Entra Registrati
la storia segreta!
M di Morgil
creato il 30 giugno 2005

Questa discussione è stata archiviata, non è più possibile rispondere.
M
Malkex
Confratello
Utente
2028 messaggi
Malkex
Confratello

M

Utente
2028 messaggi
Inviato il 10 settembre 2005 11:47
ah,ogni tanto spunta qualcuno!!!XDDDDD

sono sempre in agguato ^_^


M
Morgil
Confratello
Utente
5307 messaggi
Morgil
Confratello

M

Utente
5307 messaggi
Inviato il 10 settembre 2005 14:04 Autore

ho intenzione di cercare cose su martin lutero!


M
Malkex
Confratello
Utente
2028 messaggi
Malkex
Confratello

M

Utente
2028 messaggi
Inviato il 10 settembre 2005 14:07

bell'argomento,mi ha sempre affascinato.considero Lutero un grande,anche se alla fine lui non fu nient'altro che un completatore dell'opera iniziata da Wycliff e Huss,a loro volta portatore delle idee di Guglielmo d'Occam(ancora a sua volta fervido agostiniano).


S
Ser Loras Tyrell
Confratello
Utente
5543 messaggi
Ser Loras Tyrell
Confratello

S

Utente
5543 messaggi
Inviato il 11 settembre 2005 4:30

La verità sull'Inquisizione spagnola

di Thomas F. Madden

 

Articolo in lingua originale comparso in Crisis, Vol. 21, n. 9 Ottobre 2003

 

La scena è una stanza disadorna con una porta alla sinistra. Un giovane di bell'aspetto, infastidito da domande tediose ed irrilevanti esclama, con tono frustrato, "non mi aspettavo una specie di Inquisizione spagnola". Improvvisamente la porta si spalanca, rivelando il cardinale Ximinez, affiancato dal cardinale Fang e dal cardinale Biggles. "Nessuno si aspetta l'Inquisizione spagnola! - urla Ximinez - La nostra arma principale è la sorpresa ... sorpresa e paura ... paura e sorpresa ... Le nostre due armi sono paura e sorpresa ... ed efficienza spietata ... Le nostre tre armi sono paura, sorpresa ed efficienza spietata ... ed una devozione quasi fanatica al papa ... I nostri quattro ... no ... Fra le nostre armi ... nel nostro armamento ... elementi come paura, sorpresa ... Farò un'altra entrata".

 

Chiunque non abbia vissuto sotto una pietra, negli scorsi 30 anni, probabilmente riconoscerà questa scena dal Flying Circus di Monty Python. In questi sketch tre inetti inquisitori vestiti di rosso torturano le loro vittime con strumenti come cuscini e imbottiture di poltrone. La cosa è divertente perché il pubblico sa bene che l'Inquisizione spagnola non era né inetta né morbida, ma spietata, intollerante e letale. Non c'è bisogno di avere letto Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe, per avere qualche nozione delle buie prigioni sotterranee, degli ecclesiastici sadici e delle torture spietate dell'Inquisizione spagnola. Il cavalletto, la vergine di ferro e i roghi ai quali la Chiesa cattolica condannò i suoi nemici sono tutte icone dell'Inquisizione spagnola ormai familiari, saldamente impresse nella nostra cultura.

 

Questa immagine dell'Inquisizione spagnola è utile per coloro che non nutrono molto amore verso la Chiesa cattolica. Chiunque desideri colpire la Chiesa non tarderà molto ad afferrare i due bastoni favoriti: le Crociate e l'Inquisizione spagnola. Chi scrive ha già trattato le Crociate in un numero precedente di Crisis (aprile 2002). Esaminiamo ora l'altro bastone.

 

Per capire l'Inquisizione spagnola, che ebbe inizio sul finire del 15° secolo, dobbiamo dare una rapida occhiata alla sua antesignana, l'Inquisizione medievale. Prima di farlo, tuttavia, è importante premettere che il mondo medievale non era il mondo moderno. Per la gente del Medio Evo la religione non era qualcosa da sbrigare solo in chiesa. Era la loro scienza, la loro filosofia, la loro politica, la loro identità e la loro speranza di salvezza. Non era una preferenza personale del singolo, ma una indiscutibile verità universale. L'eresia, quindi, colpiva al cuore quella verità. Inoltre dannava l'eretico, metteva in pericolo chi gli stava accanto e lacerava il tessuto della comunità. Gli europei medievali non erano soli, sotto questo profilo. Il loro atteggiamento era condiviso da tante culture, in tutto il mondo. La moderna pratica della tolleranza religiosa è relativamente nuova e, in ogni caso, solo occidentale.

