ruolo giocato dalle risorse del paese nell'aiutare lo sforzo bellico degli Alleati.

Inoltre, la guerra finì con il rinforzare gli apparati economici del paese, in particolar modo quelli dell'industria estrattiva.

Terminato il conflitto, il Belgio decise di riproporre il modello coloniale del passato. Infatti, l'unico provvedimento deciso nei confronti del Congo fu quello di un piano decennale, disposto verso la fine degli anni Quaranta e finalizzato a bilanciare l'economia congolese fino a quel momento unicamente impegnata dal settore delle esportazioni.

Dieci anni dopo la situazione non era cambiata di molto. Il Congo esportava il 9 per cento della produzione mondiale di rame, il 49 per cento di cobalto, il 69 per cento dei diamanti per uso industriale e il 6,5 dello stagno. Ai minerali si aggiungevano poi i prodotti della terra come l'olio da palma, il cotone e il caffè, che da soli fruttavano più di cinquanta milioni di sterline l'anno.

Nessun altra colonia africana poteva vantare uno sfruttamento così perfettamente organizzato. Il Congo divenne in questo modo la colonia modello; un vero paradiso coloniale dove trionfavano l'efficienza, la produttività e l'ordine sociale.

Un equilibrio che fondava le proprie basi sul perfetto accordo istituitosi tra autorità politica, Chiesa cattolica e imprese minerarie, un patto stabilito durante il secondo conflitto mondiale quando venne raggiunta l'autosufficienza amministrativa ed economica. In questa intesa le parti erano perfettamente distinte e distribuite. Il governo si occupava della pubblica amministrazione, delegando alla Chiesa tutte le questioni inerenti l'educazione e la morale, mentre l'industria mineraria produceva i redditi necessari per sostenere l'intera impalcatura statale.

Il patto di co-gestione coloniale si traduceva poi in una consorteria composta da politici, uomini di Chiesa e affaristi belgi le cui attività erano sempre ben protette da qualsiasi tentativo destabilizzante proveniente sia dall'interno del paese sia dalla madrepatria.

Particolarmente fervente si dimostrò l'attivismo dei missionari cattolici. Alcune cifre possono fornirci l'entità del fenomeno. Nel 1950 un terzo della popolazione si professava apertamente cristiano, mentre il dieci per cento riceveva un istruzione elementare. Quest'ultima risultava essere una percentuale di tutto rispetto se confrontata con alcuni paesi come la Costa d'Oro (7%) o come l'India (6%) o l'Africa equatoriale francese (3%).

 

L'assistenza sanitaria era garantita da ambulatori decentrati sostenuti da fondi governativi, mentre funzionari bianchi controllavano i distretti rurali assicurandosi che la legge e l'ordine fossero rispettati. Contemporaneamente le imprese minerarie, operanti soprattutto nella parte orientale del paese, costruivano case, offrivano programmi di assistenza e di formazione per gli operai indigeni.

La conduzione coloniale poggiava sulla convinzione dei belgi che per far funzionare il tutto fosse sufficiente "una guida paternalistica e cristiana e una seppur minima ricompensa materiale, perché la popolazione indigena accettasse di buon grado di essere per sempre sottomessa".

Resta da domandarsi su quali elementi poggiassero queste convinzioni, dato che, ormai da tempo, nell'intero continente erano in atto rivendicazioni indipendentiste dalle quali il Congo belga non sarebbe rimasto estraneo.

Inizialmente a rivendicare l'indipendenza del Congo fu una parte minoritaria della popolazione; d'altra parte ciò è perfettamente comprensibile se si pensa che solo una piccola parte degli autoctoni possedeva gli strumenti culturali per prendere consapevolmente parte alla querelle politica.

 

La trasformazione in leader

 

Anche parecchi leader carismatici che guidarono i primi passi della rivolta congolese non avevano ricevuto un'educazione adeguata. Spicca tra tutti il caso emblematico di Patrice Lumumba.

Quest'ultimo era nato nel 1925, per cui negli anni Cinquanta, ossia quando cominciò ad infuocarsi l'agone politico, aveva giusto una trentina d'anni, un'età in cui il talento e l'ambizione possono combinarsi in una miscela esplosiva.

Alto e slanciato, dotato di uno sguardo intenso, Lumumba, come molti suoi connazionali, aveva frequentato solo le scuole elementari. La conoscenza delle problematiche del Congo Lumumba se l'era guadagnata grazie alla sua intelligenza e ad un'energia fuori dall'ordinario. Doti che l'avevano impegnato in molte attività, portandolo in pochi anni a visitare buona parte del suo paese natale.

Poco più che ventenne, come impiegato delle poste a Stanleyville, si era impegnato nel giornale dei lavoratori delle poste, collaborando contemporaneamente con diversi quotidiani. La politica sembrava essergli congeniale, per cui se ne occupò intensamente.

 

Una falsa accusa di concussione lo portò in carcere, dove trascorse un anno scrivendo un libro, poi divenuto celebre, dal titolo emblematico "Libertà per il Congo", in cui sosteneva apertamente: "Il desiderio fondamentale dell'élite congolese è di essere "belga" e di avere la stessa libertà e gli stessi diritti dei belgi".

Sono parole che rivelano una inequivocabile apertura al dialogo e che tradiscono un certo imbarazzo nel voler affermare subito, senza mezze misure, la vera propensione del popolo conglese, ovvero quella di dichiararsi africano prima ancora che "belga".

La negritudine del senegalese Leopold Senghor compiva allora i primi timidi passi, mentre la segregazione razziale, forte di un secolo di esercizio coloniale, agiva impunemente sia in campo sociale sia in campo economico.

Nel 1955 più di un milione di congolesi riceveva un salario, ma la loro remunerazione complessiva superava di pochissimo quella dei 20.000 belgi insediatisi nel paese. Il salario di un lavoratore indigeno era quaranta volte inferiore di quello ricevuto da un bianco.

La tanto decantata percentuale di alfabetizzati, rivelava drasticamente la sua scarsa portata se si pensa che, nel 1959, solo 136 ragazzi giunsero a conseguire un diploma superiore. Non sorprenderà quindi scoprire che su 4.875 incarichi amministrativi, solo tre fossero ricoperti da personale indigeno. Le libere professioni erano interamente svolte dai bianchi. Non esisteva un medico,un avvocato, un insegnante di scuola media o superiore, un ufficiale dell'esercito che avesse origini africane.

Unica voce fuori dal coro era quella della Chiesa cattolica che aveva dimostrato una diversa sensibilità nei confronti della popolazione, ordinando il primo sacerdote congolese nel 1917, mentre nel 1956 venne nominato il primo vescovo autoctono. Tuttavia anche se nel 1959 operavano sul territorio del Congo ben 600 sacerdoti congolesi, non si dimentichi che la Chiesa era perfettamente in sintonia con i governanti laici, operando attivamente nel controllo e nella gestione del territorio.

Il sistema coloniale belga aveva prodotto persone che venivano definite évolues ossia evoluti dallo "stato selvaggio" alla civiltà grazie all'intervento degli europei.

Il termine ricorda quello in uso nelle colonie francesi, dove tali persone erano definite assimilés, ossia "assimilati" nella cultura e nel sistema francese; rimanda altresì agli assimilados dei territori portoghesi che si differenziavano dai civilizados, i quali si distinguevano ulteriormente in quanto in grado di parlare la lingua dei dominatori .

 

Gli évolues congolesi, e Lumumba era uno di questi, cominciarono a pretendere una forma concreta di integrazione. Come risposta videro irrigidirsi le posizioni dei belgi, ostinatamente refrattari a qualsiasi proposta di uguaglianza.

Il compromesso venne raggiunto quando il governo propose un nuovo riconoscimento di status sociale noto come: immatriculation.

Le caratteristiche necessarie per accedere a questa nuova categoria sociale erano riassunte, in realtà molto vagamente, nella necessità di essere "compenetrato dalla civiltà europea e di adeguarvisi".

Che cosa significavano queste parole? Lumumba registrò puntualmente l'impossibilità di venire a patti con i belgi, in quanto, questi ultimi, pur mostrando in teoria aperture verso l'integrazione, nei fatti si mostravano estremamente rigidi quando si trattava di riconoscere tale status.

Lumumba, a tal proposito, ebbe a dire: " Ogni stanza della casa, dal soggiorno alla camera da letto e dalla cucina fino al bagno, viene perlustrata da cima a fondo, allo scopo di trovare qualcosa di incompatibile con i requisiti della vita civile".

 

Agli onori della cronaca

 

Perciò l'immatriculation ebbe un esito estremamente negativo, anzi paradossalmente acuì lo iato tra colonizzatori e colonizzati. Infatti in cinque anni solo a duecento congolesi fu possibile ottenerla, salvo poi scoprire che quella posizione sociale dava la possibilità di essere giudicati dai tribunali dei bianchi, ma era ben lungi da garantire pari trattamento economico o sociale.

"In tutta franchezza, gli immatriculés sono profondamente delusi;" - scriveva Lumumba (che fu uno di essi) - "malgrado il suo stato giuridico, il suo livello di vita, la sua posizione sociale e i suoi bisogni inerenti alla vita di ogni uomo civilizzato, l'immatriculé è, con rare eccezioni, economicamente e socialmente allo stesso livello di ogni altro congolese".

Inoltre, l'immatriculè doveva comportarsi come un belga, esprimendo disprezzo nei confronti del resto delle masse popolari considerate ignoranti e arretrate.

 

Quest'ultima richiesta fu la scintilla che innescò la miccia della ribellione. Gli évolues cominciarono ad assumere una consapevolezza sino a quel momento solo vagheggiata: invece di lottare senza alcun vantaggio tangibile per entrare nel sistema partendo dal basso, decisero di imporsi dall'alto, forti proprio dell'appoggio di quelle masse "ignoranti e arretrate".

Il 28 dicembre 1958 Patrice Lumumba, parlò a un'assemblea del Moviment National Congolais (MNC), di cui era uno dei fondatori, esprimendosi con queste parole: "Il movimento ha come scopo fondamentale la liberazione del popolo congolese dal regime coloniale e l'accesso all'indipendenza . Vogliamo dire addio al vecchio regime, a questo regime di soggezione che priva i nostri connazionali i diritti riconosciuti a tutti gli esseri umani e ai liberi cittadini . L'Africa è impegnata in una lotta senza quartiere per la propria liberazione. I nostri compatrioti devono unirsi a noi per servire più efficacemente la causa nazionale e affermare la volontà di un popolo determinato a liberarsi dalle catene del paternalismo e del colonialismo".

Richiama l'attenzione del lettore l'appello rivolto all'unità del popolo congolese di fronte alla questione dell'indipendenza nazionale.

Come spesso è accaduto per molti dirigenti dei movimenti di indipendenza africani, il primo passo che Lumumba compì fu verso il superamento delle divisioni tribali. In questa difficile operazione la scelta del nazionalismo come terreno della lotta per l'indipendenza apparve immediatamente come via irrinunciabile.

D'altra parte i belgi, come molti altri colonizzatori, costruirono il proprio sistema di dominio, facendo leva proprio sulle rivalità tra gruppi tribali e religiosi. Una politica che continueranno a perseguire anche dopo la raggiunta indipendenza del Congo, appoggiando, ad esempio, il movimento secessionista del Katanga guidato da Ciombè.

Creare l'unità tra i congolesi avrebbe significato, in primo luogo, togliere ai bianchi il terreno su cui poggiava il loro dominio.

 

Gli stessi belgi cominciavano a temere la crescente ondata nazionalista, per cui si affrettarono a dare vita a un progetto per il futuro rilancio del Congo. Ovviamente il gruppo di osservazione e studio incaricato di formulare la proposta nel 1958, era composto unicamente da belgi. Per cui destò subito i sospetti da parte dei congolesi. La diffidenza non diminuì neanche quando venne formulata la proposta di indire al più presto le elezioni di un governo locale a cui avrebbe fatto seguito poco tempo dopo, la nascita di assemblee provinciali e nazionali. Bruxelles fissò come data iniziale per l'attuazione di queste riforme il 13 gennaio 1959, ma l'evento venne funestato da violenti disordini che scoppiarono a Leopoldville nove giorni prima.

Alla fine degli incidenti, duramente repressi dalla polizia, si contarono più di duecento morti e più un numero imprecisato di feriti tra gli africani.

Da molte parti si alzarono vive proteste nei confronti di Lumumba, colpevole di aver infuocato gli animi dei rivoltosi con un discorso pronunciato alla radio pochi giorni prima.

Si può certamente accettare solo in parte questa accusa, in quanto le stesse autorità belghe parlarono di malcontento e frustrazione diffusa all'origine di disordini.

Il piano deciso dai belgi comunque continuò senza interruzioni, al punto che lo stesso re Baldovino decise di intervenire nella questione promettendo, al più presto, la piena indipendenza per il paese africano.

Di conseguenza l'attivismo dei leader politici divenne frenetico. Non si dimentichi che i Da molte parti

si alzarono vive

proteste nei confronti

di Lumumba, colpevole

di aver infuocato

gli animi

dei rivoltosi

 

 

congolesi non avevano alcuna pratica dell'esercizio politico, mentre le elezioni comportavano una grossa dose di esperienza e di capacità.

Le elezioni politiche che avrebbero dovuto consegnare al paese un nuovo governo vennero fissate per il 1960. A novembre del 1959 si contavano già 53 partiti politici, mentre, pochi mesi dopo, il numero era salito a 120.

Unica voce del coro a propugnare il nazionalismo risultava l'MNC di Lumumba. Al contrario, la quasi totalità degli altri partiti nascevano principalmente da interessi di natura tribale.

"Joseph Kasavubu, ad esempio, sognava di riunire la popolazione Bakongo, che si trovava divisa fra Kongo francese, Congo belga e Angola, e di ricostruire il leggendario impero del Congo, arricchitosi con la tratta degli schiavi nel XVI e XVII secolo. Sotto la guida di Kasavubu, l'ABAKO (Alliance des bakongos) divenne un'organizzazione politica militante che rivendicava la secessione bakongo, più che mirare all'indipendenza nazionale".

 

Nel Katanga, una provincia sud orientale del paese, Moïse Ciòmbe diede vita all'ennesimo partito a base tribale con dichiarate ambizioni secessioniste. La Confederation des associations tribales du Katanga, famosa come KONAKT, venne ampiamente sovvenzionata dagli introiti delle compagnie minerarie, che proprio in quella regione avevano interessi elevatissimi. Ciòmbe poté quindi contare su un grosso aiuto economico e in cambio, a differenza di Lumumba, riteneva necessario rinforzare i rapporti con il Belgio. Per cui, pur dichiaratamente di natura tribale, il partito di Ciòmbe era indissolubilmente legato agli interessi economici delle compagnie minerarie belghe.

Sul finire del 1959 scoppiarono rivolte un po' ovunque; ad esempio, nella regione del Kasai, dove cominciò a imperversare la guerra tra le tribù dei Baluba e dei Lulua.

Le elezioni, fissate per dicembre,sembravano essere messe in dubbio, mentre l'opinione pubblica belga era a dir poco terrorizzata all'idea che l'esercito nazionale dovesse intervenire nello stato africano.

Nel 1960, il governo belga decise di organizzare un incontro tra i rappresentanti dei tredici gruppi politici più rappresentativi del Congo. Novantasei rappresentanti, tra cui Lumumba, Ciòmbe e Kasavubu, si incontrarono a Bruxelles per parlare del futuro del Congo cercando di trovare un accordo che rendesse possibile la governabilità.

Venne stabilita la data per la proclamazione dell'indipendenza (30 giugno 1960), mentre le elezioni per la proclamazione dell'assemblea nazionale (parlamento) vennero indette entro maggio.

L'MNC di Lumumba ottenne 33 seggi su 137 e risultò il partito di maggioranza relativa; conseguentemente il primo governo del Congo indipendente nacque da un compromesso tra dodici diversi partiti che mostravano enormi discordanze.

Presidente della repubblica venne eletto Kasavubu, mentre Lumumba divenne il Primo Ministro. A uno scontento Ciòmbe venne concessa la nomina a presidente dl governo provinciale del Katanga.

Nel presentare il governo al parlamento, Lumumba esordì con parole di decoro, estremamente pacifiche. Aveva ammesso il merito belga di "un'opera immensa, non esente da critiche" ma da prendere"come una solida base per la costruzione del nostro paese». Aveva assicurato che «le missioni potranno continuare il loro apostolato".

A questo discorso fecero eco le parole di re Baldovino, che nel solito modo paternalistico, annoverò i meriti del Belgio nel raggiungimento dell'indipendenza; il discorso di Baldovino aveva il demerito di non fare alcun accenno agli sforzi del popolo congolese per il raggiungimento dell'indipendenza, ribadendo che quest'ultima era stata concessa grazie alla lungimiranza del Belgio.

 

Dopo pochi minuti, Lumumba mostrò che i toni della replica sarebbero cambiati affermando: "Nessun congolese degno di questo nome potrà dimenticare che l'indipendenza è stata conquistata giorno per giorno . Noi abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, le sferzate, e dovevamo soffrire da mattina a sera perché eravamo negri. Chi dimenticherà le celle dove furono gettati quanti non volevano sottomettersi a un regime di ingiustizia, di sfruttamento e di oppressione?".

L'indipendenza nasceva tra gli applausi entusiasti dei congolesi che ritrovavano, grazie alle

Il continente africano

ha il volto di Lumumba

 

parole di Lumumba, la loro dignità di uomini e la freddezza delle autorità belghe che speravano di perpetuare la loro presenza nel paese indipendentemente dal nuovo status politico raggiunto.

Il 4 luglio 1960, quattro giorni dopo l'indipendenza, cominciarono i guai. I primi problemi provenivano dall'esercito che voleva di fatto rendersi autonomo dalla presenza coloniale. Si pensi che tutti gli ufficiali erano bianchi, mentre ai congolesi spettavano solo i gradi inferiori.

Lumumba si occupò di riformare l'esercito e chiamò come comandante in capo Victor Lundula, un ex sergente (si noti il parallelismo con un altro sergente di nome Amin Dada che raggiunse lo stesso grado nella vicina Uganda e che di lì a poco sarebbe diventato il leader politico dell'intera nazione).

Come eminente membro dello Stato Maggiore dell'esercito venne nominato il segretario personale di Lumumba, Joseph Mobutu.

Il provvedimento di rimozione degli ufficiali bianchi lasciò l'esercito senza guida ed ebbe come immediata conseguenza l'esplosione di numerosi episodi di violenza in tutto il paese nei confronti dei bianchi. Le violenze peggiori vennero perpetrate a danno dei religiosi e delle missioni con il risultato di generare un grande esodo di coloni bianchi, che tentavano in tutti i modi di lasciare il paese.

A questo punto il Belgio non poteva restare a guardare, anche perché la maggior parte della popolazione bianca era di nazionalità belga e, soprattutto, perché in Congo vi erano infiniti interessi economici che non potevano essere trascurati. Bruxelles inviò in Congo 10.000 soldati, visti da Lumumba come un chiaro tentativo di riproporre la presenza coloniale"in barba" alla recente indipendenza del Congo.

Chi approfittò dell'occasione fu Moïse Ciòmbe che l'11 luglio 1960 proclamò l'indipendenza della regione del Katanga.Tra ottobre e dicembre confluirono nel Katanga ufficiali francesi, provenienti dall'Algeria, in qualita' di mercenari, mentre il contingente belga aiutava Ciòmbe, disarmando l'esercito fedele a Lumumba. Le intenzioni dei belgi erano chiarissime: la secessione del Katanga dal sottosuolo scandalosamente ricco di minerali preziosi era una chiara minaccia all'unità della neonata nazione per cui il Primo Ministro interruppe i rapporti con Bruxelles.

 

La separazione fu sostenuta dall'Union Miniere che nella regione aveva forti interessi legati a fabbriche e miniere. Così Ciombe si preoccupò, prima di tutto, di chiedere al Belgio "di conservare il suo aiuto tecnico, finanziario e militare",

La mossa di Lumumba fu plateale e attirò l'attenzione degli Usa che fino a quel momento avevano solo osservato i fatti. Lumumba, denunciando alle Nazioni Unite l'aggressione belga, chiese l'intervento dei caschi blu e minacciò di chiedere l'aiuto dell'Unione Sovietica se il Belgio non avesse ritirato al più presto le truppe dal suolo congolese.

La minaccia divenne presto realtà. Infatti il segretario dell'ONU, Dag Hammarskjöld, poco tempo dopo, venne accusato da Lumumba di essere un fantoccio nelle mani dei belgi; l'accusa investì l'intero operato delle Nazioni Unite che vennero accusate di non fare abbastanza per il problema congolese. I sovietici, guidati da Nikita Krusciov, si unirono a Lumumba per sostenere le accuse.

In definitiva il problema congolese rischiava di divenire un conflitto ascrivibile alla "guerra fredda".

Si aggiunga cha a partire dai primi giorni di agosto, i sovietici cominciarono a inviare camion, aerei, armi e consiglieri militari. Le minacce divennero realtà il 15 agosto 1960, quando Lumumba chiese ufficialmente l'aiuto delle forze del Patto di Varsavia, motivo per cui gli stessi statunitensi decisero di prendere provvedimenti.

Nel bel libro di John Reader, Africa. Biografia di un continente, è riportato il cablogramma dell'ambasciatore americano a Bruxelles che affermava: "Lumumba ha adottato una posizione di opposizione all'occidente, di resistenza alle Nazioni Unite e di crescente dipendenza dall'Unione Sovietica e da sostenitori congolesi che perseguono fini sovietici . Sarebbe prudente, quindi, considerare che il governo di Lumumba minaccia i nostri vitali interessi in Congo e nell'Africa in generale. Il principale obbiettivo dell'azione politica e diplomatica deve perciò essere quello di distruggere il governo di Lumumba così come ora è costituito, ma nello stesso tempo trovare o creare un altro cavallo di battaglia che possa essere accettabile per il resto dell'Africa e difendibile dall'attacco politico sovietico".

 

"L'obiettivo principale da perseguire nell'interesse del Congo, del Katanga e del A Washington

il problema congolese

venne discusso

durante una riunione

del Consiglio

di sicurezza nazionale

 

 

Belgio era evidentemente l'eliminazione definitiva di Lumumba", scrisse in seguito in un telegramma il ministro degli affari africani, Harold d'Aspremont Lynden

A Washington il problema congolese venne discusso durante una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, nel corso della quale il segretario di stato Douglas Dillon e il direttore della Cia Allen Dulles accusarono Lumumba di essere un prezzolato di Mosca.

Il presidente delgli Stati uniti Dwight Eisenhower replicò alle parole dei collaboratori dichiarando: " Stiamo parlando di un solo uomo che ci sta buttando fuori dal Congo: Lumumba, con l'aiuto dei sovietici".

Ormai Patrice Lumumba era diventato un nemico degli Usa, un uomo a cui non bisognava concedere altro spazio. "Lumumba era un pericolo per il Congo e per il resto del mondo, perché avrebbe permesso ai comunisti di stabilirsi nella regione», ha spiegato Lawrence Devlin, l'uomo della Cia a Léopoldville. L'ordine proveniva da Washington. Delvin, inviato immediatamente a Leopoldville, ricevette ordini per sostenere i tentativi per estromettere Lumumba. La storia a questo punto si colora di tinte alla Ian Fleming: si pensò inizialmente di assassinare il leader congolese mettendo del veleno nel suo spazzolino da denti, idea bizzarra presto sostituita dal classico killer dotato di fucile di precisione e silenziatore. Tuttavia, mentre la CIA si concentrava sul metodo più opportuno, i fatti precipitarono e il 5 settembre il presidente Kasavubu, con il plauso di americani e belgi, annunciava alla radio di aver deposto Lumumba dalla sua carica. Quando Lumumba seppe della dichiarazione si precipitò alla stessa stazione radio e dichiarò di aver deposto, a sua volta, Kasavubu. La situazione precipitò nel caos; alcune regioni si dichiararono fedeli a Lumumba ,mentre altre a Kasavubu e a Ileo (un altro candidato).