 

Le autorità secolari ed ecclesiastiche dell'Europa medievale affrontarono l'eresia in modi diversi. Il diritto romano equiparava l'eresia al tradimento. Perché? Perché la sovranità era tale per delega divina, dimodoché all'eresia era inerente una sfida all'autorità reale. Gli eretici dividevano il popolo, fomentando agitazioni e disordini. Nessun cristiano dubitava del fatto che Dio castigasse una comunità la quale permetteva all'eresia di radicarsi e di crescere. Sia il re che il cittadino comune perciò avevano le loro buone ragioni per cercare e distruggere gli eretici dovunque li avessero scovati. E lo facevano con piacere.

 

Uno dei miti più durevoli dell'Inquisizione è il suo essere uno strumento di oppressione imposto su europei maldisposti da una Chiesa ambiziosa. Nulla potrebbe essere più sbagliato. In realtà l'Inquisizione portò ordine e giustizia, impedendo le esecuzioni sommarie degli eretici. Quando gli abitanti di un villaggio acciuffavano un sospettato d'eresia e lo portavano di fronte al signore locale, come sarebbe stato possibile un giudizio? Come avrebbe potuto un laico analfabeta definire le credenze dell'accusato eretiche o no? E in che modo i testimoni sarebbero stati ascoltati e vagliati?

 

L'Inquisizione medievale data dal 1184, anno in cui Papa Lucio III inviò un elenco di eresie ai vescovi dell'Europa e ordinò loro di assumere un ruolo attivo nel determinare se gli accusati di eresia fossero effettivamente colpevoli. Piuttosto che contare su corti secolari, signori locali o addirittura rischiare linciaggi a furor di popolo, i vescovi erano invitati a verificare le accuse di eresie nelle loro stesse diocesi, tramite l'esame di ecclesiastici competenti che sapessero servirsi del diritto romano. In altre parole, che sapessero condurre un'"inchiesta" (donde il termine "inquisizione").

 

Dalla prospettiva dell'autorità secolare, gli eretici erano traditori di Dio e del re e pertanto meritavano la morte. Dalla prospettiva della Chiesa, invece, gli eretici erano pecorelle smarrite, allontanatesi dal gregge. In quanto pastori, il papa e i vescovi avevano il dovere di ricondurre quelle pecore all'ovile, così come il Buon Pastore aveva comandato loro. Quindi, laddove i sovrani tentavano di salvaguardare i loro regni, la Chiesa cercava di salvare anime. L'Inquisizione offrì agli eretici una scappatoia per evitare la morte e far ritorno alla comunità.

 

La maggior parte degli accusati di eresia dall'Inquisizione medievale o fu assolta o la loro sentenza sospesa. A quelli trovati colpevoli di errori gravi fu permesso di confessare il loro peccato, fare penitenza ed essere ripristinati nel Corpo di Cristo. L'assunto fondamentale dell'Inquisizione era che, in quanto pecore smarrite, gli eretici avevano semplicemente deviato. Tuttavia, se un inquirente avesse stabilito che una determinata pecora si era volontariamente rivoltata contro il gregge, non ci sarebbe stato più nulla da fare. Gli eretici impenitenti od ostinati furono scomunicati e consegnati alle autorità secolari. Ad onta del mito popolare, la Chiesa non bruciò alcun eretico. Era l'autorità secolare a considerare l'eresia meritevole della pena capitale. Il fatto puro e semplice è che l'Inquisizione medievale salvò innumerevoli migliaia di innocenti (ed anche di non esattamente innocenti) che sarebbero altrimenti finiti arrostiti dai signori locali o trucidati sommariamente dai popolani.

 

Col crescere del potere dei papi medievali crebbe l'estensione e la sottigliezza dell'Inquisizione. L'introduzione dei francescani e dei domenicani, agli albori del 13° secolo, fornì al papato un corpo religioso dedicato, che votò le vite dei suoi componenti alla salvezza del mondo. Poiché il loro ordine era stato creato espressamente per combattere gli eretici e predicare la fede cattolica, i domenicani si fecero particolarmente attivi nell'Inquisizione. In accordo alla legge più progressista del tempo la Chiesa, nel 13° secolo, eresse tribunali inquisitivi dipendenti da Roma, piuttosto che dai vescovi locali. Per garantire rispetto dei diritti ed uniformità di trattamento, furono scritti manuali per gli inquisitori. Bernardo Gui, oggi meglio conosciuto come il fanatico e crudele inquisitore de Il nome della rosa, scrisse un manuale molto influente, all'epoca. Non c'è nessuna ragione di credere che Gui fosse qualcosa di simile al suo ritratto romanzato.