Cominciò un ondata di arresti e violenze, interrotte solo dal colpo di mano di Mobutu, che, forte della sua potenza militare, depose sia Lumumba che Kasavubu, dichiarandosi nuovo presidente del Congo e facendo appello agli studenti affinché lo aiutassero a riappacificare il paese.

Poi, con eterna gratitudine degli agenti della CIA, impose alla delegazione sovietica e cecoslovacca, di abbandonare il paese entro quarantott'ore.

A poco servirono le accuse di parzialità di Krusciov nei confronti dell'ONU, in quanto le posizioni di Hammarskjöld coincidevano con quelle dei paesi occidentali. Era di fatto la realtà e lo stesso segretario generale dell'Onu difficilmente avrebbe potuto difendersi da queste accuse senza cadere in evidente contraddizione.

 

A Leopoldivliie la situazione, nel frattempo, si stava normalizzando. Mobutu insediò nuovamente Kasavubu al suo posto di presidente ed offrì a Lumumba di prendere parte al nuovo governo in qualità di ministro. Intanto le forze militari a lui fedeli, poggiando sull'aiuto dei caschi blu, che nel frattempo avevano raggiunto la non trascurabile cifra di 19.000 uomini provenienti da 26 paesi diversi, avevano partita vinta con la resistenza filo - Lumumba.

Qust'ultrimo ormai prigioniero nella sua residenza, protetto paradossalmente dai contingenti ONU, e assediato dalle forze di Mobutu, tentò una sortita per raggiungere i suoi sostenitori che si erano riuniti a Stanleyville.

La mossa fu del tutto errata. Catturato dai soldati di Mobutu, dopo aver rifiutato l'ennesima richiesta di Kasavubu di prendere parte al nuovo governo, venne consegnato nelle mani del suo peggior nemico: Ciòmbe.

Il 17 gennaio 1961 Lumumba e due suoi compagni, Mpolo e Okito, vennero messi su un aereo per Elisabethville, la capitale del Katanga, ora chiamata Lubumbashi.

Un funzionario svedese dell'ONU presenziò al loro arrivo: " Il primo a scendere dall'aereo fu un africano elegantemente vestito. Era seguito da altri tre africani, bendati, con le mani legate dietro la schiena. Il primo dei prigionieri (Lumumba) aveva una corta barba. Mentre scendevano la scaletta alcuni dei gendarmes corsero loro incontro, li spinsero, li presero a pedate e li colpirono con il calcio dei fucili; uno di essi cadde a terra. Dopo circa un minuto i tre prigionieri furono caricati su una jeep che si allontanò .".

 

Verso le 10 di sera di quello stesso giorno, un plotone al comando di un ufficiale belga fece fuoco su di lui e sui due compagni. Ciòmbe presenziò all'esecuzione..

Il corpo senza vita di Patrice Lumumba "crivellato dalle pallottole, è fatto a pezzi con un'ascia e dissolto nell'acido solforico" (Tonino Bucci, Liberazione, 17 gennaio 2002).

Dopo la sua morte, il confronto politico continuò senza esclusione di colpi. Nel 1963 le forze Onu si ritirarono, ossia solo quando Ciòmbe dichiarò di rinunciare alla secessione del Katanga, senza tuttavia rinunciare alla lotta per il potere, che si concluse solo nell'ottobre del 1965, grazie a un nuovo colpo di stato di Mobutu che rimase, di fatto, l'unico padrone del paese.

Restano molte incognite a cui pare difficile dare una rispota: Lumumba, era o non era comunista? Domanda di non poco conto, quando ci riportiamo a quei tempi di guerra fredda.

 

Fredda Nigrizia, rivista dei missionari comboniani, lo ritraeva come "estremista e neutralista, per non dire filomarxista".

Da parte loro, gli intellettuali comunisti non si affrettarono di certo a reclutare Lumumba tra le loro file. "Il comunismo era lontano dalla sua cultura e dalle sue idee. Il suo nazionalismo era tipicamente africano", scriveva all'epoca il condirettore dell'Unità. Numerosi testimoni e analisti internazionali convenivano con questo giudizio. È vero che con il precipitare degli eventi il suo linguaggio, inizialmente assai moderato, si radicalizzava e appariva talvolta anche contraddittorio.

Dopo la secessione del Katanga, di fronte alla rinnovata presenza belga sul suolo nazionale, Lumumba minacciò di chiamare le forze sovietiche nel paese. Sia chiaro, Lumumba non inventò nulla di nuovo. Nel 1956, di fronte alla crisi di Suez, il presidente egiziano Nasser si era comportato nel medesimo modo. Si può forse per questo affermare che Nasser fosse marxista?

L'unica differenza fu che Nasser fece appello all'URSS nel 1956, mentre Lumumba nel 1960. Molte cose erano cambiate in quattro anni. In primo luogo il XX congresso del PCUS aveva inaugurato un periodo di distensione cui si mal conciliava un'altra, l'ennesima, crisi internazionale. Inoltre, i potenti della Terra seguivano molto più trepidamente gli eventi cubani o del sud - est asiatico, dove resto si sarebbero trasferiti gli sforzi bipolari per il controllo del pianeta.

Il Congo di Lumumba ripresentava un problema già visto. Si trattava per l'ennesima volta di un popolo che cercava in tutti i modi di emanciparsi dal giogo coloniale, senza rimetterci la camicia. Ovvero, Lumumba desiderava che la fine del colonialismo significasse realmente la cessazione di ogni sfruttamento del territorio, mentre per molti europei alla dominazione politica avrebbe dovuto fare seguito un reiterato sfruttamento economico.

Le miniere del Katanga facevano ancora gola e le compagnie minerarie belga difficilmente vi avrebbero rinunziato.

Certamente così facendo Lumumba si ricavò un posto d'onore nel Pantheon degli eroi del panafricanesimo, anche se non appare un personaggio dalla semplice connotazione.

 

Molti storici ritengono che dalla personalità di Lumumba emergano numerosi paradossi, come sembra dimostrare l'episodio più clamoroso della sua seppur breve carriera politica. Come si può conciliare il fervente nazionalismo di Lumumba con le sue "presunte" simpatie marxiste? E il nazionalismo di Lumumba può essere ascritto alle categorie occidentali, visto che il concetto di nazione non sembra far parte del retroterra culturale africano? Patrice Lumumba era un leader africano che lottava per la propria libertà. Era un uomo di trentacinque anni non disposto al compromesso. La sua unica colpa fu quella di non aver capito che bisognava concedere qualcosa. La scelta verso l'URSS fu quindi una via obbligata più dalla contingenza che dall'ideologia.

 

 

Il maresciallo Mobutu, fece erigere, poco tempo dopo la morte di Lumumba, un monumento che ne ricordava l'opera, proclamandolo eroe nazionale. Ma il miglior monumento alle idee di quest'uomo forse sono le parole dell'ultima lettera scritta alla moglie Pauline, quando era già braccato dalle forze dello stesso Mobutu che così recita: «Mia cara compagna, ti scrivo queste parole senza sapere quando ti arriveranno, e se sarò ancora in vita quando le leggerai. Morto, vivo, libero o in prigione per ordine dei colonialisti, non è la mia persona che conta, ma il Congo, il nostro povero popolo. Non siamo soli. L'Africa, l'Asia e i popoli liberi e liberati di tutti gli angoli del mondo si troveranno sempre a fianco dei milioni di congolesi che non cesseranno la lotta se non il giorno in cui non ci saranno più colonizzatori né mercenari nel nostro paese». «Ai miei figli - l'autore della lettera ne aveva tre - che lascio per non vederli forse mai più, voglio si dica che l'avvenire del Congo è bello. Le brutalità, le sevizie, le torture non mi hanno mai indotto a chiedere la grazia, perché preferisco morire a testa alta, con la fede incrollabile e la fiducia profonda nel destino del nostro paese, piuttosto che vivere nella sottomissione e nel disprezzo dei princìpi che mi sono sacri. Non piangermi, compagna mia. Io so che il mio paese, che tanto soffre, saprà difendere la sua indipendenza e la sua libertà».


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Inviato il 03 dicembre 2005 14:41 Autore

DA SOLDATI A ARDITI DEL POPOLO

CONTRO GLI SGHERRI FASCISTI

 

La nascita dei reparti d'assalto avvenne nel corso dell' estate del 1917 e rappresentò per l'esercito italiano un elemento d'assoluta novità. Se prima di allora alcune truppe scelte erano state utilizzate per portare a termine compiti di particolare difficoltà, erano pur sempre rimaste inserite nei loro reparti d'origine e non avevano determinato nessun mutamento dei tipici indirizzi della fanteria. Nel giugno del 1917, invece, con la creazione dei primi reparti di Arditi nacque qualcosa di nuovo sia per l'addestramento sia per l'impiego; nacque, come ha sottolineato a suo tempo Giorgio Rochat, un corpo concepito e realizzato "per cambiare l'organizzazione della battaglia offensiva". Le truppe d'assalto furono istituite come un'opportunità tattica in un momento ove era indispensabile mantenere serrate le fila e necessario rinvigorire il morale di un esercito tutt'altro che coeso. Queste esigenze furono puntualmente colte da Antonio Gramsci il quale attribuì la nascita dei reparti di Arditi alla necessità di accrescere la combattività dell'esercito stimolando, contemporaneamente, uno Stato maggiore considerato burocratizzato e fossilizzato.

Come sede di addestramento del nuovo reparto, nato all'interno della 2ª armata, fu scelta la località di Sedricca di Marzano e, alla fine del mese di luglio, Vittorio Emanuele fece visita alla neonata formazione che fu quindi posta al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica. Presso il campo di Sedricca fu tenuto un addestramento avanzato sotto tutti gli aspetti: vi erano scuole di lotta giapponese, lezioni di scherma e di pugnale, corsi d'equitazione e di nuoto e, infine, erano simulati veri e propri assalti compiuti sotto il tiro dell'artiglieria . Il soldato, in tal modo, veniva pienamente preparato sotto l'aspetto morale e dal punto di vista tecnico tanto da farne un combattente di tipo nuovo. Sprezzanti sia della vita comoda sia delle istituzioni borghesi e dell'autorità statale, la filosofia dell'Ardito modello era fondata sul motto del "vivere pericolosamente". Come è stato notato da Luigi Balsamini, l'Ardito era "il componente di una rustica corporazione di votati alla morte" e, quest'ultima, era intesa come il "limite estremo del destino". Fra l'agosto e il settembre del 1917, sempre all'interno della 2ª armata, nacquero altri cinque battaglioni mentre ad ottobre un reparto venne alla luce anche all'interno della 3ª armata. Il reclutamento degli uomini che dovevano far parte di questa nuova élite combattente avvenne su basi miste, in maniera da compensare le spinte volontaristiche con le reali esigenze della macchina bellica. Sotto il profilo politico, invece, la maggior parte degli Arditi proveniva dalle fila dell'interventismo democratico e rivoluzionario.

 

Il duro addestramento cui erano sottoposti era compensato da una minore disciplina e da una serie di benefici: furono esentati dai turni in trincea e dalle corvé, ricevettero un supplemento di paga e un vitto migliore, poterono godere di licenze premio e, infine, ebbero in dotazione una divisa particolare che esaltava anche a prima vista la loro diversità dal resto della truppa. Al momento ritenuto opportuno gli Arditi erano accompagnati sulla linea del fronte e a loro era affidato il compito dell'assalto a sorpresa. Armati di pugnale, bombe a mano e moschetto 1891, le loro missioni erano sovente salutate con esplosioni di gioia barbariche.

Nel corso dell'estate del 1917 l'azione più importante condotta dai reparti di Arditi fu la conquista del Monte San Gabriele, a nord est di Gorizia. La loro fama, dopo la rotta di Caporetto, acquistò nuovamente vigore con l'inizio del 1918 quando gli Arditi conquistarono il Valbella, il Col rosso e il Col d'Echele facendo numerosi prigionieri. L'impresa fu esaltata dal generale Sanna con le seguenti parole:

" Tutta l'Italia freme d'entusiasmo e di gloria. Essa ritrova in voi i combattenti che le falangi barbare più agguerrite e fortilizi più aspri non arrestano quando la fede è nei cuori e la volontà di vincere è la sola misura del pericolo da affrontare".

Nei mesi seguenti la fama degli Arditi crebbe notevolmente guadagnando un prestigio che, ad ogni modo, andava al di là del loro effettivo ruolo giocato sulle sorti della guerra. Alla fine del conflitto i reparti d'assalto costituiti erano circa una cinquantina e inquadravano un numero di uomini oscillante fra le 25 e le 30 mila unità. Durante i mesi

In posa per la foto-ricordo

 

passati al fronte gli Arditi svilupparono un fortissimo spirito cameratesco e, contemporaneamente, crebbe in loro una altrettanto forte adesione verso gli ideali dell'interventismo patriottico. Questa realtà, che maturò non dal punto di vista individuale ma di gruppo, fece sì che fosse accentuata la loro ostilità sia nei confronti delle tradizionali forze politiche, sia nei riguardi di quanti avevano assunto un atteggiamento di rifiuto della guerra.

Si tenga inoltre presente la loro particolare atipicità che, già nel corso del conflitto, aveva suscitato reazioni negative nei loro confronti da parte dei carabinieri e della stessa popolazione civile. Una volta che i vertici militari ebbero sfruttato il loro mito, temendo il sorgere di problemi di carattere pubblico al momento del loro ritorno alla vita civile, ne ritardarono il più possibile la smobilitazione. Così, prima di fare ritorno alle proprie case, gli Arditi furono sottoposti alle ordinarie fatiche militari che suscitarono in loro un senso di rivalsa e la sensazione che ai loro danni si fosse consumato un vero e proprio tradimento. La soluzione adottata dalle gerarchie politiche e militari, perciò, anziché sopire andò ad alimentare ulteriormente la vena ribellistica dell'arditismo.

 

Il difficile reinserimento dei combattenti

Tutti gli ex combattenti, una volta smobilitati, dovettero fare i conti con il loro difficile reinserimento nella vita civile che, nel frattempo, aveva conosciuto profonde trasformazioni di carattere economico e sociale. A questo si aggiungano le difficoltà che ogni soldato dovette superare, sotto il profilo psicologico, per via dei lunghi anni passati al fronte e in trincea. Il ritorno ad una vita normale, per quanti avevano fatto parte dei reparti di Arditi, fu ancora più complesso: per loro la guerra, pur essendo stata un grande sacrificio, era comunque la più bella esperienza vissuta fino a quel momento tanto da essere diventata, in pratica, la loro seconda natura.

La dura esperienza vissuta al fronte li aveva convinti di rappresentare la parte più viva della società e, da questo presupposto, discendeva una forte carica in direzione del rinnovamento e vere e proprie aspirazioni di una palingenesi politico sociale. Le aspettative degli Arditi, però, si vennero ben presto a scontrare con la realtà di un sistema che era ben lontano dall'aver mutato i suoi centri di potere e che, nonostante le promesse formulate nel corso della guerra, era restio ad aprirsi più del necessario per timore di essere travolto dalla nascente realtà di massa che si stava profilando. Gli Arditi, perciò, si trovarono ad essere delle libere truppe con forti aspirazioni deluse: attendevano solo che qualcuno fosse capace di inquadrarli e di sospingerli verso l'obiettivo di una radicale trasformazione della società. Lo spirito che permeava l'arditismo è chiaramente avvertibile nel seguente appello, nel quale tutte le fiamme nere erano chiamate a raccolta, lanciato a Roma da Guido Carli:

"L'Italia ha creato gli Arditi perché la salvino da tutti i nostri nemici. Il nostro pugnale è fatto per uccidere i mostri esterni e interni che insidiano la nostra patria. (...) C'è da fare moltissimo quaggiù. C'è da sventrare, spazzare, ripulire in ogni senso".

Il 1° gennaio del 1919, lo stesso Carli, costituì l'Associazione Arditi d'Italia con un programma dalle finalità assistenziali, ma che conteneva anche indicazioni politiche peraltro meno precise nei contenuti rispetto alle prese di posizione lasciate nel corso dei mesi precedenti. L'ingresso degli Arditi nell'agone della politica, comunque, avvenne mediante il futurismo e il "Popolo d'Italia" guidato da Mussolini. Per tutto il 1919, e per la prima parte del 1920, futurismo, fascismo e arditismo costituirono un "blocco organico". Il momento d'incontro fra arditismo e fascismo avvenne nei primi mesi del 1919 con le aggressioni compiute ai danni del socialista Bissolati e poi con l'assalto, datato 15 aprile, ai danni dell' "Avanti!".

 

In seguito, il nascente movimento fascista, riuscì facilmente, richiamandosi al combattentismo, a costruire una linea di continuità fra gli ex combattenti e il fascismo stesso che ne assorbì e piegò ai propri scopi le loro molteplici sfumature. L'incontro con il futurismo, invece, nacque dalla condivisione della volontà di rinnovare il paese svecchiandolo e modernizzandolo. Il sodalizio fra queste tre componenti, però, era destinato a infrangersi presto. La separazione con i futuristi avvenne nel corso del 1920 quando questi abbandonarono la scena politica per limitare la loro azione in ambito letterario e artistico. Fra il 1919 e il 1920 erano destinati ad incrinarsi anche i rapporti tra Arditi e fascismo dato che, all'interno dell'arditismo, crebbe il disagio di coloro che

La figura dell'ardito diventa

rapidamente mitologica

 

criticavano la subordinazione della propria organizzazione a quella fascista e si fece strada fra molti il dubbio sulla direzione intrapresa che, di fatto, li poneva a fianco della borghesia contro le classi operaie e contadine. Nel luglio del 1919, in uno scritto apparso su Roma futurista, Guido Carli avanzò l'ipotesi di una collaborazione con il movimento socialista individuando nella lotta contro il caroviveri un possibile punto di incontro:

"E' la lotta contro le attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chiamino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o parlamentarismo". L'arditismo, pertanto, non va considerato come movimento per sua natura destinato inevitabilmente a schierarsi in favore del blocco d'ordine. Esso, in realtà, era privo di una direttiva precisa e permeato da comportamenti difformi ed eterogenei. Nel corso del biennio rosso, ad esempio, gruppi di Arditi presero parte alle agitazioni per il caroviveri o si schierarono a fianco delle correnti radicali di sinistra. L'esperienza più significativa di questo indirizzo è certamente quella costituita dall'impresa di Fiume che, per un breve periodo, parve il luogo eletto dei sovversivi. L'esperienza di D'annunzio non trovò l'appoggio né dei fascisti né dei nazionalisti. Le vicende fiumane furono un esperimento progressista e rivoluzionario sotto tutti gli aspetti la cui radicalità dei contenuti sociali trovò la sua massima espressione nella cosiddetta Carta del Carnaro redatta da Alceste De Ambris. Per molti Arditi, l'esperienza di Fiume rappresentò una tappa fondamentale che li portò prima alla rottura definitiva con il movimento fascista, poi alla testa della resistenza popolare contro il fascismo stesso.

 

Lo squadrismo e la nascita degli Arditi del popolo

Con i fatti di Palazzo Accursio, a Bologna, nel novembre del 1920, ebbe inizio il biennio nero conclusosi con la marcia su Roma e l'ascesa a primo ministro di Benito Mussolini. Alle prime gesta di sfida condotte dalle squadre fasciste per dare prova del proprio coraggio, fecero seguito le spedizioni di conquista vere e proprie che avevano il fine di distruggere, purificare e redimere la popolazione riconducendola alla fede nazionale. Lo squadrismo colpì le organizzazioni operaie adottando una tattica modellata sull'esperienza militare che ebbe tutti gli aspetti di una vera e propria azione di guerra. I comandanti delle squadre armate, ha colto con precisione Del Carria, erano in gran parte "ex ufficiali [...], in genere spiantati e declassati nella vita civile", i quali trasportarono la loro esperienza bellica sul piano della politica interna. Le rappresaglie fasciste avevano le caratteristiche del movimento di guerriglia ed erano basate su azioni fulminee e su una grande mobilità.

I fascisti arrivavano nei luoghi scelti per le loro spedizioni da diverse province e colpivano i loro obiettivi con estrema violenza e rapidità, facendo poi, altrettanto celermente, ritorno ai propri paesi. In questo modo erano in grado di concentrare tutta la loro forza, anche se dispersa, su alcuni obiettivi determinati: colpivano in massa cogliendo totalmente impreparati e divisi i loro avversari. Di fronte a tanta violenza i socialisti, che per anni avevano sbandierato i loro propositi rivoluzionari, fecero appello all'atavica pazienza contadina sperando in un intervento di risolutore di uno di quei governi comunque considerati strumento del potere borghese. Fra le tante citazioni possibili per mettere in evidenza questo orientamento, ecco l'invito rivolto alle masse quotidianamente aggredite dallo squadrismo del deputato socialista Filippo Turati:

"Non raccogliete le provocazioni; non fornite loro pretesti; non rispondete alle ingiurie. State buoni, siate pazienti, siate santi. Lo foste già per millenni; siatelo ancora. Tollerate! Compatite. Perdonate anche. Quanto meno mediterete vendetta, tanto più sarete vendicati. E coloro che scatenano sopra di voi l'obbrobrio del terrore, tremeranno dell'opera propria...".

La grande ondata di violenze fasciste trovò perciò raramente un'opposizione decisa capace di arrestarla e i lavoratori, privi di direttive e impreparati militarmente, furono generalmente costretti a subire. Se i socialisti non si preoccuparono di organizzare una lotta frontale, il Partito comunista d'Italia assunse una posizione decisa dando vita a squadre armate e a comitati di difesa proletaria ma rimase un Partito di quadri incapace di saldarsi con le masse e chiuso nel suo settarismo.

 

Anche quando i comunisti scelsero lo scontro aperto rimasero una semplice avanguardia priva di collegamenti con la popolazione e furono destinati all'insuccesso. In alcuni casi i lavoratori presero spontaneamente l'iniziativa assalendo i fascisti, ingaggiando scontri per le strade cittadine e attaccando le case del fascio, ma quando questo si verificò risultò chiara l'assenza organizzativa e la carenza di cognizioni militari: furono in pratica sempre azioni isolate e mai vere e proprie lotte di massa. L'unica eccezione fu costituita appunto dagli Arditi del popolo.

Nel corso del novembre 1920 gli Arditi si riunirono nell'Associazione Nazionale Arditi d'Italia. Nei primi mesi del '21 l'organizzazione assunse un indirizzo di equidistanza sia dal fascismo che dal socialismo e, a tal fine, venne chiesta l'uscita degli Arditi dall'organizzazione dei Fasci di combattimento. Gli aderenti ad entrambe le organizzazioni non accettarono però tale linea e quindi diedero vita alla Federazione Nazionale Arditi d'Italia. La linea di neutralità non fu però neppure accettata dalla corrente spostata più a sinistra che, conseguentemente, fondò l'associazione degli Arditi del popolo. Alcune riunioni che affrontavano la questione di come comportarsi nei riguardi dello squadrismo si verificarono già a partire dall'aprile. La loro nascita ufficiale, comunque, risale al 2 luglio 1921 quando a Roma, presso l'Orto botanico, trecento iscritti risposero all'appello di Argo

Bandiera degli Arditi del Popolo

 

Secondari che, in quell'occasione, affermò che gli Arditi non avrebbero più tollerato le violenze fasciste e che la nuova organizzazione, se queste non fossero cessate, avrebbe ribattuto colpo su colpo alle provocazioni. Qualche giorno più tardi, a suggello di tale linea, sempre nella medesima sede ebbe luogo una manifestazione contro le violenze fasciste che vide la partecipazione di decine di migliaia di lavoratori.

Nel corso dell'estate il movimento si diffuse rapidamente toccando il numero di 144 sezioni e raggruppando almeno 20 mila iscritti di estrazione prevalentemente proletaria. Gli Arditi erano organizzati secondo criteri di carattere militare: alla base vi erano le squadre composte da una decina di elementi, quattro squadre davano vita ad una compagnia e, tre di queste ultime, costituivano un battaglione che riuniva poco più di un centinaio di persone. Era una organizzazione agile, non accentrata e modellata sulle specificità locali, capace di dare risposte adeguate alla peculiarità dello squadrismo fascista, ma anche di colpire con attacchi preventivi e di rappresaglia.

 

La linea degli Arditi si basò su due punti: lotta armata contro il fascismo ed esigenza unitaria sul terreno rivoluzionario tra proletariato e ceto medio ex combattente. Ove questa alleanza si realizzò il fascismo fu battuto perché trovò contro di sé un popolo intero armato che conosceva strategia e tattica di guerra, che aveva esperienza della difesa e dell'offesa; le squadre fasciste si trovarono in pratica di fronte a una situazione completamente diversa rispetto alle condizioni nelle quali operavano abitualmente. Nel luglio del 1921 i fascisti furono messi in fuga a Viterbo e poi Sarzana. Nel settembre, al tentativo di occupazione fascista, resistette Ravenna mentre a novembre a Roma, in occasione dell'adunata che avrebbe assorbito i fasci nel partito, le squadre fasciste si impadronirono del centro della città ma non riuscirono a penetrare nei quartieri popolari ove furono puntualmente respinti. Nonostante la crisi che colpì il movimento nell'autunno, per via della repressione condotta nei loro confronti dal Governo Bonomi, squadre di Arditi si opposero alle forze fasciste anche nell'anno seguente riportando successi militari a Piombino, Civitavecchia, Bari.

A Genova e Ancona, durante lo sciopero legalitario, i fascisti riuscirono ad avere la meglio esclusivamente grazie all'intervento dell'esercito e della forza pubblica. Simbolo della lotta degli Arditi, e di una vera volontà collettiva di resistenza, fu però la città di Parma che, nelle giornate fra il 4 e il 6 agosto del 1922, eresse barricate e affrontò vittoriosamente le squadre fasciste di Italo Balbo. Gli Arditi del popolo, pertanto, conferirono alla resistenza al fascismo un livello di preparazione militare che permise ai lavoratori di scontrarsi con lo squadrismo sullo stesso piano, non a caso alla loro testa si posero ex ufficiali che strutturarono il movimento utilizzando modelli militari. Comprendendo la vera natura del fascismo, gli Arditi cercarono di realizzare le più vaste alleanze sociali aprendo le proprie fila a socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani e cattolici di base che si organizzarono in dispregio e disubbidienza agli ordini dei loro partiti. Se però le autorità si mostrarono sempre disposte a chiudere un occhio alle violenze fasciste dando vita a fenomeni di vera e propria connivenza, nei riguardi degli Arditi del popolo la repressione fu particolarmente dura. Nell'agosto del 1921 due circolari del gabinetto Bonomi inviate alle prefetture suggerivano di considerare gli Arditi del popolo come una vera e propria associazione a delinquere. Il movimento fu così combattuto dalle autorità in maniera decisa soprattutto in quelle zone ove più chiara era emersa la volontà di organizzarsi e di condurre una lotta contro il fascismo ad armi pari. Sotto i colpi dello Stato e senza appoggi politici da parte delle stesse componenti antifasciste l'arditismo popolare era però un esempio destinato a cadere nel vuoto.

 

Gli Arditi e i partiti antifascisti

L'esperienza degli Arditi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, fu infatti sconfessata dalle principali forze antifasciste eccezion fatta per il movimento libertario. Per il Partito comunista d'Italia, nonostante l'Internazionale avesse lanciato la parola d'ordine del fronte unico e quindi della collaborazione con i partiti socialisti, la rivoluzione continuava ad essere la meta da raggiungere nell'immediato e il fascismo era considerato come l'estrema ed ultima reazione che precedeva il fatidico momento. Ne derivava l'inaccettabilità di qualsiasi compromesso con altre forze e il dovere di rinsaldare il proprio organismo sottraendolo da ogni possibile cedimento. Per i comunisti era necessario un inquadramento di tipo rivoluzionario che, però, poteva essere garantito solo dal metodo

Barricata antifascista a Parma

 

comunista e ovviamente dal partito d'avanguardia. Rimando la rivoluzione l'obiettivo fondamentale, qualsiasi risultato intermedio non era ritenuto sufficiente. Dal punto di vista militare era importante costituire proprie formazioni, ma solo come strumento per conquistare la guida delle masse e per smascherare la falsa indole rivoluzionaria dei riformisti.

Posizioni simili furono assunte anche dai repubblicani che invitarono i propri simpatizzanti e aderenti alla costituzione di squadre di partito ritenute la garanzia irrinunciabile per il mantenimento della propria specificità politica. Questa posizione dei repubblicani maturò solo dopo che la violenza fascista colpì le loro organizzazioni. In precedenza, a dimostrazione di come anche loro non avessero colto la specificità del fascismo, le azioni squadriste erano viste nell'ottica di uno scontro interno che vedeva contrapposti solo fascisti e socialisti. Avversi agli Arditi, se si eccettua la corrente terzinternazionalista, furono anche i socialisti. Le altre due componenti del partito, la corrente riformista e quella massimalista, ritenevano lo squadrismo un fenomeno passeggero e, allo stesso modo dei comunisti, interpretavano il momento come la tappa più acuta della crisi dello Stato borghese cui avrebbe fatto seguito il suo crollo inevitabile. L'unica forza che appoggiò gli Arditi del popolo, pur con qualche differenziazione al suo interno, fu quella del movimento anarchico. Il loro fine a lungo termine era appunto quello della costruzione di una società anarchica ma, nel breve periodo, l'alleanza con altre forze appariva necessaria onde accelerare la crisi del sistema e giungere quindi all'abbattimento dello Stato borghese.

 

L'esperienza degli Arditi del popolo fu accolta favorevolmente anche per altre due ragioni. Innanzitutto essa si configurava come un'alleanza orizzontale frutto di uno spontaneismo di base che, essendo sganciato da qualsiasi controllo verticistico e di partito, ben si adattava ai princìpi libertari. In secondo luogo il movimento anarchico colse più di tutti gli altri partiti antifascisti la specificità del fenomeno fascista e della lotta contro di esso. Quest'ultima era giustamente ritenuta mortale: la sconfitta contro il fascismo avrebbe infatti inevitabilmente aperto le porte alla dittatura. Il giornale anarchico il "Grido della Rivolta" scriveva, invitando implicitamente all'azione: "Di fronte alla violenza fascista sono inutili i belati di protesta evangelica e sono ridicoli e poco dignitosi gli appelli alla forza pubblica e alla tutela del Governo".

 

Conclusioni

Gli Arditi del Popolo, ha scritto Paolo Spriano, furono "una meteora nel cielo incandescente della guerra civile". Alla violenza squadrista, l'organizzazione antifascista, fu capace di rispondere con gli stessi metodi e, ogni qualvolta ebbe l'opportunità di porsi alla testa delle masse, riuscì a mettere in scacco le squadre fasciste. La loro esperienza, però, assai breve e contrastata, fu destinata a scivolare velocemente nel dimenticatoio. Affrontare l'argomento dell'arditismo popolare, infatti, significava per tutte le forze che si erano scontrate con il fascismo, soprattutto dover aprire una riflessione sui loro errori e sulla loro reale capacità di comprensione del movimento mussoliniano. Fenomeno minoritario e spontaneo, l'arditismo fu sconfessato dalle principali forze di sinistra ricevendo un appoggio incondizionato quasi esclusivamente da parte del movimento libertario. Sul lato opposto della barricata, invece, gli Arditi che si erano schierati a fianco del fascismo furono lentamente assorbiti nella macchina del regime diventando un oggetto da rispolverare ogni qual volta era necessario cantare le lodi dell'italico popolo guerriero anche se, poi, per mobilitare le grandi masse la conquista dell'Impero e la guerra di Spagna risultarono molto più efficaci del mito dell'Ardito


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Inviato il 03 dicembre 2005 14:50

Certo, però adesso non ho molto tempo per scrivere, probabilmente lo farò tra un po'


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Arvin Sloane
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Arvin Sloane
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Inviato il 03 dicembre 2005 14:57

BATTAGLIA DELLA TREBBIA

 

 

La Battaglia della Trebbia avvenuta il 18 dicembre del 218 AC nel quadro della seconda guerra punica, è stato il secondo scontro ingaggiato al di qua delle Alpi fra le legioni romane del console Publio Cornelio Scipione (padre dell'Africano) e quelle cartaginesi guidate da Annibale.

 

BATTAGLIA DELLA TREBBIA

CONFLITTO Seconda Guerra Punica

DATA 18 Dicembre del 218 a.C.

LUOGO Fiume Trebbia, Italia

RISULTATO Vittoria Dei Cartaginesi

 

 

COMBATTENTI

Esercito Romano Esercito Cartaginese

COMANDANTI

Tiberio Sempronio Longo Annibale

FORZE

Circa 30.000 Uomini Circa 38.000 Uomini

PERDITE

Circa 10.000 Uomini Sconosciuto

 

 

 

1. SITUAZIONE

 

SCIPIONE

 

La battaglia del Ticino era terminata poche settimane prima con esito disatroso per le legioni di Publio Cornelio Scipione. I romani erano stati respinti e si erano ritirati verso la colonia di Piacenza per riorganizzarsi. Ma non era possibile resistere ancora a lungo e Scipione, ferito, aveva portato le sue truppe in luoghi collinosi dove la cavalleria numidica e gli elefanti di Annibale avrebbero avuto maggiori difficoltà.

Per sua fortuna gli uomini di Annibale si attardarono a perlustrare il campo abbandonato e le legioni di Scipione poterono attraversare il fiume e distruggere il ponte di barche rallentando ulteriormente l'inseguimento dei cartaginesi. Scipione riuscì a costruire un campo fortificato dove, mentre attendeva l'arrivo delle legioni del collega Tiberio Sempronio Longo lasciava riposare le sue truppe. La dilatazione dei tempi consentì alle legioni consolari guidate da Tiberio Sempronio di ricongiungersi alle forze di Scipione. A Sempronio era stato ordinato di portare la guerra in Africa ed era in Sicilia con le sue due legioni per preparare lo sbarco quando giunse da Roma l'ordine di portarsi velocemente in Gallia Cisalpina per contrastare Annibale. Le legioni di Sempronio in 40 giorni (non si sa se marciando o, come narra Livio, risalendo l'Adriatico per mare) erano giunte prima a Rimini e poi al campo di Scipione.

 

ANNIBALE

 

Per Annibale si pose il problema dei rifornimenti di viveri in quanto gli alleati Galli non erano poi così generosi verso l'esercito punico. La soluzione arrivò con l'"acquisto" di Clastidium, la fortezza-dispensa dove i romani tenevano grandi riserve di viveri. Tito Livio, lo storico del I secolo attribuisce al prefetto del presidio, il brindisino Dasio, la cessione della borgata per la somma, nemmeno eccezionale, di quattrocento nummi aurei. A suo vantaggio aveva la defezione dei Celti che, come ci informa Polibio, dopo la sconfitta di Publio al Ticino,

 

" ...constatando che le prospettive dei Cartaginesi erano più brillanti, dopo aver tramato tra loro stavano in attesa dell'occasione favorevole per un assalto, ciascuno restando nella propria tenda. Quando gli uomini del campo ebbero mangiato e si furono addormentati, essi, lasciata passare la maggior parte della notte, verso la veglia del mattino assalirono armati i Romani che erano accampati nelle vicinanze. E molti ne uccisero, non pochi ne ferirono; infine, tagliate le teste ai morti, andarono a rifugiarsi presso i Cartaginesi: erano circa duemila fanti e poco meno di duecento cavalieri".

 

(Polibio, Storie, III, 67, Rizzoli, Milano, 2001, Trad.: M. Mari)

 

 

2. LA PREPARAZIONE

 

Publio Cornelio Scipione, ferito, cercava di prendere tempo contando anche sul fatto che ormai era inverno e le operazioni belliche si sarebbero dovute fermare per il maltempo. Non così la pensava Tiberio Sempronio Longo reduce da alcune vittorie in Sicilia. Il console, al comando di forze col morale alto, spingeva per la soluzione veloce, probabilmente anche perché l'anno consolare volgeva alla fine e quindi la gloria, e i relativi vantaggi politici, di una vittoria su Annibale sarebbero toccati ai consoli successori. E la vittoria sembrava abbastanza scontata; le forze di Scipione erano ritenute, ancora e tutto sommato, intatte; ad esse si erano aggiunte le due legione, fresche e motivate, guidate da Tiberio Sempronio. Per contro Annibale non riusciva a reclutare sufficienti combattenti fra i Galli della regione. Questi, anche se aiutavano i cartaginesi con vettovaglie e altri aiuti logistici, non erano accorsi in massa sotto le bandiere del condottiero. Inutilmente la propaganda cartaginese cercava di imporre l'immagine di Annibale liberatore dai romani, le tribù galliche si mostravano piuttosto tiepide e ben attente a non sbilanciarsi dopo tante sconfitte patite contro Roma. Per ovviare a questa non esaltante accoglienza, Annibale decise di forzare i tempi.

 

"Il territorio fra la Trebbia e il Po era allora abitato da Galli i quali, in quella lotta fra due potentissimi popoli, miravano senza dubbio a favorire or l'uno or l'altro, per avere poi la benevolenza del vincitore [...] ne era irritato Annibale, che andava dicendo di essere stato chiamato dai Galli a liberarli. Per ciò e per nutrire le truppe con prede ordinò a duemila fanti e mille cavalieri, Numidi per la maggior parte, con l'aggiunta di alquanti Galli, di saccheggiare tutto il paese via via fino alla riva del Po"

 

(Tito Livio, Storia di Roma (Ab Urbe condita libri), XXI, 52, Mondadori, Milano, 1998, trad.: a cura di G. Vitali)

 

I Celti, che non si potevano difendere, chiesero aiuto ai romani, forse anche per vedere meglio chi sarebbe risultato utile appoggiare. Scipione, non si fidava: ne aveva dovuto provare la sanguinosa defezione pochi giorni avanti e ricordava che qualche mese prima i Galli Boi avevano mostrato di mancare alla parola consegnando ad Annibale gli agrimensori venuti a spartire le terre. Sempronio, per contro, considerava ottima propaganda venire in soccorso dei soci per conservarne la fedeltà. E Sempronio entrò in azione.

 

 

3. PRODROMI

 

Sotto la spinta del saccheggio Sempronio Longo mandò:

 

"la maggior parte dei cavalieri e con loro mille fanti armati di lancia. Costoro rapidamente assalirono i nemici al di là della Trebbia e contesero loro il bottino, sicché i Celti furono vòlti alla fuga con i Numidi e si ritirarono nel proprio campo. Quelli che presidiavano il campo [...] da lì portavano soccorso ai compagni in difficoltà [...] i romani cambiarono di nuovo direzione e ripartirono per il loro campo".

 

(Polibio, cit., 69, 8-10)

 

Sempronio Longo lanciò tutta la sua cavalleria e gli hastati addosso ai cartaginesi e questi dovettero ripiegare nuovamente nel campo. Annibale, dice Polibio, trattenne i suoi dal tentare una nuova riscossa. E i romani dopo aver atteso qualche tempo, rientrarono al loro campo. Avevano avuto poche perdite e molte ne avevano inflitte ai nemici. Sempronio eccitato e felice voleva chiudere la situazione con uno scontro decisivo ma volle discutere la cosa col collega.

 

"Publio aveva un'opinione contraria, riteneva infatti che le legioni sarebbero state in migliori condizioni dopo essersi eserciate durante l'inverno, e che i Celti, nella loro incostanza, non sarebbero rimasti fedeli se i cartaginesi fossero rimasti inattivi"

 

(Polibio, cit., 70, 3-4)

 

Annibale, dice Polibio, aveva lo stesso parere di Publio sulla situazione ma era interessato a passare all'azione. Per lui era prioritario sfruttare le forze dei Galli, ancora intatte, gli conveniva affrontare le legioni romane non ancora esercitate, preferiva che Publio, ferito, non potesse scendere in campo e, infine, non poteva perdere tempo: era isolato e

 

"per chi cali in terra straniera e tenti imprese straordinarie c'è infatti una sola via di salvezza: rinnovare sempre, senza sosta le speranze degli alleati".

 

(Polibio, cit., 70, 11)

E anche Annibale entrò in azione.

 

 

4. LA BATTAGLIA DELLA TREBBIA

 

La sera dello sfortunato scontro con i romani, Annibale scelse cento fanti e cento cavalieri fra i migliori a sua disposizione e ordinò a questi di scegliere ognuno nove compagni che ritenessero i migliori. Tutti furono affidati al fratello minore Magone, giovane ma già istruito all'arte della guerra. Durante la notte, dopo aver dato a Magone indicazioni sul come e quando intervenire, mandò le truppe scelte a nascondersi fra rovi e canne palustri nel letto di un torrente. Era dicembre, Polibio precisa "attorno al solstizio d'inverno" e che "era una giornata di freddo e neve eccezionali". Il mattino, mentre i sui uomini si rifocillavano e si riscaldavano, Annibale mandò la cavalleria Numidica a provocare i romani che avevano il campo sull'altro lato della Trebbia.

All'arrivo dei Numidi, Sempronio, come aveva già deciso, fece uscire tutta la cavalleria, poi seimila fanti (in pratica due legioni) e poi tutto il resto dell'esercito. Livio ci descrive bene in quali condizioni l'esercito romano fu mandato in battaglia:

 

"...essendosi tratti fuori così a furia uomini e cavalli, senza che avessero potuto prima prender cibo e senza che nulla fosse stato predisposto per difenderli dal freddo, le membra erano irrigidite [...] come poi, inseguendo i Numidi in ritirata, entrarono nell'acqua (che gonfiata dalla pioggia notturna, arrivava loro fino al petto), ne uscirono fuori tanto agghiacciati che a malapena potevano tenere le armi, e venivano meno per la stanchezza e, con l'inoltrarsi del giorno, anche per la fame".

 

(Tito Livio, cit., XXi, 54.)

 

Per contro Annibale aveva tenuto il grosso delle truppe il più riparato possibile, erano stati accesi fuochi davanti alle tende, i corpi dei combattenti erano stati unti con l'olio per ammorbidire le membra e impermeabilizzare la pelle, era stato distribuito il rancio; insomma era stato fatto quanto era possibile per avere delle truppe fresche e riposate. Solo quando fu annunciato che i romani avevano passato il fiume l'esercito cartaginese fu disposto in ordine di battaglia. Il centro dei cartaginesi era formato dai Balearici (in genere arcieri e frombolieri) e le truppe armate alla leggera (ottomila uomini) e la fanteria pesante (circa ventimila combattenti Iberi, Celti e Libi). A destra e a sinistra, davanti alle ali furono posti gli elefanti. Le ali erano formate da diecimila cavalieri. Sempronio dovette far arrestare la sua cavalleria che si era parzialmente dispersa all'inseguimento dei Numidi. I cavalieri si posero, come d'uso, ai lati della fanteria che man mano si stava organizzando al centro dello schieramento: Diciottomila romani (per Polibio sedicimila), ventimila socii latini e un numero imprecisato di Galli Cenomani (i soli rimasti fedeli), secondo Tito Livio, formavano l'esercito dei consoli. Ma la cavalleria era composta di soli quattromila elementi. Subito dopo l'inizio della battaglia la fanteria leggera entrò in difficoltà; i fanti erano bagnati, infreddoliti, avevano sprecato molti dardi contro i cavalieri Numidi e quelli che restavano erano bagnati e quindi inservibili. Anche i cavalieri erano nelle stesse condizioni. Non appena i fanti leggeri cominciarono a ritirarsi in seconda fila per lasciare posto alle truppe armate pesantemente entrò in azione la cavalleria cartaginese, più riposata e superiore di numero, che pressò le ali romane. La cavalleria romana dovette cedere terreno lasciando ulteriormente sguarnite le ali su cui piombarono i cavalieri numidi e i lanceri cartaginesi. Con i fianchi sotto pressione, il centro dello schieramento non poté combattere sul fronte. Solo la fanteria pesante riusciva a reggere il corpo a corpo e quel settore lo scontro restava in equilibrio. Entrò allora in azione Magone con i suoi duemila uomini scelti, piombando all'improvviso alle spalle dei romani che si trovarono in ulteriore difficoltà. Infine le ali dei romani pressate ai fianchi dai fanti leggeri e davanti dai cavalieri e dagli elefanti volsero in fuga verso il fiume che avevano attraversato con orgogliosa sicurezza. Il centro dello schieramento romano fu sconvolto da dietro da Magone e i suoi e chi stava in seconda e terza linea veniva ucciso senza difficoltà. Solo la prima linea riuscì non solo a resistere ma a spezzare lo schieramento punico, inserendosi sanguinosamente fra i Celti e i Libici. Però, tagliati fuori dal grosso dell'esercito, questi combattenti dovettero rinunciare a portare soccorso ai colleghi; in circa diecimila, stanchi, affamati, bagnati ma compatti riuscirono a ritirarsi, in ordine, a Piacenza. Dei resti dell'esercito romano una parte fu sterminata nei pressi della Trebbia dai cavalieri e dagli elefanti di Annibale, mentre la cavalleria e parte dei fanti riuscì prima a ritornare al campo e poi, visto che le forze cartaginesi non riuscivano a passare il fiume per la stanchezza e il disordine, guidati da Publio Cornelio fecero ritorno a Piacenza e poi anche Cremona per non gravare con tutto l'esercito sulle risorse di una sola colonia. La battaglia della Trebbia era terminata con un chiaro successo di Annibale. Cartagine aveva conquistato quasi tutta la Val Padana. Sempronio Longo mandò a dire a Roma che il maltempo aveva determinato la sconfitta (Polibio usa i termini "mandò a dire che il maltempo aveva sottratto loro la vittoria"). Per un po' a Roma questa versione fu accetta ma ben presto si vide che Annibale manteneva il suo campo, i Celti si alleavano con i punici e le legioni si erano rinchiuse nelle colonie e dovevano essere rifornite per via fluviale da Rimini e i romani.

 

"capirono sin troppo chiaramente come erano andate le cose nel combattimento".

(Polibio, cit., 75,3).

 

trebbia.jpg

 

La mappa della Battaglia. Spero sia abbastanza chiara


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Morgil
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Inviato il 03 dicembre 2005 15:00 Autore

ok quando vuoi postare qualcosa sei il benvenuto! :wub:

 

postate anche cosa sul 900 in effetti non ha senso fermarsi al 800! ;)


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Inviato il 03 dicembre 2005 15:56 Autore

Il genocidio degli indiani negli Usa del 1800.

I soldati blu offrirono un incontro di pace e...

 

CAPO "MANGAS COLORADAS"CREDETTE ALLA PAROLA DEGLI UOMINI BIANCHI.MASSACRATO A TRADIMENTO

 

 

Vorrei proporvi alcuni giudizi su un uomo, formulati dal colonnello John Cremony, dell'Esercito degli Stati Uniti d'America, che spesso si trovò a dover combattere contro questo personaggio: "I suoi sagaci consigli avevano l'impronta di un vero uomo di stato dalle larghe vedute, più di quelle di qualsiasi indiano dei tempi moderni... Egli seppe raccogliere e tenere unite insieme a sè molte bande di selvaggi guerrieri, cosa mai riuscita ad alcuno dei suoi predecessori... insegnò loro a comprendere il valore dell'unione delle forze e seppe esercitare un'influenza mai eguagliata..." Di chi sta parlando l'ufficiale americano? Il giudizio così ammirato ci farebbe pensare prima di tutto ad un uomo come Toro Seduto, la cui saggezza e superiorità è universalmente riconosciuta. Ma non si tratta qui del grande capo dei Sioux Hunkpapa, del vincitore del Little Big Horn. Si parla di una figura meno conosciuta, poco o nulla celebrata nel mito del West. Eppure è un uomo che per un quarto di secolo seppe tenere in scacco soldati e rangers, americani e messicani, da cui non venne mai battuto in campo aperto. Il suo nome era Mangas Coloradas (Maniche Rosse); era nato nel 1800 circa. La data esatta non è conosciuta, come sconosciuta è l'esatta località, situata comunque nel sud-ovest del Nuovo Messico. La sua tribù era quella degli Apache Mimbreno. Fu un uomo fuori del comune, ma su di lui la storiografia non ha molto indugiato. Forse perchè gli apache furono sempre considerati gli indiani più "straccioni". Abitavano le regioni montuose e desertiche dell'Arizona, del Nuovo Messico e del Messico, in una circonferenza ideale che abbracciava l'alto corso del Rio Grande e le loro diverse tribù prendevano il nome dalle zone in cui erano insediate. Non avevano grandi tradizioni culturali e religiose, erano un popolo povero, non combattevano per la gloria, ma per la dura necessità di sopravvivere. Questo spesso li spinse, vivendo in regioni dove la terra dava poco o nulla, ad essere predatori; ma questo fece di loro anche degli uomini con un'incredibile capacità di sopportazione della fatica, delle privazioni, del digiuno. Non erano nomadi, e le loro "apacherie", i loro villaggi, forse oggi le chiameremmo bidonville. La durezza delle condizioni di vita, l'alimentazione spesso precaria, facevano sì che l'apache fosse anche di statura inferiore alla media rispetto agli altri indiani. Insomma, gli Apache erano piccoli, brutti e poveri. Ciò nonostante, pretendevano di poter vivere con la loro dignità di uomini. Pretesa poco condivisa dai messicani, dai quali subirono numerose violenze e angherie: si calcola che fino al 1860 almeno 2000 bambini apache d'ambo i sessi furono rapiti dai predoni. I maschi venivano venduti come schiavi, le femmine avviate ai bordelli. Quando buona parte dei territori in cui vivevano passarono sotto l'amministrazione degli Stati Uniti, gli apache dovettero amaramente accorgersi, come vedremo, che gli americani (o "occhi bianchi", come li chiamavano loro per distinguerli dai "visi pallidi" di origine messicana) non avevano sentimenti molto diversi da quelli dei messicani.