 

Dal 14° secolo, l'Inquisizione poté vantare le migliori competenze legali disponibili sulla piazza. Gli ufficiali dell'Inquisizione erano laureati e specializzati in legge e teologia. Le procedure erano simili a quelle usati nelle indagini secolari (noi le chiamiamo "inchieste" oggi, ma - come si diceva - è la stessa parola).

 

Il potere dei re aumentò drasticamente nel tardo Medio Evo. I sovrani sostennero con forza l'Inquisizione, perché la reputavano un modo efficiente di conservare la salute religiosa dei loro regni. Addirittura alcuni re biasimarono l'Inquisizione, per la sua eccessiva clemenza nei confronti degli eretici. Come in altre aree di pertinenza ecclesiastica, le autorità secolari del tardo Medio Evo presero ad appropriarsi dell'Inquisizione, sottraendola al controllo papale. In Francia, per esempio, furono ufficiali reali, assistiti da studiosi legali dell'Università di Parigi, a farsi carico dell'Inquisizione francese. I re giustificavano questo atteggiamento col dire che la loro conoscenza degli eretici, nei loro stessi regni, era migliore di quella di un papa lontano.

 

Queste dinamiche potrebbero aiutare ad inquadrare l'Inquisizione spagnola, ma ce ne sono ben altre. La Spagna differiva sotto molti aspetti dal resto dell'Europa. Conquistata dalla guerra santa (il jihad) musulmana nell'ottavo secolo, la penisola iberica era stata un continuo teatro di guerra. Poiché i confini tra musulmani e cristiani si spostavano rapidamente nel corso dei secoli, era preciso interesse legislativo applicare un equo livello di tolleranza verso altre religioni. La capacità di vivere insieme di musulmani, cristiani ed ebrei (detta "convivencia" in spagnolo) era una rarità, nel Medio Evo. Effettivamente, la Spagna era il luogo più eterogeneo e tollerante di tutta l'Europa medievale. L'Inghilterra espulse tutti i suoi ebrei nel 1290. La Francia fece altrettanto nel 1306. Invece in Spagna gli ebrei prosperavano ad ogni livello sociale.

 

Ma forse era inevitabile che le ondate di antisemitismo che spazzarono l'Europa medievale travolgessero anche la Spagna. L'invidia, l'avidità e la fraudolenza condussero a tensioni crescenti tra cristiani ed ebrei, nel 14° secolo. Durante l'estate del 1391 nutriti gruppi di facinorosi irruppero nei quartieri ebrei di Barcellona e di altre città simili, costringendo gli abitanti a scegliere tra il battesimo o la morte. La maggior parte accettò il battesimo. Il re d'Aragona, che aveva fatto del suo meglio per fermare queste incursioni, consapevole della non validità di un battesimo forzato, decretò che ogni ebreo battezzato in alternativa alla morte avrebbe potuto tornare alla propria religione.

 

Ma molti di questi neoconvertiti ("conversos") decisero di rimanere cattolici. C'erano molte ragioni per questo. Alcuni pensavano che l'apostasia li avesse resi inidonei al giudaismo. Altri si preoccupavano dell'evenienza per cui il ritorno alla loro religione precedente li avrebbe resi vulnerabili ad aggressioni future. Altri ancora ritennero il loro battesimo un modo per evitare l'aumento di restrizioni e di tasse imposto agli ebrei. Col passar del tempo i conversos si assestarono nella nuova religione, finendo col diventare giusti e pii come gli altri cattolici. I loro bambini venivano battezzati al momento della nascita e crescevano come cattolici. Ma l'ambiente culturale restò ibrido. Sebbene cristiani, numerosi conversos ancora parlavano, vestivano e mangiavano come gli ebrei. Molti rimasero nei quartieri ebrei per poter essere vicini agli altri membri della famiglia. In definitiva, la presenza dei conversos sortì l'effetto di cristianizzare il giudaismo spagnolo. Ciò, a sua volta, accrebbe il numero delle conversioni volontarie al cattolicesimo.

 

Nel 1414 si ebbe un dibattito, nella città di Tortosa, tra autorità cristiane ed ebree. Lo stesso papa Benedetto XIII intervenne. Da parte cristiana c'era il medico papale, Jerónimo de Santa Fe, convertitosi recentemente dal giudaismo. Il dibattito provocò un'ondata di nuove conversioni volontarie. Nella sola Aragona 3.000 ebrei ricevettero il battesimo. Tutto ciò causò non poca tensione tra coloro che rimasero ebrei e quelli che si fecero cattolici. I rabbini spagnoli che, dopo il 1391, consideravano i conversos ebrei a tutti gli effetti, in quanto costretti al battesimo, dal 1414 li ritennero autentici cristiani, che avevano lasciato volontariamente il giudaismo.

 

Dalla metà del 15° secolo, una cultura giudaico-cristiana interamente nuova fiorì in Spagna, ebrea di sangue, ma cattolica di spirito. I conversos, neoconvertiti o discendenti di convertiti che fossero, ebbero un peso enorme in questa cultura. Alcuni di loro si consideravano addirittura migliori dei "vecchi cristiani", perché legati da vincoli di sangue a Cristo stesso. Il vescovo, convertito, di Burgos, Alonso de Cartagena, pregando la Beata Vergine, avrebbe detto con orgoglio "Santa Maria, Madre di Dio e parente mia, prega per noi peccatori".

 

Lo sviluppo in ricchezza e potenza dei conversos spagnoli condusse a più d'una frizione, particolarmente fra i vecchi cristiani aristocratici e borghesi, che ebbero a risentirsi dell'arroganza dei conversos, invidiandone i successi. Cominciarono a circolare scritti che mostravano come ogni nobile lignaggio in Spagna fosse ormai inficiato dalla presenza dei conversos. La psicosi della cospirazione semitica dilagava. I conversos, si diceva, facevano parte di una trama ebrea elaborata per infiltrarsi tra la nobiltà spagnola e la Chiesa cattolica, distruggendole entrambe. I conversos, secondo questa logica, non erano cristiani veri, ma ebrei camuffati.

 

Studi recenti hanno definitivamente mostrato che, come tante ipotesi di cospirazione, tutto ciò era pura immaginazione. La stragrande maggioranza dei conversos era composta da buoni cattolici, semplicemente orgogliosi della loro eredità ebrea. Sorprendentemente molti scrittori moderni - molti scrittori ebrei, per la verità - hanno abbracciato queste fantasie antisemitiche. È abbastanza comune, oggi, sentir dire che i conversos erano davvero ebrei, in segreto, che lottavano per preservare la loro fede sotto la tirannia del cattolicesimo. Anche l'American Heritage Dictionary traduce "converso" con "ebreo spagnolo o portoghese convertitosi esteriormente al cristianesimo, nel tardo Medio Evo, per evitare la persecuzione o l'espulsione, pur continuando a praticare il giudaismo in segreto". Questo è semplicemente falso.

 

Ma il ripetersi delle accuse convinse re Ferdinando e la regina Isabella della necessità di investigare, quanto meno, sulla questione degli ebrei segreti. Rispondendo alla loro richiesta, papa Sisto IV emanò una bolla, il 1° novembre del 1478, che autorizzava la Corona a formare un tribunale inquisitivo consistente in due o tre ecclesiastici, la cui età non fosse inferiore ai 40 anni. Come era costume, i monarchi avrebbero avuto piena autorità e sugli inquisitori e sull'Inquisizione. Ferdinando, che aveva a corte molti ebrei e conversos, inizialmente non fu per nulla entusiasta della cosa. Lasciò trascorrere due anni, prima di nominare due inquisitori. E così cominciò l'Inquisizione spagnola.

 

Re Ferdinando sembra aver creduto che l'Inquisizione non avrebbe funzionato granché. Aveva torto. Come una bottiglia molotov lanciata su un pagliaio, il risentimento di coloro che odiavano i conversos - cristiani ed ebrei insieme - divampò nelle lingue di fuoco della denuncia lungo tutta la Spagna. Ma l'istigazione all'odio proveniva, essenzialmente, dall'invidia e dall'opportunismo. Ciò nonostante, il volume puro e semplice delle accuse sommerse gli inquirenti, che chiesero e ricevettero più assistenti. Ma, più grande si faceva l'Inquisizione, più accuse riceveva. Alla fine anche Ferdinando si convinse che il problema degli ebrei segreti era concreto.