UNA PAGINA VERGOGNOSA Quindi, dicevamo, il capo Mangas Coloradas forse fu poco celebrato dalla storia anche perché apparteneva a un popolo considerato tout court come "inferiore" nel vasto panorama dei popoli indiani, che, comunque venivano normalmente gratificati della definizione di "selvaggi". Ma di Mangas Coloradas non si parlò molto anche perché la sua avventura di nemico mortale degli uomini bianchi inizia con una delle pagine più vergognose nella già vergognosa storia dello sterminio sistematico del popolo rosso. Guerriero, anche feroce, per istinto e vocazione, l'uomo rosso era però di sua natura leale, e cadde spesso vittima dei tranelli dell'uomo bianco proprio perché il più delle volte gli mancavano quelle categorie mentali con le quali si sono coniati termini quali furbizia, calcolo politico, abilità negoziale, e che più propriamente si dovrebbero chiamare tradimento, cinismo, brutalità. E l'avventura di Mangas Coloradas inizia con la terribile strage di Apache consumata nella piazza principale della città messicana di Chihuahua, nel 1837, durante una "fiesta" a cui gli indiani erano stati attirati con l'inganno. La fiesta doveva celebrare la fine delle ostilità tra indiani e bianchi, dopo anni di scorrerie contro gli insediamenti bianchi, soprattutto minerari, nelle zone della Sonora e di Chihuahua. Nel 1804 erano stati scoperti copiosi giacimenti di rame nella zona di Santa Rita del Cobre, in pieno territorio apache. Inizialmente gli Apache Mimbreno, che vivevano nella zona, si erano opposti agli insediamenti dei bianchi. Poi, nel 1822, don Francisco Manuel Eguea, un ricco possidente di Chihuahua, aveva raggiunto un accordo col capo Juan José, potendo così iniziare l'estrazione del rame. Gli Apache inizialmente erano stati a guardare, tenuti a freno dal loro vecchio capo. Ma le frizioni tra i due gruppi non mancavano, la storia delle inimicizie tra messicani e apache era troppo lunga. E infatti Juan Josè non riuscì a controllare tutta la sua tribù: un gruppo guidato dall'animoso e giovane Coltello Nero si allontanò, stabilendosi in una zona chiamata Ojo Caliente (Sorgenti Calde), e da lì inizò una lunga serie di scorrerie contro gli insediamenti dei bianchi.

UBRIACATI E FALCIATI DALLA MITRAGLIA Ma ora tutto questo era finito. Alla stessa fiesta erano riuniti Juan Josè, con la sua tribù quasi al completo, Coltello Nero, con circa trenta guerrieri (per un totale di oltre cento indiani), e i bianchi, per lo più minatori. Ora si celebrava la pace, e l'aguardiente scorreva a fiumi. Ubriacare un indiano non era difficile: assolutamente disabituati agli alcoolici, ma convinti che tracannarne lunghe sorsate fosse un segno di valore, gli indiani nel giro di un'ora erano tutti completamente brilli. Così brilli da non accorgersi che, a un certo punto della fiesta, i bianchi avevano iniziato a defilarsi, mentre era comparso, lungo il lato buio della piazza, un nutrito gruppo di cacciatori armati fino ai denti. E poi, cosa ci faceva alla fiesta una compagnia di soldati con un cannone da campagna? All'improvviso, l'inferno. I cacciatori e i soldati avevano iniziato a sparare con le carabine e le pistole. Il cannone, caricato a mitraglia, aveva dato un paio di buone spazzolate alla piazza, completando l'opera di sterminio. Dieci minuti, non di più: la buona organizzazione aveva assicurato un lavoro veloce e preciso. I cacciatori e i soldati erano convinti di aver fatto fuori tutti gli indiani intervenuti alla fiesta e avevano così perso un po' di tempo a brindare al successo dell'impresa, non accorgendosi che uno di loro, seppur ferito, era riuscito a fuggire. Era Mangas Coloradas.

Le autorità locali presero dei provvedimenti contro gli autori della strage? Assolutamente no, visto che la strage era perfettamente legale (non erano forse presenti attivamente anche i soldati?), ed era anche un ottimo business. La strage era legale. Infatti la giunta della città messicana di Chihuahua, pressata dai cittadini esasperati dalle incursioni degli Apache, aveva votato un provvedimento con cui era "aperta la caccia" all'indiano. E incentivata: l'uccisione di un Apache era premiata con 100 dollari (una somma non indifferente, per l'epoca), se maschio adulto. Quotazioni più basse erano fissate per le donne e i bambini: rispettivamente 50 e 25 dollari. Sempre meglio che niente; del resto la differenza di quotazioni rispondeva ad un profondo "senso di giustizia", perché uccidere un guerriero era certamente molto più pericoloso che uccidere una donna o un bambino.

PER UN INDIANO UCCISO 120 $ Per incassare il premio non c'era bisogno di sobbarcarsi la fatica di trasportare un cadavere: le somme venivano infatti versate contro consegna degli scalpi. Naturalmente da uno scalpo è un po' difficile capire se si è ammazzato un apache innocente o uno colpevole di incursioni e ruberie. Ma questi erano dettagli su cui la municipalità non voleva perdere troppo tempo. A loro volta i proprietari delle miniere avevano aggiunto un sovrappremio, e così uno scalpo di Apache maschio adulto poteva valere fino a 120 dollari. L'iniziativa aveva già cominciato a dare i suoi frutti, ma il "taglio imprenditoriale" non poteva venire che da un americano. E infatti fu un galantuomo venuto dal Nord, di nome James Johnson, che, riunito un cospicuo gruppo di cacciatori, aveva pensato di farla finita con le uccisioni sporadiche e casuali. Era molto meglio far sapere agli indiani che i bianchi erano intenzionati a far pace, e organizzavano una "fiesta" proprio per celebrare degnamente l'avvenimento. Questo avrebbe attirato in massa, come puntualmente avvenne, un gran numero di indiani. A quel punto bastava accopparli tutti; ubriacandoli, l'operazione poi sarebbe stata più veloce e senza pericoli. L'affare, dato l'alto numero di vittime, era molto interessante, e infatti non fu difficile assicurarsi anche l'appoggio del presidio militare: il premio da spartire era comunque abbastanza grosso da poter soddisfare tutti.

Mangas Coloradas si salvò, ma da quel momento non ebbe che uno scopo: la vendetta. E la seppe attuare. L'uomo era già di sua natura deciso e impavido. Ci viene descritto come dotato di una forza fisica fuori del comune, alto oltre un metro e ottanta, il che lo rendeva, nella media degli apache, un gigante. Aveva due mogli apache, a cui ne volle aggiungere una terza, una ragazza messicana presa prigioniera dopo una scorreria. Poichè pretese che in famiglia, contro tutte le usanze, le venissero riservati gli stessi diritti delle mogli apache, i fratelli di queste ultime gli chiesero conto di questo atteggiamento, che consideravano come oltraggioso verso le loro sorelle. Mangas Coloradas li affrontò entrambi, e li sconfisse, nel terribile duello apache, che si combatteva col coltello da scalpo e che poteva finire solo con la morte dell'avversario.

 

"MANGAS COLORADAS": STRATEGA NATO Questo era l'uomo. Ma non era capace solo di manifestazioni di forza fisica. Era dotato di intelligenza e di capacità militari non indifferenti. E lo dimostra il modo con cui fece pagare ai bianchi il tradimento e il massacro di Chihuahua. Sapendo di poter contare su forze esigue, evitò lo scontro frontale ed assunse il comando di azioni di guerriglia che avrebbero fatto rimpiangere amaramente agli uomini bianchi le migliaia di dollari guadagnati col sangue di tanti Apache. Anzitutto avevano eliminato tutti gli "occhi bianchi", i cacciatori e i mercanti che vivevano isolati nella zona: una ventina di persone. Poi avevano iniziato un "assedio a distanza" a Santa Maria del Cobre, impedendo che venisse raggiunta dai convogli dei mercanti che settimanalmente la rifornivano di viveri, materiali, attrezzi, munizioni, di tutto il necessario insomma per vivere e lavorare in quella zona quasi desertica. Nel giro di poche settimane gli abitanti, ridotti alla disperazione dalla mancanza di tutto, avevano iniziato a lasciare la cittadina, avventurandosi in pieno deserto, diretti a Chihuahua o a Sonora. Gli apache li avevano lasciati proseguire a lungo. Per loro non era un problema seguirli nel deserto, abituati com'erano alle condizioni ambientali più tremende, in cui sapevano sopravvivere nutrendosi anche di locuste. Ma i bianchi la notte si accasciavano stremati, incapaci di organizzarsi, sempre più abbruttiti dalla fatica. E nella notte gli Apache li attaccavano, uccidendone alcuni, pochi per volta e poi ritirandosi. E così, su circa 400 persone che abbandonarono Santa Maria del Cobre, ne sopravvissero una diecina. Tra cui il famigerato James Johnson. Negli anni che seguirono nessun messicano osò più mettere piede nel territorio degli apache Mimbreno. Mangas Coloradas aveva stretto alleanza con le altre tribù apache dei Chiricahua, dei Coyotero e dei Withe Mountains e aveva fatto terra bruciata di ogni insediamento bianco, sino ai margini delle città di Chihuahua, Sonora e Durango.

LA SCOPERTA DEL MALEDETTO ORO I messicani, disorganizzati e spesso divisi anche tra loro (i governatori e i comandanti militari si comportavano il più delle volte come "ras" locali, piuttosto che come rappresentanti di un governo centrale) non erano mai stati in grado di affrontare la loro "questione indiana" con mezzi e programmi risolutivi e così per diversi anni si mantenne un certo equilibrio fra forze messicane contrapposte non solo agli apache, ma anche ad altre tribù in continuo fermento, i Modoc, gli Umpqua, i Klamath. Nel 1846 era scoppiata la guerra tra gli Stati Uniti e il Messico, e il corpo di spedizione americano, guidato dal generale Stephen Kearny aveva invaso il Nuovo Messico, puntando poi verso Chihuahua e la California e Mangas Coloradas aveva offerto la sua collaborazione al generale americano. Per combattere contro gli odiati nemici messicani gli Apache Mimbreno erano disposti anche ad allearsi con gli "occhi bianchi". L'armonia iniziale con gli americani era durata però ben poco; a rovinarla era arrivato quello sciagurato metallo che ha un nome brevissimo, ma ha la diabolica capacità di trasformare gli uomini in bestie: l'oro. Inizialmente il metallo giallo era stato scoperto in California, nel 1848, e i Mimbreno di Mangas Coloradas non erano stati toccati dal primo tumultuoso flusso migratorio, che aveva visto accorrere in California migliaia di individui.

Ma nell'estate del 51 l'oro venne scoperto a Pinos Altos, tra i monti del Gila, pochi chilometri a est da Santa Maria del Cobre, nel territorio degli Apache Mimbreno. In pochissimo tempo si era formata una comunita di circa 150 cercatori e minatori, la cui presenza era sgradita a Mangas Coloradas che, pur volendo mantenersi in pace con gli "americanos" non li voleva però troppo vicini. Inoltre, come per tutti gli indiani, anche per Mangas Coloradas era più semplice intrattenere rapporti con i militari, che potevano anche divenire dei nemici, ma che facevano pur sempre un'attività che per l'indiano era dignitosa e rispettabile, piuttosto che con questi strani individui, che grattavano la terra e il fondo dei corsi d'acqua per trovare pezzi di metallo giallo, per il quale erano disponibilissimi a sparare a chi fino a un attimo prima era loro amico e a causa del quale attiravano in breve tempo quel variegato esercito di parassiti (mercanti disonesti, prostitute, giocatori, imbroglioni di ogni risma) che non mancò mai in ogni corsa all'oro.

UN’UMILIAZIONE, S’ACCENDE L’ODIO E così Mangas Coloradas intervenne più volte presso i minatori per indicare loro altre località dove sapeva che esistevano giacimenti d'oro: che scavassero quanto volevano, se la cosa li eccitava tanto, ma che lo facessero fuori dal suo territorio. E i minatori, per liberarsi di quel capo indiano così insistente, gli combinarono un brutto tiro: all'ennesima visita di Mangas Coloradas, lo catturarono, lo legarono a un palo e lo frustarono pesantemente. Poi, compiuta la bella impresa, lo rimandarono sghignazzando alla sua tribù. Uomini rozzi, per nulla conoscitori dell'animo indiano, non capirono che avrebbero fatto meglio ad ucciderlo: non sapevano cosa avrebbe potuto provocare l'odio di un Apache umiliato e offeso, ferito nella propria dignità e nel proprio orgoglio.

E la pace non ritornava nelle zone già messicane, ora americane. Gli Apache iniziavano ad accorgersi che gli "americanos" non erano diversi dai messicani: erano solo meglio organizzati, con delle forze armate più efficienti e degli ufficiali tecnicamente preparati. Mentre Mangas Coloradas riprendeva la sua attività di guerriglia si verificava un altro episodio che, seppur non coinvolgendo direttamente il protagonista della nostra storia, vale la pena di riportare, per capire meglio con quali modalità i nuovi conquistatori affrontarono il "problema indiano". In California, divenuta americana con la vittoriosa conclusione del conflitto contro il Messico, le tribù locali continuavano le azioni di disturbo contro le carovane di emigranti, attratte per lo più, come dicevamo, dal miraggio dell'oro. La tribù più agguerrita era quella dei Modoc che sotto la guida del capo Old Schonchin aveva tenuto lungamente impegnate due compagnie di volontari, al comando dei capitani Ross e Wright. Dopo una lunga e inconcludente caccia, il capitano Wright aveva deciso di ricorrere ancora una volta all'inganno.

Nel novembre del 1857 aveva fatto giungere un'ambasciata ai Modoc: i bianchi volevano la pace, e come atto preliminare alla stesura di un trattato organizzavano un banchetto a cui invitavano capo Old Schonchin e i suoi uomini. I Modoc avevano accettato: non potevano sapere che i cibi a loro destinati erano stati imbottiti di stricnina. Nessuno seppe mai spiegare per quale ragione il potente veleno non fece alcun effetto sugli indiani; sta di fatto che il capitano Wright, stanco di aspettare una fine che non arrivava, aveva estratto all'improvviso la pistola, uccidendo due degli indiani che aveva invitato al "banchetto di pace". I sottoposti del capitano imitarono subito il loro comandante.

FALLITA LA STRICNINA , FUORI LE COLT Ciò che non aveva fatto la stricnina lo fecero le Colt: in pochi istanti giacevano sul terreno 36 indiani. Tra i pochi superstiti vi fu proprio il figlio del capo, Schonchin John. I Modoc, sbandati dalla perdita del loro capo, cessarono di essere un "problema", ma la notizia dell'aberrante azione del capitano Wright si diffuse veloce, alimentando quella spirale dell'odio che sempre più sembrava impossibile spezzare e rinforzando sempre più negli indiani la convinzione che gli uomini bianchi, americani o messicani, erano infidi e traditori.

Mangas Coloradas ripassò più volte il nuovo confine col Messico (i confini restavano del resto per gli indiani una delle molte stravaganze incomprensibili degli uomini bianchi) e in uno degli sconfinamenti, fatto con lo scopo di commerciare con i messicani, con i quali da qualche anno non si verificavano più episodi di rilievo, si accampò con la sua tribù nelle vicinanze della cittadina di Presidio del Janos. Era il luglio del 1858. Mentre gran parte degli uomini erano assenti, il campo fu attaccato da un gruppo di soldati e civili messicani, che sterminarono donne, bambini e vecchi. In questa nuova, proditoria strage morirono tra gli altri la madre, la moglie e i figli di un altro uomo che avrebbe fatto parlare molto di sè: Geronimo. Mangas Coloradas, constatato che erano rimasti in pochi guerrieri, senza cavalli e con poche armi, non potè che ordinare la ritirata. Ma solo per riorganizzarsi: nell'estate dell'anno successivo, alleatosi con un altro grande capo Apache, Cochise, Mangas Coloradas tornò in Messico: la guarnigione militare della cittadina di Arispe (di cui facevano parte gli uomini che avevano partecipato alla strage di Presidio del Janos) fu sterminata.

DUECENTO GUERRIERI ALL’ATTACCO Sangue chiama sangue: il nord del Messico, la California, il Texas, il Nuovo Messico, l'Arizona non conobbero così mai pienamente la pace e la situazione, in particolare in questi due ultimi stati, peggiorò con lo scoppio della Guerra di Secessione. L'esercito del Nord infatti ritirò le guarnigioni presenti nei vari forti disseminati in quella zona e Mangas Coloradas, al cui fianco stava nuovamente Cochise, ebbe buon gioco nel fare terra bruciata degli insediamenti dei bianchi. Alla fine del 1861 la sola comunità bianca rimasta attiva in Arizona era l'abitato di Tucson, la cui popolazione era peraltro ridotta a 200 abitanti, che vivevano in perenne stato d'assedio. In tale situazione, Mangas Coloradas e il suo alleato Cochise lanciarono un attacco, con circa 200 guerrieri, contro le miniere di Pinos Altos, per vendicare l'offesa subita dal capo dei Mimbreno qualche anno prima. Non sapevano che da qualche giorno il piccolo centro minerario era stato raggiunto da un distaccamento di guardie dell'Arizona, volontari sudisti. Respinti dai soldati, Mangas Coloradas e i suoi uomini si ritirarono e sulla via del ritorno si imbatterono in una colonna di soldati nordisti, comandati dal generale Carleton,contro la quale non poterono però impegnar battaglia, perchè i soldati erano dotati anche di artiglierie, contro le quali gli indiani erano impotenti. Si lanciarono però all'inseguimento di un piccolo drappello, inviato in retrovia ad avvertire la colonna dei rifornimenti di fermarsi per evitare il pericolo degli indiani. I soldati del drappello si salvarono dall'attacco degli Apache con la fuga, ma uno di loro, di nome John Teal, avendo perduto il cavallo, colpito a morte dagli indiani, deciso a vendere cara la pelle, si mise a sparare colpi su colpi con grande precisione. E centrò proprio Mangas Coloradas. Immediatamente gli altri Apache cessarono il combattimento e non ebbero altro pensiero che quello di salvare il proprio capo. Passarono il confine nella notte e raggiunsero la casa del medico della cittadina di Presidio del Janos: "Tu ora fai star bene l'indiano. Lui deve vivere. Se lui muore, nessuno in Janos vivrà".

UNA POLITICA DI PURO STERMINIO Mangas Coloradas si salvò, ma la gravità della ferita gli impose un lungo periodo di sosta, e gli Apache, senza la sua guida, non intrapresero alcuna azione per quasi tutto il 1862. Intanto nei territori Apache l'alternarsi del controllo tra truppe sudiste e nordiste non aveva portato alcuna variazione alla politica dell'uomo bianco: lo sterminio. Il colonnello sudista Baylor, per riportare l'ordine nelle zone dove gli indiani avevano fatto terra bruciata, aveva ordinato, sic et simpliciter, l'uccisione di ogni uomo rosso, indipendentemente dal fatto che facesse parte di tribù in guerra o in pace con i bianchi. Quando il Nord riprese il controllo della zona, il generale nordista Carleton non fece che ripetere i medesimi ordini del suo collega-nemico. Il controllo del territorio apache fu affidato al colonnello Kit Carson, e solo la moderazione e il buon senso di quest'ultimo consentì qualche freno ad una politica di sterminio puro e semplice, che prescindeva da ogni e qualsiasi accertamento di responsabilità. Gli indiani andavano eliminati. E il generale Carleton, volendo iniziare una politica di ripopolamento della regione, favorì ampiamente la ricerca dell'oro, nella convinzione, rivelatasi ineccepibile, che la forza di attrazione del prezioso metallo sarebbe stata più forte della paura degli Apache. D'altra parte, poichè questi avrebbero di sicuro ricominciato le loro azioni di guerriglia, diventava facile per il generale costringere il governo ad aumentare le truppe, necessarie per proteggere la popolazione bianca. Il cerchio era così perfettamente chiuso: oro, arrivo in massa dei bianchi, reazione degli indiani, aumento del numero dei soldati, eliminazione definitiva del "problema indiano". E proprio a un gruppo di esperti minerari, accampati nelle vicinanze di Fort McLean, nell'Arizona Centrale, giunse notizia che Mangas Coloradas era accampato lì vicino con i suoi Mimbreno. I capitani Walker e Shirland pensarono che era giunto il momento buono di impadronirsi dell'uomo che era considerato il peggior nemico dei bianchi. Mangas Coloradas invece non stava progettando alcuna nuova azione di guerra.

"QUELL’INDIANO LO VOGLIO MORTO" Ormai anziano, durante la lunga convalescenza seguita alla ferita aveva probabilmente ripensato alla sua lunga avventura di guerriero, e iniziava a desiderare la pace. Si rendeva conto che la partita era comunque senza speranza e ai desideri di giustizia e di vendetta andava sostituendosi quel senso di relativismo proprio dell'età avanzata. Non ebbe sospetti quando i due ufficiali gli mandarono un messaggio, tramite un messicano, invitandolo a un "incontro di pace". Addirittura lungo la strada rimandò indietro la scorta, a ciò convinto da uno degli esperti minerari, che parlava spagnolo e gli si fece incontro con grande cordialità. Era il pomeriggio del 17 gennaio 1863. Mangas Coloradas cadde nell'ultimo tranello: non era programmato alcun "incontro di pace", ma solo le catene con cui gli vennero assicurati i polsi. Il colonnello West, comandante del Forte McLean, appena ebbe notizia dell'arresto di Mangas Coloradas, si precipitò all'accampamento degli esperti minerari. Qui trovò il capo apache seduto in silenzio vicino al fuoco, avvolto nella sua coperta. Era vigilato da due soldati del capitano Shirland. Prima di ritirarsi il colonnello volle dare personalmente le consegne ai due soldati, che si chiamavano James Collyer e George Meade: "Lo voglio morto!"

Nel cuore della notte il vecchio capo apache era ancora seduto vicino al fuoco. Da quando era stato arrestato non aveva pronunciato una sola parola. Stava seduto in silenzio. Faceva freddo e i due soldati erano stanchi. Uno dei due poggiò la baionetta sul fuoco e all'improvviso la infisse in una gamba di Mangas Coloradas. Trafitto dal dolore atroce questi scattò in piedi: i due soldati gli scaricarono addosso i revolver. Dodici buchi, il capo indiano cadde a terra, fulminato. Il sergente di guardia accorse al rumore. "Sergente, il prigioniero ha tentato di fuggire. Abbiamo dovuto abbatterlo". "Chiaro, ragazzi". La notizia della morte di Mangas Coloradas si sparse rapidamente e fece crollare il morale dei Mimbreno.