 

In questa fase iniziale dell'Inquisizione spagnola, gli ebrei ed i vecchi cristiani usavano i tribunali come un'arma, contro i conversos loro nemici. Finché l'obiettivo dell'Inquisizione era investigare sui conversos, i vecchi cristiani non avevano niente da temere. La loro fedeltà alla fede cattolica non era sotto indagine (anche se fosse stata lontana dall'esser pura). Come gli ebrei, erano immuni dall'Inquisizione. Si ricordi che lo scopo dell'Inquisizione era trovare e correggere la pecora smarrita del gregge di Cristo. Non aveva giurisdizione sugli altri greggi. Quelli che imparano la storia dalla Storia del Mondo di Mel Brooks, Parte 1a, saranno forse sorpresi di sapere che tutti quegli ebrei che sopportarono varie torture nelle prigioni sotterranee dell'Inquisizione spagnola non sono nulla più di un prodotto della fertile fantasia di Brooks. Gli ebrei di Spagna non avevano nulla da temere dall'Inquisizione spagnola.

 

All'inizio, nel veloce sovrapporsi degli eventi, c'era gran confusione. Si verificarono abusi. Molti dei conversos accusati vennero assolti, ma non tutti. Qualche rogo ben pubblicizzato - per lo più dovuto a false testimonianze - spaventò comprensibilmente i conversos. Chi temeva qualche inimicizia abbandonava la sua città prima di poter essere denunciato. Dovunque guardassero, gli inquisitori trovavano accusatori. Quando l'Inquisizione esplose in Aragona, il livello di isteria toccò altezze inusitate. Papa Sisto IV tentò di porre un freno. Il 18 aprile 1482 scrisse ai vescovi della Spagna:

 

In Aragona, Valenza, Maiorca e Catalogna, l'Inquisizione è stata talvolta mossa non da zelo per la fede e per la salvezza delle anime, ma da avidità di ricchezza. Molti veri e fedeli cristiani, sulla base della testimonianza di nemici, rivali, schiavi ed altri individui d'infima condizione, sono stati, senza alcuna prova legittima, gettati in prigione, torturati e condannati come eretici recidivi, privati dei loro beni e delle loro proprietà e consegnati al braccio secolare per essere giustiziati, mettendo a repentaglio le anime, offrendo un esempio pernicioso e generando disgusto in molti.

 

Sisto ordinò che i vescovi assumessero un ruolo diretto in tutti i tribunali futuri, a garanzia che le norme di giustizia stabilite dalla Chiesa (l'accusato poteva disporre di un avvocato ed aveva diritto di appellarsi a Roma) venissero rispettate.

 

Nel Medio Evo i comandi del papa sarebbero stati rispettati. Ma quei giorni se n'erano andati. Re Ferdinando si sentì oltraggiato, nel sentir parlare della lettera. Scrisse a Sisto, insinuando che l'oro dei conversos avesse corrotto anche Roma:

 

Mi sono state riferite cose, Santo Padre, che, se vere, sembrerebbe meritare il più grande stupore. [...]. A queste dicerie, comunque, noi non abbiamo dato credito, sembrando cose che in nessun modo possano provenire da Sua Santità, che ha il dovere dell'Inquisizione. Ma se, per caso, alcune concessioni sono state fatte, grazie alla tenace ed astuta persuasione dei conversos, io non intendo in alcun modo permetter loro di avere effetto. Faccia perciò attenzione a che la questione non proceda oltre, revochi eventuali concessioni e ci affidi interamente la cura di questo problema.

 

Fu la fine del ruolo del Papato nell'Inquisizione spagnola, che sarebbe stata d'ora innanzi un braccio della monarchia spagnola, indipendente dall'autorità ecclesiastica. È strano, quindi, che l'Inquisizione spagnola venga oggi così spesso descritta come uno dei grandi peccati della Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica, in quanto istituzione, non ebbe pressoché niente a che farci.

 

Nel 1483 Ferdinando nominò Tomás de Torquemada inquisitore generale sulla maggior parte della Spagna. Era compito di Torquemada stabilire le regole dell'evidenza, nella procedura per l'Inquisizione, unificando la prassi con diramazioni nelle città principali. Sisto confermò la nomina, sperando che avrebbe riportato all'ordine la situazione.

 

Sfortunatamente il problema precipitò. Il che era una conseguenza diretta dei metodi adottati dalla prima Inquisizione spagnola, che aveva deviato significativamente dagli standard imposti dalla Chiesa. Quando gli inquisitori arrivavano in una zona, annunciavano l'Editto di Grazia, un periodo di 30 giorni durante il quale gli ebrei segreti potevano farsi avanti, confessare il loro peccato e fare penitenza. Era anche un periodo utile per acquisire informazioni sui cristiani che praticavano il giudaismo in segreto. Quelli trovati colpevoli, allo scadere dei 30 giorni, potevano essere bruciati sul rogo.

 

Per i conversos, sicché, l'arrivo dell'Inquisizione segnò un tracollo psichico. Quasi tutti avevano molti nemici, ciascuno dei quali difficilmente avrebbe esitato a testimoniare il falso. O forse le loro pratiche cultuali e culturali erano sufficienti per la condanna? Chissà? La maggior parte di loro o fuggì o finì per confessare. Quelli che lo fecero non rischiarono un'Inquisizione in cui era accettabile, a mo' di prova, ogni sorta di diceria.

 

L'opposizione all'Inquisizione spagnola, nella gerarchia della Chiesa cattolica, continuava ad aumentare. Molti ecclesiastici si indignarono nel segnalare come fosse contrario a tutte le prassi ormai consolidate il bruciare un eretico senza fornirgli le istruzioni basilari della fede. Se i conversos erano colpevoli, ciò era dovuto solo ad ignoranza, non ad eresia recidiva. Numerosi esponenti del clero, anche dei livelli più alti, si lamentarono con Ferdinando. L'opposizione all'Inquisizione spagnola crebbe anche a Roma. Il successore di Sisto, Innocenzo VIII, scrisse due volte al re per invocare la più grande compassione, misericordia e clemenza per i conversos. Invano.

 

Nel vortice crescente dell'Inquisizione spagnola, a questo punto, prese piede una nuova sindrome, quella per cui gli ebrei di Spagna stavano attivamente operando per ricondurre i conversos nella loro vecchia fede. Era un'idea sciocca, non più vera delle precedenti teorie di cospirazione. Ma Ferdinando ed Isabella ne furono influenzati. Entrambi i monarchi avevano amici e confidenti ebrei, ma pensarono loro dovere, nei confronti dei cristiani, rimuovere il pericolo. A partire dal 1482, espulsero gli ebrei dalle aree in cui la loro influenza sembrava maggiore. Nella decade successiva la pressione per rimuovere tale minaccia aumentò ancora. L'Inquisizione spagnola, fu argomentato, non sarebbe mai riuscita a ricondurre i conversos nell'ovile, mentre gli ebrei sabotavano il suo lavoro. Il 31 marzo 1492, finalmente, i monarchi pubblicarono un editto che espelleva tutti gli ebrei dalla Spagna.

 

Ferdinando ed Isabella si aspettavano - e non avevano torto - che il loro editto avrebbe spinto alla conversione la maggior parte degli ebrei rimasti nel regno. Infatti molti ebrei dei ceti più abbienti, inclusi quelli introdotti nella corte reale, accettarono immediatamente il battesimo. Nel 1492 la popolazione ebrea di Spagna contava approssimativamente 80.000 unità. Una buona metà fu battezzata, col che mantenne la proprietà ed il relativo sostentamento. Il resto partì, sebbene molti facessero poi ritorno in Spagna, dove ricevettero il battesimo e riottennero la loro proprietà. Per quanto si voglia risalire lungo la storia dell'Inquisizione spagnola, l'espulsione degli ebrei dimostra che il problema era rappresentato solo dai conversos.

 

I primi 15 anni dell'Inquisizione spagnola, sotto la direzione di Torquemada, furono i più mortali. Circa 2.000 conversos furono dati alle fiamme. Dal 1500, tuttavia, l'isterismo prese a calare. Il successore di Torquemada, il cardinale arcivescovo di Toledo Francisco Jiménez de Cisneros, si prodigò per riformare l'Inquisizione, rimuovendo le mele marce e aggiustando le procedure. Ad ogni tribunale fu assegnata una équipe formata da due inquisitori domenicani, un consulente legale, un conestabile, un accusatore ed un gran numero di assistenti. Con l'eccezione dei due domenicani, tutti erano laici ufficiali reali. L'Inquisizione spagnola consistette fondamentalmente nelle confische, ma si trattò di confische né frequenti né ingenti. Anche al suo culmine, cercava soprattutto di non strafare, di quadrare i conti.