... E DELLA TRIBU’ NON RIMASE NESSUNO Si dispersero in vari piccoli gruppi. Il 27 marzo l'ultimo gruppo, 25 indiani, fu totalmente annientato da uno squadrone di cavalleria comandato dal maggiore McCleave, che piombò su una apacheria nelle vicinanze del Canyon del Cane. L'avventura dei Mimbreno era finita; iniziata con il tradimento della fiesta ad opera dei messicani, si era conclusa con il tradimento del finto "incontro di pace" ad opera degli americani. Di certo l'Apache non era un personaggio facile; feroce, vendicativo, era comunque, come dicevamo all'inizio, un uomo che si trovò la propria terra invasa e che a un certo punto visse con la sindrome di chi si sente perennemente assediato e minacciato di morte. E rispose colpo su colpo. Ma senza mai riuscire a penetrare la mentalità di questi misteriosi uomini bianchi che, asserendo di portare la civiltà, facevano uso dell'inganno e del tradimento quando vedevano che il loro valore in battaglia era inferiore. E cosa si nascondeva nel cuore di quegli uomini, che pur vestivano splendide uniformi, e quindi erano dei capi importanti? Cosa poteva esserci nel cuore di un uomo che stabiliva un trattato e poi non lo rispettava? Che mancava alla parola data? Non parlavano anch'essi di Dio, quindi non temevano che il Grande Spirito li avrebbe puniti per tanti inganni?

Domande vuote, domande senza senso. La risposta c'era già. L'aveva data venticinque anni prima la giunta di Chihuahua: "Per ogni scalpo di apache maschio adulto sarà versato il premio di dollari 100; se femmina adulta, dollari 50, se bambino, dollari 25". L'aveva data anche il generale Carleton l'anno prima: "Ogni indiano maschio andrà ucciso, dovunque venga trovato, indipendentemente dal fatto che la sua tribù sia o meno in guerra coi bianchi."


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Inviato il 04 dicembre 2005 15:37 Autore

Nel 1793 nobili e cattolici organizzarono una sanguinaria rivolta contro il governo repubblicano

 

LA CONTRORIVOLUZIONE DEI VANDEANI:MASSACRO IN NOME DI DIO

 

Alla fine della breve guerra i tribunali rivoluzionari condannarono a morte cinquemila ribelli

 

 

 

Nel 1789 la rivoluzione francese scuote e rinnova la Francia. Cadono previlegi millenari, si modificano o vengono modificati profondamente i costumi e, come sempre accade dopo le grandi mutazioni sociali e politiche, cominciano a maturare le reazioni delle categorie sociali che ai previlegi e alle proprie usanze non vogliono rinunciare. La più violenta di queste reazioni esplode in una regione fortemente conservatrice. Bagni di sangue e manifestazioni di primitiva ferocia sono i segni che caratterizzano la controrivoluzione vandeana. La valutazione della rivolta segnata di fanatismo di questa area cattolica e contadina, pericoloso focolaio infettivo nel corpo della Francia repubblicana, trova ancora oggi in disaccordo gli storici: secondo alcuni le cause vanno attribuite alla ribellione spontanea contro l’ateismo, le innovazioni religiose, i reclutamenti forzosi di truppa; secondo altri si tratta della realizzazione di un vero e proprio piano controrivoluzionario elaborato e guidato dai nobili.

E' abbastanza realistico pensare che la particolare situazione sociale e psicologica della Vandea abbia determinato la fusione delle due cause. L'ipotesi viene confermata dalla fisionomia mutevole dell'insurrezione. Il 24 febbraio del 1793 Parigi emette un bando di reclutamento che chiede al Paese 300mila uomini. L'arruolamento é volontario ma la legge stabilisce che se non viene raggiunto il numero necessario é possibile ricorrere al sorteggio. L'11 marzo, quando il manifesto viene affisso anche nei Comuni delle regioni occidentali, la reazione é immediata, spontanea. I contadini della Vandea si rivoltano al grido di "Niente sorteggio, abbasso la milizia!" e occupano la cittadina di Saint-Florent-le Vieil, un importante nodo di transito che permette di passare dalla Vandea alla Bretagna e alla Normandia. E' l'embrione della guerra. A capo delle bande che si formano rapidamente, e una delle quali occupa Beaupréau, altro centro strategicamente importante, troviamo contadini come Stofflet o plebei come il vetturale Cathelineau ma anche nobili come d'Elbée, Lescure, La Rochejacquelein. I rappresentanti dell'ancién régime s'incuneano nella rivolta, causata dagli errori del governo rivoluzionario, per trasformarla in una vera e propria controrivoluzione. Inizialmente queste bande, che si battono con i metodi della guerriglia, hanno un certo successo specialmente negli scontri con la Guardia nazionale nella quale militano altri contadini, male armati e male addestrati al pari degli avversari.

LA SPIRALE DELLA FEROCIA Su loro i gruppi vandeani hanno la meglio perchè sparano alle spalle delle Guardie isolate: il guerrigliero eplode un colpo, fa centro (essendo un abile cacciatore), nasconde immediatamente il fucile dietro un albero e si rimette all'aratro con l'aria innocente. Di fronte a questa tecnica di combattimento l'esercito regolare repubblicano reagisce con durezza: distruzione di villaggi, esecuzioni sommarie, incendi. S'innesca così la spirale della vendetta e della ferocia perché i vandeani rispondono commettendo sui soldati isolati, sui patrioti e sui prigionieri, atti di crudeltá degni degli "orrori della guerra" di Goya.

La prima fase dell'insurrezione sembra giustificare le forti preoccupazioni di Parigi e la durezza delle reazioni. I ribelli sono riusciti ad occupare diverse localitá chiave. L'11 marzo hanno preso anche il piccolo centro di Machecoul e qui s'innesca la reazione a catena delle violenze. Si mette a capo dei rivoltosi un certo Souchu, ex-procuratore delle imposte, proclama re Luigi XVII, disconosce il potere della Convenzione e come atto finale decide di liquidare i patrioti del paese: li fa legare l'uno all'altro in lunghe file e li manda davanti al plotone d'esecuzione. Il numero delle vittime é controverso: tuttavia la valutazione si attesta poco al di sotto dei mille morti.

Dopo i vari successi e l'occupazione di diversi centri - eccezion fatta per Le Sable-d'Olonne, saldamente presidiata dai repubblicani - Henry de La Rochejacquelein e d'Elbée organizzano le anarcoidi squadre dei rivoltosi nella "Armata Cattolica Reale" che in realtà diventa un'armata Brancaleone dalla quale i contadini fuggono nella settimana di Pasqua per andarsene a casa a celebrare le feste con la famiglia e in tutti quei momenti in cui i campi hanno bisogno di loro. Questa sarà una caratteristica della guerra vandeana: le formazioni si aggregano e disgregano con altrettanta rapidità. Appena vinto uno scontro i rivoltosi lasciano l'armata per tornarsene al lavoro. Tuttavia l'armata riunisce ben ventimila uomini e dimostra la sua forza d'urto quando sconfigge una delle tre colonne della spedizione repubblicana e cattura un colonnello con tremila soldati.

PRIMA VITTORIA DEI RIVOLTOSI Dopo questa vittoria gli effettivi salgono a quarantamila unità. In campo repubblicano regna un clima di confusione e di grande timore. La rivolta assume dimensioni e potenza non previste. Viene occupata Saumur e cadono nelle mani dei ribelli cinquanta cannoni e millecinquecento fucili. Sarebbe possibile a questo punto una marcia su Parigi ma i contadini-soldati non se la sentono di allontanarsi troppo dalle loro case e dai loro campi. Marciano invece alla conquista di Angers, la occupano e tentano di ripetere il colpo con Nantes. Qui avviene la prima disfatta. I generali Canclaux e Beysser contraccano con cariche veloci e violente. Nel corso dello scontro rimane ucciso il generalissimo Cathelineau, l'ex-vetturale comandante dei rivoltosi e la "Armata Cattolica Reale" si disperde.

Da questo momento il destino della rivolta é segnato. Parigi decide di mettere in campo l'armata di Magonza (così chiamata perché reduce dall'occupazione della cittá germanica) una potente e perfetta macchina da guerra che viene divisa in quattro colonne alle quali é stato dato un ordine preciso: chiudere in una morsa i vandeani e concludere la guerra entro il 20 ottobre. La battaglia di Cholet, 17 ottobre, vede la disfatta dei contadini e la morte di d'Elbée. Comincia una fuga disordinata: quarantamila persone, i rivoltosi e le loro famiglie, sono allo sbando. Assume il comando La Rochejacquelein che riesce a raccogliere i resti dell'armata impazzita e tenta di marciare verso nord per portare la guerra in Bretagna.

SCONFITTA SANGUINOSA Lungo questa marcia i Vandeani catturano e massacrano tutti i repubblicani. Puntano sul porto di Granville dove sperano, com'é stato loro promesso, di trovare l'aiuto di una spedizione inglese. Invece su Granville sventola la bandiera della Repubblica francese e la cittá é inespugnabile. Ricomincia la ritirata. In uno scontro con i repubblicani a Le Mans vengono uccisi tremila ribelli. La tragica marcia viene di nuovo interrotta nei pressi di Nantes: qui l'Armata Reale perde oltre novemila persone fra soldati e familiari. Il 23 dicembre viene bloccata a Saveany dalle armate del generale Kléber. I resti della formazione vandeana vengono travolti e massacrati, i prigionieri finiscono davanti al plotone d'esecuzione.

Subito dopo si scatena la repressione. Le "colonne infernali" del generale Turreau cavalcano in lungo e in largo per la Vandea depredando e massacrando, mentre le commissioni militari percorrono la regione ordinando fucilazioni e comminando pene durissime senza processo. A Nantes il tribunale rivoluzionario é in seduta permanente e ordina un numero incredibile di condanne a morte. Per rendere più rapide le esecuzioni i condannati, dopo essere stati legati strettamente a gruppi, vengono stipati su battelli che i boia mandano ad affondare in mezzo alla Loira. Le vittime di questa feroce vendetta saranno quasi cinquemila.


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Inviato il 04 dicembre 2005 15:39 Autore

Lavrentij Beria:il grande satana dello stalinismo

 

Stalin si compiaceva di chiamarlo "il nostro Himmler". Senza dubbio, Lavrentij Pavlovic Beria fu, più di tanti altri personaggi che gravitarono intorno alla figura del dittatore georgiano, "l’uomo che servì a Stalin." Se il sistema stalinista assunse le forme tragiche e criminali che lo contraddistinguono come il modello insuperato del totalitarismo (insieme al regime hitleriano), lo si deve anche al ruolo sempre più influente che l’ambizioso e cinico funzionario comunista dall’ aspetto di un’intellettuale e la ferocia di una belva svolse negli anni delle grandi purghe. Per molto tempo, fino alla famosa denuncia dei crimini di Stalin ad opera di Nikita Krusciov, la grande regia repressiva ordita da Stalin fu imputata a figure come Beria ed Ezov ( da cui è tratto il termine ezovscina con cui i Russi indicavano il periodo più drammatico delle purghe). Il "Piccolo Padre", sempre presentato dalla macchina propagandistica come il grande protettore dell’Unione Sovietica, spesso raffigurato sorridente e paterno, doveva certamente essere - agli occhi dei più fedeli membri del partito e del semplice popolo sovietico - all’insaputa di quello che stava accadendo. Come racconta lo storico Paolo Spriano, le stesse vittime di Stalin morivano nelle proprie celle invocandone il nome e scrivendo sui loro muri "W Stalin" con il proprio sangue.

Per una serie di circostanze, e forse anche per la freddezza che lo contraddistingueva, Beria divenne nell’immaginazione popolare e nella letteratura storica e romanzesca dell’Unione Sovietica come il Grande Satana dello stalinismo. Una figura obbiettivamente spietata divenne così, erroneamente, il solo capro espiatorio di un sistema totalitario allucinante, una sorta di personaggio da fiaba dell’orrore, mono-dimensionale e senza sfumature, la cui essenza era il male puro. Quella di Lavrentij Beria fu, in realtà, una personalità complessa, ed il suo stesso ruolo all’interno dello scenario stalinista e post-stalinista fu molto più articolato di quanto si possa immaginare.

PERSONALITA’ COMPLESSA Le recenti rivelazioni provenienti dagli archivi del Cremlino, ormai liberi dal segreto di Stato, hanno fatto sì che emergessero incredibili novità su Beria, soprattutto a proposito dei suoi tentativi riformisti e liberalizzatori nei mesi immediatamente successivi alla morte di Stalin. E’ per questo motivo che l’interpretazione della storica americana Amy Knight può essere definita (ed è definita dalla stessa interessata) "revisionista".

Per quanto possa sembrare incredibile, l’uomo che più blandì le paranoie cospiratrici di Stalin, l’uomo che più fedelmente eseguì ( e qualche volta addirittura stimolò) i suoi ordini eliminatori, fu lo stesso che contribuì a ritardare il soccorso medico del dittatore agonizzante e a cercare di introdurre elementi di liberalizzazione all’interno dell’Unione Sovietica e, soprattutto, nei rapporti tra il Cremlino e i Paesi satelliti. Addirittura - è la tesi della Knight - fu proprio questo il motivo per cui il molto più cauto e monolitico Kruscev, legato a doppio filo con gli interessi militari, decise di eliminare Beria, la cui fine aleggia ancora nel mistero e nella leggenda. Fu ucciso al momento della cattura all’interno delle mura del Cremlino, o in seguito, dopo torture e interrogatori di vario genere ? In ogni caso, Beria viene inserito da Amy Knight nel ristretto pantheon dei riformatori comparsi in Russia nel corso della storia. Insieme a lui, i più "riconosciuti" Pietro il Grande, Krusciov e Gorbaciov.

Nato in Georgia nel 1899 (vent’anni dopo Stalin) Beria non apparteneva alla generazione dei rivoluzionari che avevano combattuto lo zar. Si iscrisse al partito bolscevico nel 1917 e mosse i primi importanti passi negli anni venti e trenta, quando si mise in luce agli occhi di Stalin per la sua particolare fermezza e crudeltà nei confronti dei suoi stessi connazionali georgiani, prima come capo della polizia e poi come leader del partito in Georgia e Transcaucasia.

BRACCIO SECOLARE DI STALIN Beria riuscì in questi anni nel difficile intento di assurgere alla notorietà, crearsi un notevole potere personale locale, e allo stesso tempo figurare come fedelissimo esecutore del compagno Stalin. Sopravvissuto così alle terribili purghe del 1936-38 e già provetto repressore, Beria si trasferì a Mosca per tentare la scalata ai massimi vertici. Assunse il comando della polizia politica sovietica - la famigerata NKVD - e riuscì ad entrare nella ristretta cerchia dei più influenti collaboratori di Stalin, fino a diventare nei successivi quindici anni la seconda autorità del Cremlino. Come capo della polizia politica Beria diresse anche l’immensa organizzazione del Gulag, il sistema di campi di lavoro dove milioni di cittadini sovietici trovarono la privazione di ogni libertà e la morte.

Nel 1945 - nuovo passo verso la vetta del potere - Lavrentij Beria divenne sovrintendente al progetto per la realizzazione della Bomba Atomica e membro effettivo del Politburo, nonché Vicepresidente del Consiglio dei Ministri. Da questo momento non abbandonerà più la vetta e, alla morte di Stalin, diverrà - insieme a Molotov e Malenkov - l’uomo più potente dell’Unione Sovietica.

Solo un incredibile, fortunata e coraggiosa trama, ordita in tutta fretta, permise a Krusciov di porre fine a quella che sembrava una carriera destinata al potere assoluto. Lavrentij Beria si differenziò sempre dal resto dei grigi e anonimi funzionari che attorniavano Stalin e seppe, molto più dei suoi colleghi, creare una perfetta rete di clientelismo sia a Mosca che nel paese natale, la Georgia.

BERIA VISTO DA VICINO Grazie a indubbie doti psicologiche personali, Beria riuscì sempre a comprendere le sfumature psicopatologiche di Stalin, a incanalarle verso i propri avversari e a deviarle dalla propria persona. Amy Knight si spinge fino ad affermare che, fin dagli anni quaranta, Stalin divenne in un certo senso psicologicamente dipendente da Beria. L’arma principale di Beria fu senza dubbio la lucidità perfettamente incastonata nel cinismo e nell’assenza di ogni sentimento di pietà. Il "compagno Lavrentij" era colui che - come ricordò lo jugoslavo Milovan Gilas, uno degli uomini fidati di Tito - nei grandi banchetti offerti da Stalin, in un perfetto gioco delle parti con il dittatore, induceva i commensali a bere smodatamente, per poi esporli e colpirli da una posizione di perfetta sobrietà. Una esatta metafora di come Beria condusse tutta la sua carriera.

L"Himmler di Stalin" condivideva, paradossalmente, affinità fisiche e caratteriali con il famigerato capo delle SS naziste. Perennemente in divisa cekista, di altezza inferiore alla media, aveva una testa tondeggiante, un naso pronunciato con occhi piccoli, sopra i quali stavano gli inseparabili occhiali a pince-nez. La maggior parte delle descrizioni - scrive la Knight - concorda sulla sgradevolezza del suo volto.

Lo storico Antonov-Ovseenko scrive che "al principio tutti si fidavano di Beria; ma dopo averlo conosciuto meglio non riuscirono più ad essere amichevoli con lui: era, infatti, un campione dell’intrigo e della delazione. era insuperabile nel far filtrare, al momento giusto, voci sgradevoli così da danneggiare i rivali nella scalata al potere. Poi li perseguitava uno per uno. Il giovane Beria riusciva tuttavia, ogni volta che fosse necessario, a reggere in modo convincente la parte del ‘gran bravo ragazzo’, ingenuo e allegrone."

INFIDO PER I COMPAGNI Alla morte di Stalin, Beria apparì come il più pericoloso e potente uomo politico sovietico. Avendo assunto il controllo totale dell’apparato poliziesco, Beria rappresentò una minaccia per i suoi colleghi, che si organizzarono dietro al sottovalutato ( e per questo motivo fortunato) Krusciov per eliminarlo. I suoi tentativi riformatori, che contribuirono a creare le prime crepe nel monolitico sistema sovietico, convinsero la nomenklatura guidata da colui che sarebbe poi passato alla storia come il "destalinizzatore" Krusciov a capeggiare un complotto. Con l’avvento della glasnost negli anni ottanta, Beria è divenuto oggetto di un rinnovato interesse storico sia in Russia che in Georgia.

Lavrentij Pavlovic Beria nasce il 29 marzo 1899 nel villaggio di Merheuli, Georgia. Per tutta la vita rimarrà legato al proprio paese, a differenza di Stalin che cercò sempre di perdere ogni retaggio georgiano e si definiva "russo". Proveniente da una famiglia di contadini mingreli (una minoranza etnica nella regione dell’Abcasia), il giovane Beria era cresciuto in una società fortemente tradizionalista, patriarcale, fondata sulla famiglia e sul culto dei morti.

I primi passi politici Lavrentij li compie nel marzo del 1917 a Baku nell’Azeirbagian, subito dopo l’abdicazione dello zar e la nascita del governo provvisorio guidato da Kerenskij. Entra nelle file dell’ala bolscevica del RSDRP (partito socialdemocratico dei lavoratori) e insieme a qualche compagno di scuola fonda una cellula di partito.

Pochi mesi dopo Beria partirà per il servizio militare e lì svolgerà attività propagandistica, finché agli inizi del 1918 torna a Baku per terminare gli studi e conseguire il diploma di perito meccanico.

L’ESORDIO COME 007 Sono anni pericolosi a Baku poiché, nonostante la pace stipulata con la Germania, il nuovo governo bolscevico si trova a dover affrontare l’avanzata dell’esercito turco. Dopo una breve dominazione turca della città, il controllo di Baku era passato nelle mani di un nuovo partito socialdemocratico, il Musavat. I bolscevichi ovviamente erano in concorrenza con questa forza politica e scelsero il giovane Beria come infiltrato nelle sue file. Questa attività di spionaggio fu utile a Beria per mettersi in luce agli occhi della dirigenza bolscevica, ma costituirà per lui una eterna spina nel fianco. Durante tutta la sua vita, periodicamente, emerse l’accusa velata che fosse stato un collaboratore del Musavat. Questa accusa emerse definitivamente, a moltissimi anni di distanza, anche quando Krusciov incastrò Beria "il traditore". Il primo incontro con Stalin probabilmente avvenne nel novembre del 1920, in occasione di una visita a Baku dell’emergente braccio destro di Lenin. Stalin, insieme a personaggi come Kirov e Ordzonikidze (figura fondamentale per Beria, poichè diventò il suo protettore per molti anni), puntava ad una completa sovietizzazione della Georgia e dell’Armenia confinante. Nell’aprile del 1920 viene organizzata la Ceka dell’Azeirbagian e Beria vi entra quasi da subito.

Le sue doti di ambizione, efficienza e durezza erano state notate e in quegli anni la polizia politica aveva bisogno di uomini come lui per realizzare il cosiddetto "Terrore Rosso" pianificato da Lenin:. Diretta dal famigerato Feliks Dzerzinskij, la Ceka scatenò un’ondata repressiva su tutta la zona per reprimere ogni minima opposizione ai bolscevichi (socialdemocratici e socialisti rivoluzionari erano visti come un nemico mortale, più dei borghesi).

LAVRENTJI MIETE PREMI Nel settembre del 1922 il soviet dei commissari del popolo dell’Azerbaigian assegna un premio al giovane Lavrentij per la sua "guida coraggiosa e gli straordinari servizi al partito nel liquidare le organizzazioni dei socialisti rivoluzionari": un’orologio d’oro. Poco tempo dopo, e per gli stessi motivi, la polizia centrale di Mosca gli dona una serie di fucili Browning. Da Mosca Stalin comincia a notare i suoi movimenti.

Nell’autunno del 1921 Beria sposa Nina Tejmurazovna Gegeckori, nipote di un celebre bolscevico georgiano. Con questa bellissima donna Beria non comunicò mai. Vissero spesso lontani l’uno dall’altra e il matrimonio - come scrive la Knight - divenne "una formalità priva di significato, fonte di grande infelicità per la moglie." Dalla metà degli anni venti in poi, Beria compie ulteriori passi fondamentali: innanzitutto Sergio Ordzonikidze, suo amico e protettore, lasciò il suo incarico di primo segretario del partito locale e si recò a Mosca, dove si avvicinò a Stalin. Questo permise a Beria di avere una voce non indifferente al Cremlino. La fitta corrispondenza tra Beria e Orzonikidze continuò per anni finché, ovviamente, il vecchio bolscevico caduto in disgrazia non fu più utile a Beria, che lo abbandonò al suo destino.

ANNI '30: LA SCALATA Dal 1928 in poi, Beria dedica ogni sforzo ad eliminare dal proprio percorso ogni rivale di partito e si dimostra uno dei più efficienti collaboratori locali di Stalin nella realizzazione del programma di collettivizzazione delle campagne e di persecuzione dei kulaki, i contadini proprietari che divennero in quegli anni il simbolo del male e della controrivoluzione da abbattere senza pietà. Alla fine degli anni venti i contatti tra Beria e Stalin erano ormai frequenti, soprattutto quando il dittatore si recava a trascorrere le proprie vacanze estive a Gagra, vicino a Soci, sul Mar Nero, vicino al confine georgiano.

Beria divenne nell’ottobre del 1931 (a trentadue anni !) primo segretario del partito comunista georgiano. In poco tempo riuscì ad imporre un controllo assoluto sia sul partito che sullo stato della Georgia. Per anni la sua figura divenne, da queste parti, seconda solo a Stalin. I suoi ritratti troneggiavano ovunque e sulle pagine dei giornali veniva definito come figlio prediletto della Georgia (quando cadde in disgrazia a Mosca, molti georgiani commentarono con dolore che era caduto "l’ultimo difensore della Georgia").

Nel 1934 Beria ebbe un’importante occasione per guadagnarsi ulteriori favori di Stalin. Questi, preoccupato del prestigio del capo del partito di Leningrado Sergej Kirov - un uomo che non esitava ad affrontarlo a viso aperto, forte del suo prestigio di vecchio rivoluzionario - aveva deciso di eliminarlo e aveva affidato a Genrih Jagoa, capo della NKVD, l’organizzazione dell’assassinio.