 

Dopo le riforme, l'Inquisizione spagnola subì pochissime critiche. Fornita di personale legale esperto e colto, era uno dei corpi giudiziari più efficienti e più compassionevoli d'Europa. Nessuna corte europea di rilievo giustiziò meno persone dell'Inquisizione spagnola. Erano tempi, dopo tutto, in cui danneggiare arbusti in un giardino pubblico, a Londra, comportava la pena di morte. Lungo tutta l'Europa le esecuzioni erano eventi di ogni giorno. Non fu così con l'Inquisizione spagnola. Nei suoi 350 anni di vita non più di 4.000 persone furono messe al palo. Si paragoni ciò con le cacce alle streghe che infuriarono in tutto il resto d'Europa cattolico e protestante, nelle quali furono arrostite 60.000 persone, per lo più donne. La Spagna fu risparmiata da questo isterismo perché l'Inquisizione spagnola lo fermò al confine. Quando le prime accuse di stregoneria cominciarono a levarsi, nella Spagna settentrionale, l'Inquisizione spedì i suoi ispettori per controllare. Questi esperti legali non trovarono alcuna evidenza credibile per il sabba infernale, la magia nera o il sacrificio umano. Fu altresì riportato che i rei confessi di stregoneria mostravano una singolare incapacità di volare attraverso il buco della serratura. Mentre gli europei si dedicavano al lancio delle donne sui falò, l'Inquisizione spagnola sbarrò la porta a questa alienazione mentale (per inciso, neppure l'Inquisizione romana permise alla fobìa delle streghe di infettare l'Italia).

 

E le oscure prigioni sotterranee? E le camere di tortura? L'Inquisizione spagnola possedeva prigioni, naturalmente. Ma non erano né particolarmente oscure, né sotterranee. In realtà, dato lo standard delle prigioni dell'epoca, erano considerate addirittura le migliori d'Europa. Si può citare l'esempio dei criminali, nella stessa Spagna, che bestemmiavano a bella posta per poter essere trasferiti nelle prigioni dell'Inquisizione. Circa l'altro argomento, come tutte le corti d'Europa, anche l'Inquisizione spagnola si servì della tortura. Ma lo faceva molto meno spesso delle altre corti. I ricercatori moderni hanno scoperto che l'Inquisizione spagnola applicò la tortura nel solo due per cento dei suoi casi. Che ogni sessione di tortura fu limitata ad un massimo di 15 minuti. Che solo nell'un per cento dei casi la tortura fu ripetuta due volte e mai per una terza volta.

 

La conclusione inequivocabile è che, visti i tempi, l'Inquisizione spagnola va vista sotto una nuova luce. E tale era la luce sotto cui era vista dai più degli europei, fino al 1530. Fu da allora in poi che l'Inquisizione spagnola volse la sua attenzione dai conversos alla nuova Riforma protestante. La gente di Spagna e i suoi monarchi si impegnarono a che il Protestantesimo non si infiltrasse nel loro paese, come aveva fatto in Germania e in Francia. I metodi dell'Inquisizione non cambiarono. Esecuzioni e torture rimasero rare. Ma il suo nuovo obiettivo avrebbe cambiato la sua immagine per sempre.

 

Nella metà del secolo sedicesimo, la Spagna era il più ricco e il più potente stato d'Europa. Re Filippo II considerò se stesso ed i suoi contadini difensori fedeli della Chiesa cattolica. Meno ricche e meno potenti erano le aree protestanti dell'Europa, compresi i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e l'Inghilterra. Ma avevano un'arma nuova e potente: la pressa tipografica. Anche se i protestanti fossero stati sconfitti dagli spagnoli sul campo di battaglia, avrebbero vinto la guerra di propaganda. Furono quelli gli anni in cui venne forgiata la famosa "Leggenda Nera" della Spagna. Innumerevoli libri, opuscoli e pamphlet si riversarono dalle stamperie settentrionali accusando l'Impero spagnolo di inumane depravazioni e di orribili atrocità nel Mondo Nuovo. L'opulenta Spagna fu dipinta come un luogo di oscurità, ignoranza e perversione. Per quanto gli studiosi moderni abbiano già da tempo ripudiato la Leggenda Nera, ancora ne rimane moltissimo, oggi. Basta fare un rapido test: "pensa ad un buon conquistador".