La morte di Kirov avrebbe avuto anche l’effetto strategico di poter scatenare una caccia alle streghe contro gli immancabili cospiratori. Beria partecipò senza dubbio al complotto per assassinare Kirov., e si lanciò con zelo nelle purghe che seguirono e continuarono fino al 1938. Molti membri di partito caddero in disgrazia e vennero eliminati fisicamente, alla fine del gennaio 1937 anche Ordzonikidze fu perduto e scelse il suicidio. Scomparsa questa figura importante del partito georgiano, Stalin e Beria poterono affondare definitivamente il colpo nelle file dell’apparato comunista locale. Il legame tra i due, quindi, si consolidava.

SEQUENZA DI NEFANDEZZE I processi pubblici, sempre identici, divennero innumerevoli, e tutta la vecchia guardia bolscevica venne decimata. Stalin poteva così rimanere l’unico rivoluzionario degli esordi e per di più l’unico georgiano (la cosa avrebbe avuto i suoi vantaggi quando la riscrittura dei libri di storia a d opera del partito rappresentò Stalin come la figura fondamentale del comunismo georgiano, cosa peraltro falsa). Per comprendere come la personalità di Beria poté esaltarsi in questo clima di repressione, basti citare il caso di Nestor Lakoba, vecchio bolscevico. Lo storico Roj Medvedev racconta che la giovane moglie di lakoba venne arrestata poco dopo la morte del marito, accusato di ogni nefandezza, e condotta in una cella dove ogni notte la NKVD la prelevava per sottoporla a interrogatori, dai quali tornava priva di conoscenza e coperta di sangue. La donna avrebbe dovuto firmare un documento dove smascherava il marito traditore, ma di fronte al suo rifiuto Beria si accanì sul figlio quattordicenne, che veniva bastonato in sua presenza.

Dopo un’ennesima tortura la moglie di Lakoba morì e il figlio fu spedito in un campo di lavoro per ragazzi. Qualche tempo dopo il giovane scrisse a Beria (!) chiedendogli che gli fosse permesso di continuare gli studi, almeno nel campo; Beria, ricevuta la lettera, convocò il giovane speranzoso e lo fece immediatamente fucilare.

Per comprendere, invece, le dimensioni di queste purghe, basti sapere che tra il gennaio 1937 e il gennaio 1938 più di 4.000 membri del partito comunista georgiano vennero imprigionati e fucilati.

A CAPO DEL FUTURO KGB Nel 1939 Beria occupa un posto di importanza assoluta, che non abbandonerà mai realmente, nemmeno quando assumerà altre cariche: la direzione generale della polizia politica, in quegli anni chiamata NKVD (l’antenata del KGB). Caduto in disgrazia il precedente capo Ezov, Beria inizia a ripulire i quadri della polizia dagli elementi indesiderati e legati ad Ezov. Contemporaneamente, avvengono mutamenti anche nella conduzione della repressione poliziesca. Se Ezov si era abbandonato al terrore allo stato puro e ad eccessi cui lo stesso Stalin aveva ritenuto opportuno correre ai ripari, Beria realizzò un sistema più scientifico e selettivo (e in questo fu il padre delle tecniche KGB degli anni di Krusciov e Breznev). Si continuava a torturare i prigionieri, ma venne anche ordinato il rilascio di migliaia di persone, e i metodi divennero un po’ meno brutali. In quello stesso periodo Beria si occupò anche di politica estera. Nell’agosto del 1939 si concretizzò il famigerato Patto Von Ribentropp-Molotov, con il quale Nazisti e Sovietici si alleavano e procedevano alla spartizione della arbitraria della Polonia, nonché a diverse collaborazioni in campo militare.

L’NKVD avrebbe svolto in questo scenario un ruolo molto importante. Beria (uno dei più convinti fautori dell’alleanza) doveva condurre l’attività della propria polizia neri territori occupati della Polonia orientale. E’ di questo periodo l’impressionante massacro della foresta di Katyn, a lungo imputato ai nazisti, ma la cui responsabilità è ormai ampiamente provato gravare sui sovietici A Katyn venne eliminata un’intera generazione di ufficiali dell’esercito polacco. Quindicimila soldati (di cui quattromila ufficiali) vennero giustiziati e seppelliti nella foresta, su ordine di Stalin e ovviamente di Beria.

L’IMPERO DEI GULAG Un altro compito fondamentale dell’NKVD era la direzione del sistema dei Gulag, i campi di concentramento sovietici nelle regioni siberiane. Nel 1940 il Gulag comprendeva già numerosissimi campi per un totale di 1.700.000 internati. Utili come forza lavoro. Questa moderna forma di schiavismo fu fondamentale per l’Unione Sovietica. L’attività principale per l’NKVD era l’edilizia. vennero costruite strade, centrali idroelettriche. Una massa impressionante di uomini fu adibita anche all’estrazione del ferro, dell’oro, alla produzione di legname. Per Beria si trattava di un’enorme responsabilità, e puntò a migliorare le condizioni di vita dei prigionieri per un calcolo di mera efficienza economica. Sotto la sua direzione il gulag fece un decisivo salto di qualità, e Stalin non mancò di notarlo. Il ruolo più importante svolto dalla NKVD durante gli anni quaranta, e principalmente durante la guerra, fu quello di forza di controllo dell’Armata Rossa. I rapporti tra Stalin e i militari erano stati sempre improntati ad una reciproca diffidenza e negli anni del conflitto mondiale il dittatore temeva che i generali potessero ottenere troppo potere e libertà di movimento.

Nel luglio del 1941 Stalin emise l’ordine che le fila dell’esercito dovevano essere "purgate degli elementi inaffidabili" e che le truppe sovietiche sfuggite all’accerchiamento tedesco andavano inquisite dall’NKVD. Fu l’occasione per controllare, perseguitare e decimare le gerarchie dell’Armata Rossa. Si venne così a creare una situazione paranoica per i soldati sovietici, che dovevano guardarsi dai tedeschi così come dagli stessi agenti NKVD (una realtà narrata dal grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn nel suo mai troppo lodato "Arcipelago Gulag").

MIGLIAIA DI VITTIME Fu l’ennesima occasione capitata a Beria per mettersi in mostra come poliziotto e inquisitore senza eguali. Quando le sorti del conflitto volsero a favore dei Sovietici e cominciò il contrattacco e la cacciata delle forze tedesche, l’NKVD raddoppiò la propria attività: Beria scatenò i propri agenti nei villaggi russi dove erano passati i tedeschi, nonché nei territori europei "liberati" dall’Armata Rossa. Impossibile venire a conoscenza del reale numero delle vittime della polizia sovietica in questo periodo.

Negli anni subito dopo il conflitto mondiale si concretizzò quell’atmosfera nei rapporti internazionali tra i due blocchi occidentale e orientale che andò sotto il nome di Guerra Fredda. Gli ultimi mesi della guerra avevano fortemente impressionato i Sovietici: gli Stati Uniti avevano dimostrato di possedere un’arma micidiale, senza precedenti: la bomba atomica. Sottovalutata da Stalin per molto tempo, dopo Hiroshima e Nagasaki l’arma nucleare divenne una priorità assoluta per l’Unione Sovietica. Un altro grandioso e prestigioso passo nella carriera di Beria (anzi, l’ultimo prima del declino) fu la nomina a direttore del programma per la realizzazione dell’Atomica. Dal 1945 al 1953, questa impresa offrì a Beria l’opportunità di esercitare un’enorme influenza nella politica militare dell’U.r.s.s. Il 20 agosto del 1945 Beria fu posto a capo del Comitato Speciale per la Bomba Atomica" (oltre a lui vi erano altri otto membri, tra cui Malenkov). Ponendo l’enorme potenziale lavorativo del sistema Gulag al servizio del programma atomico, Beria fu determinante per la buona riuscita dell’impresa.

DAI "SERVIZI" ALL’ATOMICA Lavorando a stretto contatto con gli stessi scienziati nello stabilimento segretissimo di Suhumi, seguì passo passo la realizzazione dell’atomica sovietica. Il 29 agosto del 1949 esplodeva la prima bomba atomica sovietica al plutonio: l’incredibile impresa lasciò stupefatti gli Americani che si attendevano un successo degli avversari non prima del decennio successivo (anche se, a onor del vero, va detto che moltissime informazioni furono ottenute con lo spionaggio più che con la ricerca). Il biennio 1948-1949 fu per Beria anche un periodo di aspre lotte intestine al partito. Alleato con Malenkov, Beria entrò in aspra concorrenza con Zdanov, uno dei più dogmatici comunisti dell’epoca, rappresentante degli interessi della burocrazia del partito. Su diverse questioni, come ad esempio la politica economica da adottare nei confronti della Germania orientale, le fazioni di Beria e Zdanov erano in aperta collisione, ma la realtà consisteva nel fatto che era in atto una semplice lotta per il potere. Per fortuna di Beria e Malenkov, Zdanov morì improvvisamente nell’agosto del 1948, e non ci volle molto per costoro annientare la fazione che faceva capo al burocrate comunista.

Dietro a Stalin, quindi, cominciava ad apparire con sempre maggiore chiarezza un "triumvirato", composto da Beria, Malenkov e Molotov (1959-1953.3). Proprio quando la Storia sembrava essere in procinto di consegnare a Beria il massimo grado di potere, cosa cui aveva sempre agognato, cominciò il declino per il grande stratega georgiano. Fatto ancora più paradossale, a decretare il tramonto della stella dell’astuto, temutissimo Lavrentij Beria fu un uomo da lui sempre sottovalutato: il grezzo, impulsivo Nikita Krusciov.

KRUSCIOV CONTRO BERIA Krusciov, seppur avesse vestito importanti cariche all’interno del partito, aveva saputo prudentemente rimanere dietro le quinte, cominciando peraltro a tessere le prime trame contro Beria. Da sempre vicino agli interessi della casta militare, il futuro segretario del PCUS non poteva che detestare un uomo come Beria, che in passato aveva rappresentato l’occhio della polizia politica sui soldati sovietici. Oltre a ciò, Krusciov temeva di Beria l’astuzia unita all’arroganza, nonché la facilità con cui il georgiano poteva avvicinare Stalin e - per finire - la salda alleanza con Malenkov.

Il 5 marzo 1953, in circostanze alquanto misteriose, morì Josif Stalin. L’evento scatenò una delle più feroci lotte per la successione della storia sovietica. Non fu mai provato (né i documenti ora accessibili del Cremlino sono in grado di fare luce sui fatti) se il dittatore morì nella propria residenza o altrove, se qualcuno (Beria ?) ritardò volutamente i soccorsi del "Piccolo Padre" agonizzante. Quel che è certo è che la morte di Stalin giungeva in uno dei momenti più cupi della scena sovietica: sono gli anni del Complotto dei Medici, dell’antisemitismo mai ufficializzato ma imperante, delle epurazioni nelle fila del partito causate da un dittatore onnipotente e sempre più paranoico. Ad accrescere la tensione tra i più influenti uomini di Stalin, e ad aumentare l’incertezza per l’immediato futuro, fu il fatto che il dittatore non aveva designato un successore. Si venne a creare, per la prima volta nella storia del partito e dell’Unione Sovietica una situazione anomala: mancava il Capo attorno al quale raccogliersi e le cui decisioni erano insindacabili. Quello che erano stati Lenin prima e Stalin poi.

NEL RUOLO DI RIFORMATORE... Si venne quindi a creare una sorta di potere collegiale, dominato dalle incertezze e dalle sovrapposizioni dei ruoli e dei poteri. Una cosa era comunque indubbia: Beria appariva come la figura più potente e temuta, soprattutto poiché manteneva saldo il controllo sulla polizia politica. Ci sono poche testimonianze sul cambiamento improvviso di Beria dopo la morte di Stalin, anche perché la macchina propagandistica sovietica puntò a screditare completamente la sua figura scatenandosi in un’autentica damnatio memoriae. Prima come traditore di Stalin poi - dopo la denuncia dei crimini stalinisti ad opera di Krusciov nel 1956 - come rappresentante perfetto dello stalinismo. Non si può negare, comunque, che Beria puntò, già dai mesi successivi alla scomparsa di Stalin, a una politica di riforme e di "destalinizzazione" in diversi settori: dalla polizia politica alla politica estera. Beria mirava chiaramente al sostegno popolare. L’astuto Lavrentij aveva compreso come le cose fossero cambiate: fino a quando persisteva il culto aggregante della figura di Stalin gli "uomini di corte" del Cremlino potevano dimenticarsi del popolo sovietico. Fede e terrore lo tenevano a bada; ora si trattava di dare una base di legittimità al potere, senza ricorrere al palese uso della forza. Tra la metà di marzo e il mese di aprile, Beria compì delle mosse che indubbiamente spiazzarono gli avversari: propose di eliminare molti programmi edilizi, la cui utilità era dubbia; criticò l’istituzione delle "agrocittà", che aveva scontentato i coltivatori (ma che era una politica agricola invece fortemente sostenuta da Krusciov); sottopose al Presidium un documento nel quale veniva avanzata la richiesta di amnistia per moltissimi prigionieri.

... LAVRENTJI DESTALINIZZA La novità più sensazionale fu però pubblicata il 4 aprile sulla Pravda: Beria, mascherato dietro un comunicato della polizia politica, compiva un formale ripudio dell’esistenza del "complotto dei medici" e spingeva per la riabilitazione degli arrestati. Contemporaneamente, il culto di Stalin subiva graduali ma significativi ridimensionamenti, sulle pagine dei giornali, nelle citazioni all’interno del partito. Lentamente, Beria cercava di aumentare le prerogative dello Stato a discapito del Partito, nonché puntava ad una valorizzazione delle varie nazionalità all’interno dell’Unione Sovietica. Stalin aveva voluto "russificare" il grande impero sovietico, ora Beria faceva macchina indietro. Uno degli scontri più duri con Krusciov fu proprio relativamente alla politica delle nazionalità in Ucraina, feudo del futuro segretario del PCUS. Beria chiedeva senza mezzi termini la promozione degli ucraini ai posti di dirigenza e l’uso della lingua locale in tutte le questioni ufficiali.

Anche in politica estera Beria avviò riforme indiscutibili. Sotto la sua regia si giunse ad un armistizio in Corea, la Pravda arrivò persino ad elogiare con moderazione un discorso di Eisenhower, e vennero compiuti dei passi per arrivare ad un incontro segreto con il "ribelle" jugoslavo Tito. Ma la mossa più spregiudicata (e azzardata, come vedremo) Beria la compì nei confronti della Germania Orientale. Fu questa politica, rivelatasi in seguito disastrosa per il dominio europeo sovietico, a condannare Beria e a legittimare la cospirazione di Krusciov.

... E PARLA DI LIBERALISMO L’economia tedesca orientale era agli inizi degli anni cinquanta letteralmente a pezzi, con grave penuria di generi alimentari e di prima necessità. Le fughe ad Ovest aumentavano di giorno in giorno. Alla base della grave crisi vi era il dogmatico programma del capo del PC tedesco Ulbricht (industrializzazione e collettivizzazione forzate). Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno Beria produsse all’interno del Presidium un documento doveva auspicava varie cose: 1) la Germania Est doveva abbandonare il programma di costruzione forzata del socialismo 2) la collettivizzazione doveva rallentare visibilmente 3) doveva terminare la politica di eliminazione del capitale privato (!) 4) andavano introdotte riforme liberali nel sistema finanziario 5) bisognava aumentare la tutela dei diritti individuali dei cittadini (!). Analizzate a posteriori, queste richieste hanno dell’incredibile, soprattutto se si pensa che ad avanzarle fu un uomo come Beria. In ogni caso, Beria riuscì a fare accettare questa politica riformatrice. Il 10 giugno il Politburo della Germania Est annunciò pubblicamente il "nuovo corso" ricevuto come ordine da Mosca; il 13 giugno il governo concesse un’amnistia a centinaia di prigionieri politici. Finché avvenne l’inevitabile. Il mutamento di rotta scatenò aspettative incredibili nella gente, fino a che si giunse a dimostrazioni di aperto scontento popolare e allo discesa in piazza degli operai il 16 giugno a Berlino Est. In poche ore la rivolta si estese a tutto il paese. A mezzogiorno del 17 giugno i carri armati sovietici soffocavano nel sangue la rivolta.

IL COMPLOTTO Con l’intervento sovietico terminarono anche le velleità riformatrici di Beria. La fine politica (e non solo) di Beria era vicina, e con essa terminava il suo tentativo lungimirante di alleggerire il monolite sovietico. Beria aveva compreso come il sistema necessitasse uno "svecchiamento" e le sue riforme per cancellare gli aspetti più rigidi dello stalinismo avrebbero potuto avvicinare, anche se di poco, il consenso popolare alla distante nomenclatura del partito unico. La versione ufficiale narra che Beria fu arrestato il 26 giugno 1953 durante una riunione del Presidium organizzata pochi giorni dopo la crisi tedesca. La lunga trama tessuta da Krusciov negli ultimi mesi avrebbe dato i suoi frutti in poche, frenetiche ore.

In questa riunione, cui parteciparono tutte le più alte cariche del partito, Krusciov costruì una regia perfetta nella quale Beria fu dapprima criticato, poi isolato e infine arrestato con un plateale colpo di scena: l’entrata di alcuni militari armati. che lo presero in consegna come "traditore del popolo e del partito".

Il sottovalutato, l’ingenuo e contadino Nikita Krusciov era riuscito a convincere uomini come Malenkov, Molotov, Bulganin a prendere parte attiva nella vicenda. Via via, seguirono tutti gli altri. In una metafora dialettica delle famose pugnalate a Cesare, uno ad uno i più influenti membri del Presidium si scagliarono contro Beria che - intuendo la situazione - cercò senza fortuna di far pervenire ai suoi uomini all’esterno dell’edificio un messaggio di aiuto (quando fu arrestato stringeva un biglietto fra le mani con la scritta "Allarme !").

"TRADITORE DEL POPOLO" L’arresto di Beria costituì un’operazione ad altissimo rischio, poiché Krusciov, al momento della riunione del Presidium, non aveva conquistato al suo progetto che pochi influenti personaggi, né poteva immaginare come la maggioranza avrebbe reagito durante la discussione. Si giocò tutto in quel drammatico momento. Il verbale della storica riunione del Presidium è stato dichiarato smarrito dagli archivi, e l’unica testimonianza è contenuta nelle memorie di Krusciov. Da questo momento non si saprà più nulla di Lavrentij Beria. Fu trasferito alla prigione di Lefortovo ? Da lì fu portato in un bunker sotterraneo ? Fu ucciso già negli uffici del Presidium ?

Quel che è certo è che tutti gli uomini legati a Beria caddero rapidamente in disgrazia, la moglie e il figlio ventottenne Sergio furono messi agli arresti. A luglio si riunì il plenum del Comitato Centrale, in occasione del quale i membri del Presidium dovevano spiegare al Partito la propria condotta e la decisione di arrestare Beria. Fu un momento drammatico per i cospiratori che si giocarono il tutto per tutto. In ordine, prima Malenkov, poi Krusciov, poi Molotov, poi Bulganin, poi Kaganovic, e infine tutti le figure minori coinvolte nel complotto esposero le proprie accuse verso il "traditore" Beria. In quella drammatica seduta non uno si alzò a chiedere con quale autorità si fosse proceduti all’arresto di Beria o per quale motivo non si fosse consultato prima il Comitato centrale, come di regola. nessuno dubitò delle accuse, e nessuno chiese perché la perfidia di Beria fosse stata mascherata solo in quel momento. In uno scenario dalle fosche tinte medioevali, dove ognuno sapeva che avrebbe seguito il destino del condannato se avesse cercato di difenderlo, fu consumata la fine di Lavrentij Beria e il 7 luglio 1953 il Comitato Centrale approvava all’unanimità la condanna.

SPARITO DALL’ENCICLOPEDIA Secondo la più tradizionale liturgia comunista, Lavrentij Pavlovic Beria scomparve dal passato dell’Unione Sovietica. Seguendo, per ironia della sorte, il destino di tante sue vittime, cadde nell’oblio dei "non esistenti". Poco tempo dopo, la Bol’saja sovetskaja enciklopedia inviò a tutti gli abbonati una nota che suggeriva di eliminare "con un coltellino o una lametta" la voce "Beria" fornendo in sostituzione una sul "Mare di Bering". Scompariva così una delle figure più tragiche e complesse di quell’ "enigma avvolto nel nulla" che era - nelle parole di Winston Churchill - l’Unione Sovietica. Nella sentenza del Comitato Centrale che lo condannava non ci fu la minima menzione sui veri crimini compiuti da Lavrentij Beria. Non una riga sulle repressioni e le uccisioni di migliaia di vittime innocenti, non un accenno alle purghe, alle tecniche "persuasive" della sua famigerata polizia politica.

"Nel destino toccato a Beria - scrisse Charles Bohlen, ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca in quel tempo - c’è, naturalmente, una forma di elementare giustizia, ma sarebbe stato più equo se fossero state le sue vittime, e non i suoi complici, a comminare la meritata punizione."


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Inviato il 09 dicembre 2005 11:20 Autore

TITO DICE NO A STALIN.

COMINCIA IL CROLLODEL BLOCCO SOVIETICO

 

 

Quando, il 28 giugno 1948, il Partito Comunista jugoslavo venne espulso dal Cominform, e di conseguenza dal monolite comunista apparentemente incrollabile, il mondo assistette attonito ad un evento assolutamente imprevedibile e dalle proporzioni in quel momento inimmaginabili. Quella che fino al giorno prima (nel senso letterale del termine) veniva definita dall’ambasciata francese a Belgrado "la figlia primogenita della chiesa comunista", raccoglieva il guanto di sfida lanciato da Mosca e cominciava un’autentica lotta per la sopravvivenza che avrebbe guadagnato a Tito e alla dirigenza jugoslava un posto di assoluta rilevanza non solo nella Storia tout court, ma anche in quella delle relazioni internazionali, del movimento comunista e, soprattutto, di quell’epoca che va sotto il nome di Guerra Fredda. Per le Potenze occidentali si concretizzava la possibilità di inserire nel colosso sovietico quello che si sperava potesse essere un virus. Per la prima volta, come veniva annotato dai diplomatici britannici del tempo in Jugoslavia, esisteva la possibilità di dare ad un’eresia all’interno del blocco avversario una solida base territoriale. Per i comunisti di tutto il mondo lo scisma ( e mai termine fu adoperato più appropriatamente ) tra Jugoslavia e Unione Sovietica assunse i toni, verbali e psicologici, di un vero e proprio dissidio religioso. Quella di Tito era, a tutti gli effetti, un "eresia" (non importa se meramente ideologica o anche di rivalità internazionale, come vedremo in seguito), e tale doveva essere rappresentata dall’efficientissimo sistema propagandistico del blocco orientale, organizzato nel Comitato di Informazione (Cominform) appena creato da Stalin. Fu così che, in pochissimo tempo, Tito e gli uomini del suo entourage politico si videro progressivamente accusare di atteggiamento ostile all’Urss, "deviazionismo" dai princìpi marxisti-leninisti (accusa temibile in quel tempo), per poi diventare "la cricca fascista agli ordini degli Occidentali."

Comunque si voglia interpretare l’impresa jugoslava, una cosa è indubbia: essa fu il primo passo, il primo reale tentativo all’interno del blocco dominato da Mosca, di reazione indipendentista verso la politica accentratrice dell’Unione Sovietica. Questa politica era il riflesso di diversi fattori. Da una parte essa era inserita nello stesso codice genetico della storia russa: la Grande Russia, erede dell’Impero d’Oriente, madre e simbolo del panslavismo, da sempre costituiva il punto di riferimento e il centro del potere assoluto in questa parte di mondo. Dall’altra, il fatto che Mosca fosse diventata l’indiscusso "faro" della Grande Promessa comunista, non faceva che rafforzare la sua posizione di egemonia spirituale, politica e militare.

L’IDOLATRIA PER STALIN Scrive Milovan Gilas (uno dei più influenti uomini di Tito) nel suo bellissimo "Conversazioni con Stalin" che "per gli Iugoslavi Mosca non solo era un centro politico e spirituale, ma la realizzazione di un ideale astratto - quello di una società senza classi - qualcosa che non solo rende facili e dolci sofferenze e sacrifici, ma addirittura giustifica la loro esistenza. Stalin non era solo, senza discussioni, il leader di genio; era anche l’incarnazione dell’ideale stesso di una società nuova. Questo culto idolatrico della personalità di Stalin - come del resto di tutto ciò che era sovietico - assumeva forme e proporzioni irrazionali. Ogni azione del governo sovietico (anche per esempio l’attacco alla Finlandia), ogni elemento negativo dell’Unione Sovietica (anche, per esempio, i processi e le purghe) erano difesi e giustificati; anzi, cosa ancor più strana, i comunisti riuscirono a convincersi che quelle azioni erano giuste e lodevolissime. [...] Fra noi c’erano uomini dotati di un raffinato senso estetico, uomini con una notevole cultura letteraria e filosofica; eppure ci inchinavamo entusiasti davanti non solo alle idee di Stalin, ma anche alla perfezione con cui erano formulate. [...] A volte la nostra adorazione sfiorava il ridicolo; per esempio credemmo sul serio che la guerra sarebbe finita nel 1942 semplicemente perché Stalin lo aveva detto, e quando questo non accadde dimenticammo la profezia, e il profeta non diminuì neppur di poco nella nostra stima."

Infine, oltre ai fattori sopracitati, non va dimenticato quello legato alla particolare personalità di Stalin. Uomo dal carattere sospettoso, bisognoso di continui riconoscimenti e adulazioni, lo Stalin degli ultimi anni di vita aveva accentuato il proprio atteggiamento paranoico che vedeva complotti e minacce continue alla propria leadership, peraltro indiscussa. Questa condizione psicologica era stata alla base del Terrore scatenatosi all’interno dell’Unione Sovietica alla fine degli anni trenta. Ora quello stesso terrore riprendeva a diffondersi con eguale virulenza a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, l’epoca dei grandi "complotti" e delle campagne antisemite..

LA JUGOSLAVIA DI TITO: PICCOLA URSS L’accentramento che il dittatore georgiano pretendeva all’interno dei confini sovietici , di conseguenza, non poteva che riflettersi anche nelle relazioni fra Stati all’interno del blocco comunista. Durante la Seconda Guerra Mondiale i rapporti tra Urss e Pcj (Partito Comunista jugoslavo, N.d.R.) si erano mantenuti su una linea di distacco ed in un certo senso di freddezza: i partigiani iugoslavi si lamentavano dell’insufficiente sostegno concesso loro da Stalin. Effettivamente essi non avevano tutti i torti: il Piccolo Padre - come il dittatore veniva definito dai comunisti di tutto il mondo - stava seguendo una politica molto cauta nei confronti degli Occidentali, cercando di non irritare quelli che, fino al completo esaurimento del conflitto, erano ancora i suoi alleati. Non aveva, Stalin, forse sciolto il Comintern per compiacere Churchill e gli americani, che vedevano in esso il pericolo dell’"internazionalismo proletario"? Di conseguenza, sarebbe stato un azzardo sostenere apertamente gli uomini di Tito, - ancora ufficialmente una delle fazioni partigiane che combattevano la lotta di liberazione contro l’invasore nazifascista - i quali non facevano mistero delle proprie intenzioni rivoluzionarie, addirittura sfoggiando la stella rossa sulle proprie divise.

Con la fine del conflitto e la nascita di una "nuova Jugoslavia" retta con pugno di ferro dalla carismatica figura di Josif Broz, detto Tito, apparve evidente quale tipo di legame legasse i due Paesi. La Jugoslavia si avviava a diventare lo stato più affine al modello sovietico, con un regime dittatoriale sostenuto da una potente polizia segreta (la famigerata Ozna) e un’imponente amministrazione statalista, decisa a puntare ad un’economia pianificata. La forza di questo legame spirituale con la Grande Madre del comunismo e di tutti gli slavi era sentito però unicamente dagli iugoslavi. I propositi dei Sovietici erano infatti ben diversi: quello che Mosca (o Stalin, il che è lo stesso) voleva era, in tutta la sua evidenza, solamente un rapporto "padrone-suddito". Nei piani imperialistici sovietici la Jugoslavia - così come ogni altro Paese dell’Est - doveva fungere da utile (e addomesticata ) pedina nella grande strategia politica della Guerra Fredda.

UNA SITUAZIONE PARADOSSALE La Jugoslavia però, e il Cremlino se ne sarebbe ben presto accorto, non era uguale agli altri Paesi suoi satelliti. I Russi - scrive J. Pirjevic nel suo "Il Gran Rifiuto - Guerra Fredda e calda tra Tito, Stalin e l’Occidente" - "erano incapaci di comprendere la differenza tra un paese che si era liberato con le proprie forze dall’occupazione straniera, ed aveva espresso una classe politica forgiatasi nella resistenza, e gli altri dell’Europa centro-orientale, liberati ed occupati dall’Armata Rossa. [...] Si creò così in Jugoslavia una situazione a dir poco paradossale: per assomigliare il più possibile all’Unione Sovietica, gli Iugoslavi dovevano disobbedire proprio ai Sovietici, convinti che il paese non fosse adatto ad esperimenti di tipo bolscevico." Nei rapporti tra diplomatici e militari, poi, l’atteggiamento assunto dai Sovietici nei confronti degli Iugoslavi era di malcelata superiorità. I Sovietici cercavano di egemonizzare in tutto e per tutto la realtà jugoslava e minavano alla base lo stesso regime "fratello" guidato da Tito, infiltrando propri uomini. Lo scopo fin troppo evidente era quello di creare una sorta di doppia struttura per mantenere in totale subordinazione le scelte politiche del Paese balcanico. Francamente, se subito dopo la fine del conflitto mondiale questo atteggiamento poteva sembrare perlomeno "aggressivo", nella logica della Guerra Fredda che si sarebbe venuta a creare di lì a poco, tutto ciò era comprensibile (anche se non condivisibile): per reggere lo scontro con l’Occidente, Stalin doveva avere sotto controllo il proprio blocco. Iniziative politiche internazionali individuali dei Paesi satelliti avrebbero costituito un elemento di debolezza in un sistema basato essenzialmente sull’assenza di democrazia. Il deterioramento dei rapporti tra Unione Sovietica e Jugoslavia visse la sua parte cruciale nel periodo che andò dalla fine del 1947 alla prima metà del 1948, e rimase perfettamente celato al mondo fino al fatidico 28 giugno, quando il Partito comunista jugoslavo venne espulso dal gotha dei Pc centro-orientali, il Cominform.

L’ORA X DELL’ERESIA JUGOSLAVA Anche dopo questa data, tra l’altro, i governi occidentali non vollero comprendere la reale portata dell’avvenimento. Solo alla fine di quell’anno Americani e Inglesi, dopo evidenti approcci diplomatici di Belgrado, si convinsero che la carta Tito poteva essere vincente nel confronto con l’Unione Sovietica. La nuova parola d’ordine - a Washington e Londra - diveniva così "to keep Tito afloat": tenere Tito a galla. (Quest’ultimo argomento però, e cioè l’atteggiamento degli Occidentali nei confronti della crisi sovietico-jugoslava, costituirà materia della seconda parte). Dal punto di vista ideologico, le incomprensioni fra il Cremlino e la Jugoslavia si basarono su di una serie di accuse che Stalin e i suoi uomini mossero contro coloro che inizialmente vennero definiti dei "compagni in errore", per poi diventare "agenti al servizio degli Occidentali". Gli attacchi dei Sovietici si mossero su diversi binari che riconducevano alla generale accusa di "deviazionismo". La natura di questi attacchi, provenienti dalle più alte cariche del Pcus, non era del tutto lucida e sconfinava spesso in toni isterici, tanto da rendere chiaro chi fosse il reale regista dietro essi: Stalin. Molto spesso, poi, le critiche cadevano in netta contraddizione fra loro: la dirigenza jugoslava veniva così accusata di attuare un deviazionismo contemporaneamente di "destra" (buharinismo) e di "sinistra" (trotzkismo). La difficoltà dei Sovietici risiedeva proprio nel dover cercare pretesti ideologici per attaccare e isolare Tito e i suoi uomini all’interno del mondo comunista, senza rendere palese il proprio tentativo di egemonizzazione all’interno del blocco centro-orientale. Ma ecco, punto per punto, le accuse lanciate dietro ordine di Stalin. La prima: una delle dispute tra Mosca e Belgrado (forse quella più autenticamente ideologica) consisteva nell’interpretazione del Piano Quinquennale che la Jugoslavia - in perfetta ortodossia comunista - stava iniziando ad attuare nella propria economia. Il Cremlino riteneva che questo piano fosse eccessivamente ambizioso ed irrealistico. Oltre a ciò, la dirigenza jugoslava si dimostrava scettica verso l’attuazione forzata della collettivizzazione.

LE PESANTI ACCUSE DI MOSCA Ricordiamo che la collettivizzazione delle terre e delle campagne era considerata dai sovietici un elemento essenziale per ogni trasformazione economica. Fu il grande piano collettivistico voluto da Stalin per l’Urss negli anni trenta a causare inenarrabili sofferenze verso il popolo sovietico, causando decine di milioni di morti e l’eliminazione (fisica) di un intero ceto, quello dei contadini proprietari, i cosiddetti kulaki. Lo scetticismo jugoslavo nei confronti di una collettivizzazione forzata nasceva dal particolare rapporto instauratosi fra i leaders iugoslavi e la classe contadina, il cui contributo, durante la guerra, era stato fondamentale ai fini della vittoria. Il Pcj considerava i contadini "il più forte pilastro del nostro ordine statale". Tutto ciò era in netta contraddizione con i principi marxisti-leninisti che vedevano invece nella classe operaia l’elemento trainante e veramente rivoluzionario della grande marcia verso la società senza classi. Gli Iugoslavi, cercando di non colpire i contadini, si dimostravano pienamente consapevoli di deviare dalla strada maestra segnata dai "grandi padri" di Mosca. D’altro canto sapevano bene quali sofferenze avesse comportato la collettivizzazione forzata in Unione Sovietica, e si limitarono quindi ad una riforma agraria moderata, il cui scopo era l’eliminazione del latifondo e la ridistribuzione ai piccoli contadini delle terre confiscate. La decisione jugoslava di deviare dal dogma sovietico non fu comunque indolore. Alcuni comunisti della cerchia di Tito (ad esempio Hebrang) si mostravano più propensi alla linea ortodossa e questo creò un obiettivo indebolimento del PCI, che al contrario necessitava - nello scontro con il colosso di Mosca - della massima compattezza. Scopo del Cremlino, d’altra parte, era proprio questo: creare apprensioni ideologiche e divisioni all’interno del Pcj, in attesa di poter, prima o poi, rovesciare Tito e i suoi più fedeli collaboratori. Sostituendoli, ovviamente, con uomini più malleabili, e disposti a seguire ossequiosamente le direttive di Mosca.

La seconda critica che veniva mossa a Tito e ai suoi uomini era - per quanto possa sembrare paradossale, venendo da Stalin - la mancanza di democrazia all’interno del Pcj. La maggioranza dei membri del CC (Comitato Centrale), sosteneva questa tesi - erano stati cooptati, e non eletti dai membri del partito.

PC JUGOSLAVO. UN CLUB DI AMICONI Naturalmente c’era del vero in questa critica. Il CC del partito comunista jugoslavo - come scrive B. Heuser nel suo "Western Containment Policies in the Cold War - The Yugoslav Case 1948.53" - "era in realtà un "club" di vecchi amici […] con l’eccezione di Zujovic ed Hebrang. Questi due uomini si erano schierati con Stalin in occasione della disputa sul Piano Quinquennale, e come conseguenza furono espulsi dal CC, per poi essere in seguito imprigionati."

Il terzo argomento di scontro affondava le proprie radici sin dagli ultimi mesi del conflitto mondiale, e consisteva nei rapporti militari tra Mosca e Belgrado. Considerato il particolare rapporto che si instaurò in ogni paese dell’Est tra partigiani comunisti e Armata Rossa, e considerato parimenti l’alto valore simbolico che l’Armata Rossa aveva presso tutti i comunisti nel mondo, anche questa disputa può essere a buon diritto inserita tra le questioni ideologiche che si frapposero tra Tito e Stalin. La richiesta jugoslava affinché l’Unione Sovietica ritirasse il 60% dei suoi consiglieri militari e civili non fu certamente gradita da Stalin. Quasi tutti i consiglieri - e ciò lo si sapeva bene da entrambe le parti - erano ovviamente spie e "osservatori". Negli altri Paesi satelliti le dirigenze comuniste conoscevano bene questa realtà, ma la accettavano con fatalismo. Con la sua richiesta Tito ribadiva i propri intenti di indipendenza e orgogliosamente riaffermava la particolarità del caso jugoslavo.

Le incomprensioni in campo militare risalivano - come detto - ai mesi della "liberazione" da parte dell’Armata Rossa. I soldati sovietici si erano abbandonati ad eccessi nei confronti della popolazione (saccheggi, stupri, conflitti di potere con i partigiani titoisti, eccetera...). In aggiunta, i militari di Mosca assumevano un atteggiamento di superiorità e pretendevano un controllo assoluto sul comando jugoslavo. "Il comportamento dei soldati dell’Armata Rossa - scrive Pirjevic nella sua opera succitata - nel breve periodo che rimasero in Jugoslavia, fu un infausto preannuncio dell’atteggiamento che i loro compatrioti civili e militari avrebbero ostentato negli anni in cui la Jugoslavia cercò di conformarsi il più possibile al modello sovietico. […]"

ARROGANTI "CONSIGLIORI" SOVIETICI" Liberati dalla paura e dall’arbitrio cui da decenni sottostavano in patria, gli esperti sovietici, che si insediarono in tutte le istituzioni statali, industriali e militari, si comportarono con poco criterio e molta arroganza […], come se ognuno di loro avesse il diritto e il dovere di atteggiarsi a piccolo Stalin." Nel suo "Conversazioni con Stalin", Milovan Gilas ricorda come lui fosse il primo all’interno della dirigenza jugoslava ad attaccare, seppur pudicamente, il comportamento dell’Armata Rossa. e per questo rimanendo dapprincipio isolato addirittura tra i suoi compagni di partito. "Per i comunisti - scrive Gilas - il problema non solo era politico, ma anche morale: era questa dunque l’Armata Rossa, tanto idealizzata e tanto attesa ?[…]. Fu a causa di quelle parole che al principio del 1945 agenti sovietici in Jugoslavia cominciarono a mettere in giro voci di un mio supposto ‘trotzkismo’."

La quarta accusa rivolta dal Cremlino ai compagni iugoslavi fu la mancanza di autocritica. Questa accusa aveva, in quel tempo, una rilevante importanza ideologica, ed era il pretesto e l’arma con la quale Stalin aveva eliminato moltissimi oppositori all’interno del proprio partito. Il Pcus era il partito primus inter pares - questa la tesi di Mosca - e il Pcj doveva accettare le critiche, naturalmente costruttive, che riceveva dal proprio "fratello maggiore." L’analisi di questa mancanza di autocritica costituì l’argomento principale della famosa riunione del Cominform del giugno 1948. Il rifiuto jugoslavo a parteciparvi, dal momento che si sarebbe trattato di un autentico processo contro la dirigenza di Tito, portò all’espulsione del Pcj dal Cominform. Nello stesso mese il numero 15 del giornale del Cominform, a firma del suo direttore Judin (megafono di Stalin), pubblicò un articolo dal titolo "L’autocritica, arma possente dei partiti comunisti e operai". In esso si lodava il comportamento dei comunisti italiani e francesi, disposti ad accettare le sane critiche moscovite.

CRITICHE, AUTOCRITICHE, AUTOELOGI Altri comunisti, invece, - continuava l’articolo - erano "ubriachi di panegirici e di autoincensamento, non riuscivano a vedere i propri errori e peccavano di atteggiamento anti-marxista." Anche se non venivano fatti nomi, l’attacco era preciso. L’edizione serbo-croata del giornale venne naturalmente ritirata e di lì a poco la sede del giornale - che era a Belgrado - venne trasferita in Romania.

La quinta e ultima accusa che veniva a mossa a Tito e al Pcj era forse la più grave: il tradimento dei principi marxisti-leninisti. Da questa considerazione si ebbe poi l’escalation che portò alla guerra aperta fra i due Paesi e alle accuse verso Tito di essere al servizio dell’Occidente. Il comunicato di espulsione del Cominform così recitava: "Il Cominform constata che recentemente la dirigenza del Pcj ha ricercato una linea di comportamento scorretta sulle principali questioni di politica interna ed estera, una linea che costituisce una dipartita dal marxismo-leninismo."

Da questa accusa dipendeva quella - ancor più grave ed infamante - di "trotzkismo". Tito e i sui accoliti, sosteneva Mosca, cercavano di indebolire il fronte comunista perché guidato dall’Unione Sovietica. E per farlo ricorrevano subdolamente a slogan di sinistra sulla rivoluzione mondiale. Si trattava di un ritorno in piena regola all’antica questione tra Stalin e Trotzki sulla rivoluzione in un solo paese (sostenuta dal primo) o rivoluzione mondiale (sostenuta ovviamente dal secondo.) Stalin aveva oscillato tra queste due strategie per qualche tempo, ma nella nuova ottica della Guerra Fredda aveva optato per quella più prudente. Mosca - questa la tesi - non doveva stimolare, almeno per il momento, rivoluzioni per il mondo. La colpa degli iugoslavi, paradossalmente, era quella di seguire una condotta più comunista e radicale della stessa Urss, la quale di volta in volta adattava le strategie rivoluzionarie ai propri interessi di grande potenza. A seconda del momento storico, Stalin rinsaldava o allentava i legami con i vari partiti comunisti. Subito dopo la Seconda guerra Mondiale e fino ai primi mesi del 1947, Stalin incoraggiò le "vie separate al socialismo". Questo era il periodo in cui i regimi comunisti si insediavano all’Est, i comunisti francesi andavano al governo e quelli italiani, uniti ai socialisti di Nenni, erano vicini ad ottenere la maggioranza assoluta alle elezioni generali.

I PRIMI TIMORI DI STALIN L’instabilità in Europa era molto vantaggiosa per Stalin, e questa politica aggressiva e di creazione di stati-satelliti cuscinetto doveva fungere da rinsaldamento dei confini per l’Urss Questa politica, però, fu alla base della reazione dell’Occidente che - tra il 1946 e il 1947 - giunse alla formulazione della politica del Contenimento, maturata tra Washington e Londra. Il famoso discorso di Winston Churchill sulla "cortina di ferro" all’Università di Fulton, Missouri nel ‘46 e l’enunciazione della Dottrina Truman nel marzo del ‘47 avevano impressionato Stalin, che ora si mostrava più cauto. In questo quadro, l’aggressività rivoluzionaria jugoslava (che tesseva rapporti con i PC cinese e indiano e sosteneva i ribelli comunisti in Grecia) costituiva un elemento incontrollabile per l’Urss. L’accusa di "tradimento marxista" lanciata da Mosca non cadde nel vuoto. Scrive Pirjevic che "pur essendo coscienti d’aver scelto l’unica via per conservare la propria dignità di rivoluzionari e di uomini, [gli uomini di Tito: ndr] cercavano di nascondere anche a se stessi l’orrore del sacrilegio che stavano per compiere. Si ribellavano a Stalin, ma contemporanemante, con ogni fibra del proprio essere, volevano rimanere stalinisti." Due erano essenzialmente gli argomenti che portarono allo scontro di natura politica internazionale, più che ideologica. La questione del sostegno alla Rivoluzione Greca e quello della Federazione Balcanica. Come già spiegato in precedenza, Stalin temeva la creazione di epicentri rivoluzionari difficili da controllare, soprattutto nella nuova realtà della Guerra Fredda. Da molte considerazioni e testimonianze (soprattutto provenienti dalla fonte autorevole di Gilas) si può affermare che Stalin non volesse assolutamente il successo dei ribelli comunisti in Grecia. Il sostegno che Tito dava ad essi portò la Jugoslavia in una condizione di isolamento internazionale, dalla quale l’Urss - in posizione autorevole all’Onu - non fece nulla per farla uscire. In uno degli ultimi contatti diretti con la dirigenza jugoslava prima della rottura definitiva, tra il gennaio e il febbraio 1948, Stalin ammonì gli Iugoslavi ad abbandonare la politica in Grecia.

LA FEDERAZIONE BALCANICA "La rivoluzione greca deve cessare - sentenziò Stalin - . Non hanno nessuno prospettiva di successo. Credete forse che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vi permetteranno di spezzare la loro linea di comunicazione nel Mediterraneo ? Figuriamoci. E non abbiamo una flotta. La rivoluzione greca deve essere troncata, e il più presto possibile." L’ennesimo scontro tra Mosca e Belgrado lo si ebbe a causa dei tentativi iugoslavi di creare una federazione balcanica, ovviamente da loro egemonizzata (tentativi che cominciarono già dal 1946, ma si accelerarono nel 1947 e nel 1848). Tito, infatti, attraverso una politica di contatti bilaterali con i Paesi confinanti, mirava ad edificare una federazione di natura essenzialmente economica, ma che aveva in sé le potenzialità di risolvere un altro annoso problema: quello delle minoranze etniche. Nei territori di confine tra uno stato e l’altro, infatti, vivevano milioni di persone appartenenti a minoranze etniche. La minoranza schipetara nelle regioni del Kossovo e di Metohja - ad esempio - era molto numerosa e potente e un patto con l’Albania avrebbe portato i suoi vantaggi. "Lo stesso Enver Hoxha - scrive Pirjevic - nel 1946 chiedeva a Tito, con le lacrime agli occhi, che fosse creata quanto prima una federazione tra i due Paesi, da lui considerata l’unica speranza di salvezza per la sua patria." Una politica estera così spudoratamente indipendente non poteva che allarmare oltre misura Stalin. I Sovietici cercarono quindi di mettere i bastoni tra le ruote agli Iugoslavi, dapprima cercando di isolarli all’interno dell’area balcanica, poi attuando una politica apparentemente contraddittoria ma dall’intento destabilizzatore, sostenendo in Albania le forze anti-jugoslave e in Bulgaria quelle interessate all’unione con la Jugoslavia. Il proposito, che Tito colse immediatamente, era palese: usare la Bulgaria come un "cavallo di tr**a" per fagocitare la Jugoslavia. Dal momento che la politica balcanica di Tito continuò sfrontatamente per tutto il 1947 , Stalin convocò al Cremlino per ben due volte gli Iugoslavi: il l’8 gennaio e il 10 febbraio del 1948. Nella seconda data venne convocata anche la dirigenza bulgara.

LA RABBIA DI STALIN SU DIMITROV Fu in questa occasione che Stalin, furente, umiliò il segretario bulgaro Dimitrov e intimò, senza mezzi termini, che l’Urss andava consultata per quanto riguardava la questione balcanica. "Il vostro guaio non sta negli errori - urlò Stalin - ma nel fatto che la vostra posizione è diversa dalla nostra !" "Lanciai a Dimitrov un’occhiata di sbieco - scrive Gilas nelle sue "Conversazioni" - , il leone del processo di Lipsia che dalla sua trappola aveva osato sfidare Göring e il fascismo allora al massimo della potenza, adesso si comportava come un cane battuto." Quello del 10 febbraio fu l’ultimo incontro di vertice tra Sovietici e Iugoslavi. La guerra era ormai apertamente dichiarata e - di lì a poco - si sarebbe scatenata una spaventosa "caccia alle streghe" dall’una e dall’altra parte (titoisti e stalinisti). La Jugoslavia, ora, era sempre più sola.

L’escalation dello scontro Stalin/Tito nei mesi immediatamente successivi alla scomunica del Cominform. L’ufficializzazione dello scontro aperto tra Tito e Stalin portò automaticamente all’isolamento della Jugoslavia. Rumeni ed Albanesi furono i primi ad attaccare il Pcj, seguiti a ruota dai cecoslovacchi. Solo in Polonia il leader Gomulka ave a cercato di avvicinarsi prudentemente a Belgrado, e ciò portò alla sua progressiva disgrazia politica. Apparve chiaro che, chiunque non solo avesse cercato di giustificare Tito, ma non lo avesse attaccato con la giusta veemenza, sarebbe stato estromesso dal potere se non eliminato fisicamente. "A un mese esatto dalla pubblicazione della condanna del Cominform - scrive Pirjevic - Tito e i suoi erano scesi, nell’opinione di Mosca, al gradino più basso. Essi non erano più considerati dei compagni ancora recuperabili attraverso il processo catartico dell’autocritica, ma dei sanguinari lacchè dell’imperialismo. L’abitudine di veder subito un Giuda nell’oppositore politico, introdotta nella mentalità comunista da Lenin, fu insomma rispettata, e rivolta assai presto contro Tito. La stampa cominformista […] seguì naturalmente il pifferaio moscovita, aggiungendo alle accuse contumelie e insinuazioni di ogni genere.

I TITOISTI FANNO QUADRATO " Gli jugoslavi non titubarono nell’organizzare una difesa: all’interno del Paese venne repressa brutalmente qualsiasi voce di dissenso, la polizia segreta Ozna controllava ogni aspetto della vita sociale, alla ricerca dei "traditori". In diverse occasioni Tito tenne ad affermare la solidità del Pcj. Prima in occasione del V Congresso del Pcj (fine luglio 1948), la dirigenza titoista volle rinsaldare le fila. Esso fu organizzato in modo tale che qualsiasi voce di dissenso fosse cancellata, e la trionfale rielezione di Tito a segretario generale fu la dimostrazione al mondo comunista che gli Iugoslavi erano compatti; poi, pochi giorni dopo, il 10 agosto, Tito pronunciò il famoso discorso alla Prima Divisione Proletaria. Esso aveva lo scopo di rinsaldare le fila dell’esercito jugoslavo, scosso in quel momento da avvenimenti traumatici. la scomunica del Cominform aveva generato defezioni tra i militari, preoccupati anche della sproporzione dello scontro con il colosso moscovita. Nel discorso il Maresciallo Tito introdusse un elemento straordinariamente innovativo: l’enunciazione formale della "via jugoslava al socialismo". La Jugoslavia - questa le parole di Tito - non perseguiva interessi nazionalistici ma lottava per la vittoria del socialismo nel mondo. Tito menzionò una volta sola Stalin, e fu per criticarlo. Non era solo lui, annunciava sfrontatamente Tito, l’unico interprete del marxismo-leninismo(!). "Questo discorso - scrive Pirjevic - conteneva una parte fortemente innovativa: finora gli Iugoslavi avevano cercato di spiegare il dissidio con Stalin come la conseguenza di informazioni scorrette di cui questi era stato vittima; la disputa non era dunque nata da un’eresia, ma da un errore […] Adesso invece Tito aveva l’ardire di rivendicare il significato e il valore dell’esperienza jugoslava." Il 24 agosto la "Scanteia" di Bucarest pubblicò un articolo in cui la "cricca di Tito" veniva definita una "banda di assassini"; lo stesso giorno il Ministro degli Esteri Jugoslavo Bebler criticava apertamente Stalin di fronte all’ambasciatore britannico a Belgrado. Nel mesi di settembre a Praga veniva fondata la "Nuova Borba" (titolo in aperta polemica con la "Borba", la "Pravda" di Belgrado), il cui compito era lo "smascheramento del tradimento compiuto da Tito ai danni del popolo Jugoslavo."

UN GIORNALE AVVELENA LA JUGOSLAVIA La Nuova Borba, benché proibita dalle autorità iugoslave, ebbe una certa diffusione tra i cominformisti iugoslavi e fu uno dei tanti tentativi di ingerenza diretta da Mosca contro Tito. Il 6 novembre, nel discorso di commemorazione della Rivoluzione di Ottobre, Molotov (braccio destro di Stalin) accusò violentemente la leadership jugoslava. L’alto funzionario sovietico si dimostrava però fiducioso negli "elementi sani" all’interno del PCJ: essi avrebbero potuto riportare la Jugoslavia in seno alla famiglia comunista. Il 27 dicembre, di fronte all’Assemblea Federale che si accingeva a discutere il bilancio federale per il 1949, Tito affermò in un discorso di due ore che la Jugoslavia - isolata dalle democrazie popolari asservite a Mosca e posta in condizione subordinata (da qualche settimana era cominciato anche il boicottaggio economico, N.d.R.) affinché fosse sfruttata come serbatoio agricolo del blocco comunista - si vedeva costretta ad allacciare rapporti con qualsiasi Paese che volesse aiutarne lo sviluppo. Era la minaccia di avvicinarsi all’Occidente. Il 31 dicembre Mosca annunciava tramite la "Pravda" l’intenzione di annullare ogni rapporto commerciale con Belgrado. La risposta di Tito non si fece attendere. Nella notte di San Silvestro, in un discorso alla radio, il Maresciallo ricordò tutti i grandi sacrifici del popolo jugoslavo. Tito mise in risalto l’unità del Paese contro i nemici esterni e concluse sfoggiando ottimismo per il futuro.

Erano passati solo pochi mesi da quando la Jugoslavia comunista era considerata, non solo dagli Occidentali, il Paese più fedele a Mosca, e da essa prediletto. Il piccolo stato balcanico aveva sfidato il colosso sovietico ed era sopravvissuto alla dichiarazione di sfida. Stalin, nella sua onnipotenza, non era riuscito a scalzare dal potere Tito e i suoi uomini. "L’anno in cui Orwell aveva dato, col suo ‘1984’ il ritratto più vero e inquietante del ‘Grande Fratello’ . scrive Pirjevic - si concludeva così con la sua sconfitta."

IL BIG BANG DELL’UNIVERSO COMUNISTA L’importanza dello scontro fra Tito e Stalin fu di proporzioni enormi: esso costituì la prima manifestazione di dissidenza nei confronti di Mosca. In un certo senso, la lotta per l’indipendenza da Mosca ingaggiata dalla Jugoslavia può essere vista come il primo sintomo dell’inevitabile crollo del monolitismo sovietico cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Non sembra incredibile affermare quindi che la sfida di Tito può essere considerata come la madre di ogni successivo sforzo indipendentista condotto all’interno del blocco sovietico, da quello ungherese del 1956, a quello cecoslovacco del 1968, addirittura a quello polacco del 1980.

Quella di Tito fu una reazione al centralismo della politica stalinista. Il caso jugoslavo ha dimostrato fino a che punto arrivassero le pretese di controllo da parte di Mosca: dalla pubblicazione della corrispondenza tra Stalin e Tito e tra il PCUS e il PCJ si evince il fatto sconcertante che il Cremlino pretendesse di poter insediare liberamente spie e uomini filo-sovietici nel governo jugoslavo. Paradossalmente, quindi, si può affermare che la ribellione del comunista radicale Tito fu uno dei primi sintomi del crollo del comunismo.

L’assolutismo e l’irreformabilità del comunismo sovietico ha fatto si che qualsiasi deviazione dalla strada decisa da Mosca costituisse un pericolo. Qualsiasi tentativo di riforma è miseramente fallito (dai tentativi di Dubcek in Cecoslovacchia fino a quelli relativamente recenti di Gorbaciov in Urss). Proprio per la sua essenza assolutista il sistema dominato da Mosca, pena la sua stessa esistenza, non poteva accettare la dialettica democratica. Poiché non ne possedeva gli anticorpi.


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Inviato il 09 dicembre 2005 11:23 Autore

KIT CARSON, CAVALIERE SENZA MACCHIA E SENZA PAURA

NEL SELVAGGIO WEST

 

Ci sono personaggi che, nati dalla fantasia di uno scrittore, sono risultati così perfetti da assumere una vita propria. Probabilmente l'esempio più emblematico resta Sherlock Holmes: provate a dire che il celebre investigatore era solo una creatura di Conan Doyle, e contro di voi insorgeranno le migliaia di fans dei club di ammiratori di Sherlock Holmes, sparsi in tutto il mondo. Ma esistono anche personaggi che sono entrati così bene a far parte di miti e leggende, da farci scordare che sono realmente esistiti.

Questo fenomeno non è infrequente nella saga del West. Il periodo del cosiddetto "Selvaggio West" è, fra tutti i periodi storici, quello che ha prodotto più film, romanzi, racconti, fumetti, di qualsiasi altro. E tra i mille personaggi di pura fantasia si sono mischiati personaggi realmente esistiti che, grazie alla penna di scrittori e soggettisti, hanno iniziato a fare un sacco di cose che mai si sarebbero sognati di fare. Pecos Bill e Tex Willer cavalcano in compagnia di Buffalo Bill e Toro Seduto, mentre un giovane John Wayne diventa celebre dando vita, nel film "Ombre Rosse" al malinconico Ringo, che prende a fucilate gli Apaches di Geronimo. Insomma, c'è un poco di confusione. E da questa confusione ci piace oggi tirar fuori un personaggio reale, ma così usato ed abusato dai fumetti-western da far dubitare che non sia mai esistito, o quanto meno da far dimenticare le imprese che realmente lo resero famoso: Kit Carson.

Chi oggi si reca nella cittadina di Taos, nel Nuovo Messico, trova un museo indiano dedicato proprio a lui: Christopher "Kit" Carson, che iniziò la sua carriera come apprendista sellaio e morì col grado di generale di brigata "brevet" (onorario) dell'Esercito degli Stati Uniti. Ed è giusto che il monumento si trovi proprio a Taos, perchè fu da questa città che Kit Carson iniziò la sua avventura, che resta un emblema di quello "spirito del West" fatto di amore per il rischio, di coraggio, di continuo desiderio di nuove conquiste, ed anche, una volta tanto, di un rispetto umano inusuale in una società che poco o nulla considerava coloro che abitavano da sempre le nuove terre di colonizzazione: i pellerossa.

COMBATTENTE, NON MASSACRATORE Chi ha già avuto la bontà di seguirci avrà visto che il "problema indiano" ricorre di continuo in questi nostri viaggi nel West. Nè potrebbe essere altrimenti, perchè chiunque legga con occhio attento la storia della conquista dei territori del Grande Ovest non può non restare agghiacciato dal cinismo con cui si pianificò ed attuò la distruzione di una civiltà millenaria, che aveva l'imperdonabile difetto di voler sopravvivere con le proprie tradizioni e la propria cultura. Con ciò non vogliamo dire che Kit Carson fu un cherubino; le armi le usò, e anche efficacemente, e anche contro gli indiani. Ma c'è differenza tra combattenti e pianificatori di genocidi. E Kit Carson fu decisamente tra i primi, e fu tra i pochi che fecero qualcosa per limitare le nefandezze dei secondi.

Ma procediamo con un minimo di ordine. Carson nasce nel 1809, scegliendo proprio la notte di Natale per venire al mondo. Siamo nel Missouri, nella contea di Boone's Lick, da cui il giovane Kit si trasferì a 17 anni per andare a lavorare a Lincoln, come apprendista da un artigiano sellaio. Un anno di quella vita gli fu più che sufficiente; presa l'ultima paga andò a comprarsi una pistola e un fucile. Il suo padrone trovò un biglietto in bottega: "Sono andato verso Ovest. Voi con me siete stato sempre buono. Sono io che non posso stare qui. Kit".

A Ovest: dove poteva altrimenti andare un giovane che sentiva bruciare dentro di sè il desiderio dell'avventura? Taos, nel Nuovo Messico, nel 1827 era poco più che un villaggio, disordinato e turbolento, situato in una zona da anni contesa da Stati Uniti e Messico, col risultato che nessuno dei due stati vi esercitava alcuna autorità: ma era uno dei punti di partenza delle carovane che portavano i coloni verso i nuovi territori. Convogli di carri pieni di ogni mercanzia e di speranze, desideri, incoscienze. Giovanissimo, la guida Kit Carson era già uno degli uomini più apprezzati per la sua conoscenza dei territori, per il suo coraggio che non sfociava mai nella temerarietà, e per la sua capacità di trattare con gli indiani. A vent'anni guidò una delle più grandi carovane fino alla California: era l'estremo Ovest, la costa del Pacifico. Non era un punto di arrivo, era una tappa: e dalla California il giovane irrequieto inizia a salire verso Nord, nei territori che attualmente costituiscono gli stati del Nevada, dell'Oregon e di Washington. Qui si dedica alla caccia al castoro. Oggi, forse, si potrebbe sorridere di questa attività, chiedendosi cosa mai ci sia di epico.

CACCIA AL CASTORO: SEMBRA FACILE.... Ma all'epoca, nei territori del Nord-Ovest, la caccia al castoro, che si svolgeva prevalentemente d'inverno, era una continua sfida di sopravvivenza tra i freddi polari delle foreste sterminate e la riluttanza degli indiani Piedineri a ricevere troppe visite sui loro territori, riluttanza che si manifestava spesso nell'accogliere i cacciatori con una freccia nel petto o nella schiena, a seconda delle circostanze. Carson si trattenne in quell’area per diversi anni: la pelle di castoro era richiestissima e rappresentava un grosso business. Con gli indiani riuscì a stabilire quei rapporti di convivenza che nascono tra persone che fanno la stessa vita dura, che corrono gli stessi pericoli, che conoscono i lunghi periodi di solitudine delle montagne. Come ebbe a dire anni più tardi:

"... finchè consideravamo gli indiani nostri pari, le cose filavano abbastanza lisce. Noi cercavamo di cacciare, non di sterminare i castori, e di lasciare loro in pace. Loro sapevano apprezzare le nostre doti di coraggio e di lealtà. Questo non vuol dire che non scoppiarono mai conflitti, soprattutto con le bande di giovani guerrieri che sfuggivano al controllo dei loro capi anziani e volevano mostrare il loro valore in battaglia... ma questo non mi spinse mai a considerare gli indiani dei selvaggi... per molte tribù la guerra era una cosa normale, faceva parte del loro modo di vivere. Ma se vedevano che il nemico era valoroso e onesto, erano anche capaci di trovare degli accordi. Se venivano nella convinzione di essere ingannati, allora diventavano spietati...". Non erano solo teorie, visto che Kit Carson fece anche una cosa che per un uomo della Frontiera era, a dir poco, anticonformista: sposò una donna indiana, una Arapaho, da cui ebbe una figlia. E, attenzione, abbiamo parlato di anticonformismo perchè il "prendersi" una donna indiana per un po' di tempo era una cosa tutt'altro che inusuale. La si acquistava, come altre merci, da qualche capo tribù di pochi scrupoli, se ne faceva uso per qualche tempo, salvo poi rimandarla a casa, dove non avrebbe peraltro potuto trovare un marito indiano, essendo già stata di un uomo bianco.

BATTAGLIA CONTRO I COMANCHES E così molte di queste infelici finivano la loro avventura, respinte da bianchi e da indiani, in qualche bordello messicano, i cui tenutari erano sempre alla ricerca di questa "merce" che si poteva comprare per pochi dollari. Ben altra cosa era contrarre matrimonio con una donna indiana, in una società in cui l'inarrestabile espansione del "progresso" e la febbre dell'oro facevano maturare l'assioma che "l'unico indiano buono è l'indiano morto". Sposo di un'indiana, con una figlia mezzosangue, Kit Carson nella sua vita errabonda conobbe comunque la realtà dei combattimenti contro gli indiani e il suo nome cominciò ad entrare nella leggenda quando, non ancora trentenne, sostenne un'epica battaglia contro i Comanches, che lasciarono sul terreno una quarantina di guerrieri, ma non fecero nulla per fermare i tre cacciatori bianchi che erano riusciti a rompere il loro accerchiamento (lo stesso Carson e i suoi compagni Joe Meek e Bill Mitchell), convinti com'erano che questi andassero incontro a morte certa, avventurandosi nelle zone desertiche del Nevada.

 

 

 

Incursione dei "soldati blu" in un villaggio indiano

 

 

I tre uomini invece se la cavarono: affrontando una marcia di centoventi chilometri a piedi nel deserto per giungere a un pozzo. Smilzo, di bassa statura, Kit Carson aveva occhi azzurri, capelli (pochi) e baffi biondi. Non era certo il tipo fisico atletico del cow-boy a cui ci hanno abituato i film western classici. Del resto, cow-boy non fu mai. La sua fama se la conquistò soprattutto, l’abbiamo già accennato, come guida: e con questo incarico fu ingaggiato da un altro degli uomini che hanno "costruito" gli Stati Uniti: John Charles Fremont, ingegnere topografico dell'Esercito, che dal 1842 al 1848 comandò le spedizioni di esplorazione nei territori della California, dell'Oregon e Washington, nonchè in quelli dello Utah, dell'Idaho e dell'Arizona, e che percorse la zona delle Montagne Rocciose, raggiungendo il valico detto South Pass e conquistando la vetta che porta tuttora il suo nome, Fremont Peak. Per diversi anni Kit Carson e John Fremont furono amici inseparabili. Fremont, poi diventato senatore (morì senatore nel 1890), ebbe a dire di Kit Carson:

AVEVA UN FISICO DA RAGAZZO "... averlo come guida dava sicurezza a tutti gli uomini. Sembrava tutt'uno con i territori, per molti di noi del tutto sconosciuti, che attraversavamo. Se abbiamo avuto in quegli anni pochi scontri con gli indiani, lo dobbiamo soprattutto a lui; la sua fama di coraggio e di lealtà era già consolidata e colpiva molto i pellerossa, che quasi sempre accettavano di trattare con lui. Aveva un fisico da ragazzo, ma che sprigionava energia e determinazione..."

Nel periodo del sodalizio con Fremont, Kit Carson partecipa anche, come sottotenente dei fucilieri a cavallo, alla guerra contro il Messico del 46/47, il conflitto che si concluderà con la definitiva fissazione dei confini tra i due stati (fino ad allora molto mutevoli), con la cessione agli Stati Uniti della California e del Nuovo Messico e con la definizione del Rio Grande come confine del Texas.

La sua prima esperienza militare fu di breve durata, e si concluse con la fine della guerra contro il Messico, alla quale peraltro Kit Carson aveva partecipato come volontario, non avendo mai seguito i regolari corsi di West Point, l'accademia che formava gli ufficiali dell'Esercito degli Stati Uniti.

Con la guerra di secessione Kit Carson rientrò nei ranghi dell'esercito, sempre come volontario, schierandosi con gli unionisti del Nord, col grado di tenente colonnello, comandante del primo reggimento Volontari del Nuovo Messico. Non deve stupire questo "salto" veloce di carriera, perchè la ribellione degli stati del Sud impose alle forze armate americane, che avevano un numero di quadri estremamente ristretto, di "creare" ufficiali in modo alquanto improvvisato, sulla base del volontariato. Questa improvvisazione sarebbe stata del resto una delle cause della iniziale supremazia del Sud, che aveva una tradizione militare molto più consolidata (e che nel primo anno di guerra sembrava in grado di travolgere i numerosi, ma poco addestrati, soldati del Nord). Il tenente colonnello Kit Carson, promosso colonnello alla fine del 1861, ebbe nel 1863 il comando di Fort Stanton, tra i monti del Sacramento (in pieno territorio apache). Negli anni della guerra di secessione il ritiro delle truppe, richiamate a Nord per esigenze belliche, dai presidi del Sud-Ovest, aveva spinto gli Apaches a darsi a scorrerie che avevano fatto terra bruciata nelle zone del Texas e del Nuovo Messico. La riconquista di quei territori da parte delle truppe del Nord doveva "riportare ordine" nelle zone che si erano spopolate per il terrore degli assalti indiani

IGNORO’ GLI ORDINI CRUDELI Ma il concetto di "riportare ordine" del comandante nordista, il generale James Carleton, era molto particolare: "La regione va disinfestata da tutte le tribù indiane, indipendentemente dal fatto che siano o meno in guerra contro i bianchi... gli uomini devono essere uccisi in qualunque momento e in qualsiasi luogo vengano trovati. Donne e bambini possono essere presi prigionieri, ma naturalmente non devono essere uccisi." Era un vero e proprio ordine di genocidio, reso anche ipocrita da quel "possono essere presi prigionieri" riferito a donne e bambini. "Possono", non "devono".

Per fortuna degli indiani il principale esecutore a cui erano indirizzati quegli ordini disumani era il colonnello Kit Carson, che ancora una volta si dimostrò un uomo di coraggio e di onore. Semplicemente, questi ordini non li eseguì.

Il periodo di comando a Fort Stanton vide il nostro protagonista impegnato in molti combattimenti contro gli indiani, che valsero anche al colonnello Carson la promozione a generale di brigata. Quando deprechiamo la politica di sterminio voluta contro gli indiani, non vogliamo affermare che questi fossero solo ragazzacci un poco impetuosi: le atrocità ci furono, da ambo le parti. Ma da parte del colonnello Kit Carson, generale di brigata "brevet", non ci fu mai l'uccisione gratuita di uomini disarmati, discriminati sulla base del colore della pelle. Era il periodo in cui un uomo come il capo Mangas Coloradas, arrestato con un tranello dal capitano Shirland, veniva ucciso a freddo, già incatenato, da due soldati che gli sparavano su preciso ordine del colonnello West. Ma quando un altro grande capo indiano, Cochise, stanco di una guerra senza prospettive, andò a porgere il suo fucile al colonnello Kit Carson, questi si limitò a prendere l'arma, a stringere la mano all'indiano sconfitto e a mandare lui e i pochi guerrieri che lo seguivano in un campo di riserva poco distante da Fort Stanton.

STRINSE LA MANO ALL’INDIANO SCONFITTO In un combattimento leale uno dei due sarebbe di sicuro rimasto sul terreno: ma Kit Carson non poteva eseguire un ordine che disonorava non solo la divisa militare, ma la stessa umanità. La grande popolarità di Kit Carson gli permise di rimettere quell'ordine che era possibile rimettere in territorio apache ignorando gli ordini del generale Carleton. Del resto il generale a sua volta doveva rispondere delle proprie azioni a un governo, presieduto da Abramo Lincoln, che non ebbe mai la forza di destituirlo, ma che non poteva più di tanto avallare, almeno in via ufficiale, una politica di sterminio. Come a tutti gli ufficiali dei volontari, al termine della Guerra di Secessione fu offerto a Kit Carson di restare nell'esercito con un grado inferiore a quello "brevet": e col grado di tenente colonnello, ora in servizio permanente, la piccola indomita guida del Missouri vestì ancora per un anno la divisa, congedandosi definitivamente il 22 novembre 1867. Non era certo vecchio, avendo 58 anni. Ma erano gli anni di una vita vissuta senza un attimo di sosta, di un'avventura continua; una vita piena, ma logorante. E meno di un anno dopo, il 23 maggio 1868, Kit Carson, a Fort Lyon, nel Colorado perse per la prima volta una battaglia: lui, che aveva visto la morte in faccia in combattimento tante volte, morì in un letto per una malattia polmonare.

FRA LE NUVOLE, CON TORO SEDUTO Gianluigi Bonelli, il famosissimo papà di Tex Willer, ha voluto da sempre affiancare al suo eroe un amico inseparabile: Kit Carson, aitante anzianotto, pistola infallibile, pugno d'acciaio, maggiore a riposo dei ranger del Texas, gran divoratore di bistecche e patate fritte. Cosa c'entra col vero Kit Carson? Niente. Del resto Rino Albertarelli, il più famoso disegnatore italiano di storie western, disse esplicitamente di aver scelto Kit Carson come eroe di una lunga serie di fumetti unicamente perchè "... quello che mi piaceva era il nome, tre sillabe con l'accento forte su quella centrale: un nome ideale da eroe fumettistico, come Flash Gordon o Dick Tracy..."

Kit Carson, da lassù, si sarà limitato a scrollare un po' la testa. E probabilmente, facendo quattro passi tra le nuvole con l'amico Fremont e con Toro Seduto, avrà borbottato: "Ma cosa ne sanno, quei ragazzi laggiù, di cosa sia stato realmente il West...".


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Arvin Sloane
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Inviato il 10 dicembre 2005 10:13

Complimenti Gio. Veramente notevole e interessante l'articolo su Beria e sulla situazione della Russia di quegli anni !!! :mellow::):(^_^


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