 

La propaganda protestante contro l'Inquisizione spagnola ha attinto a piene mani dalla Leggenda Nera. Ma disponeva anche di altre fonti. All'inizio della Riforma, i protestanti avevano non poche difficoltà nello spiegare i motivi della frattura tra l'istituzione di Cristo della Sua Chiesa e la fondazione delle chiese protestanti. I cattolici naturalmente insistevano su questo tasto, accusando i protestanti di avere creato una chiesa nuova, separata da quella di Cristo. I protestanti ribattevano col dire che era la loro chiesa quella creata da Cristo, e che era stata la Chiesa cattolica a costringerla nei sotterranei delle 'catacombe'. Dimodoché, come l'Impero romano aveva perseguitato i cristiani prima del Medio Evo, così il suo successore, la Chiesa Cattolica Romana, continuava a perseguitarli durante il Medio Evo. Non essendo purtroppo reperibili esemplari di protestanti, nel Medio Evo, gli autori protestanti li scovarono sotto le mentite spoglie di vari eretici medievali (che, tutto sommato, vivevano nelle 'catacombe' della latitanza). Vista così, l'Inquisizione medievale non era che un tentativo di schiacciare la nascosta, vera chiesa. E l'Inquisizione spagnola, ancora attiva ed estremamente efficiente nel tenere i protestanti alla larga dalla Spagna, non era che l'ultima versione di questa persecuzione. Si mescoli il tutto, a volontà, con la Leggenda Nera, e si ottiene ciò di cui si ha bisogno per confezionare l'orrendo ritratto dell'Inquisizione spagnola. È quanto fu fatto.

 

Gli spagnoli amavano la loro Inquisizione. Ecco perché durò così a lungo. Era una sentinella eretta a guardia contro l'errore e l'eresia, a tutela della fede della Spagna e a garanzia del favore di Dio. Ma il mondo stava cambiando. Il potere della Spagna si affievoliva. La ricchezza ed il potere si trasferivano nel nord, in particolare in Francia e in Inghilterra. Nel tardo 17° secolo, le idee nuove sulla tolleranza religiosa cominciavano a lievitare nelle bolle iridescenti dei caffè e dei salotti europei. L'Inquisizione, cattolica e protestante, appassiva. Gli spagnoli caparbiamente insistevano, con la loro, e perciò venivano ridicolizzati. I philosophes francesi alla Voltaire vedevano nella Spagna il prototipo del Medio Evo: debole, barbaro, superstizioso. L'Inquisizione spagnola, ormai catalogata come una belva assetata del sangue della persecuzione religiosa, era derisa dai pensatori illuministi come arma brutale dell'intolleranza e dell'ignoranza. Un'Inquisizione spagnola inedita, fittizia, virtuale, fu quella romanzata dai nemici della Spagna e della Chiesa cattolica.

 

Essendo professionale ed efficiente, l'Inquisizione spagnola stilava resoconti molto ben curati. Archivi enormi ne sono stipati. Questi documenti erano tenuti segreti, sicché non c'era motivo, per gli scrivani, di omettere qualcosa, nella registrazione accurata di ogni azione inquisitoria. Rappresentano una miniera d'oro, per gli storici moderni, che vi si sono immersi avidamente. Il frutto di tali ricerche è l'aver fatto piazza pulita: il mito dell'Inquisizione spagnola non ha assolutamente nulla a che vedere con la realtà.

 

 

 

Thomas F. Madden è professore associato e preside della cattedra di Storia della Saint Louis University. È autore di numerosi lavori, tra i quali "Storia concisa delle Crociate" (Rowman & Littlefield, 1999) e "Enrico Dandolo e l'ascesa di Venezia" (John Hopkins University Press, 2003).

 

Copyright Crisis Magazine © 2001 Washington DC, USA 1 ottobre 2003


S
Ser Loras Tyrell
Confratello
Utente
5543 messaggi
Ser Loras Tyrell
Confratello

S

Utente
5543 messaggi
Inviato il 11 settembre 2005 4:41

La tortura

di Roberto Lanzilli

 

Tra gli aspetti qualificanti l'Inquisizione la tortura, con il rogo, sembra occupare il primo posto nell'immaginario collettivo, a tal punto da coincidere con l'Inquisizione stessa. Complice di questa visione riduttiva e distorta soprattutto una certa pubblicistica. Il risultato? Si pensa alla tortura inquisitoriale come ad una delle più crudeli, applicata da monaci sadici davanti a giudici spietati, ovviamente in un ambiente "tra i più suggestivi" - Le cose sono diverse In primo luogo va Ceno che la tortura era di uso normalissimo nella giustizia dell'antico regime e che i tribunali laici la impiegarono sino al XVIII secolo Ivi, le pene inflitte (bruciature, frustate, mutilazioni) servivano per punire, interrogare e come deterrente. La tortura, estranea al diritto canonico, è ammessa per la prima volta nell'ordinamento giudiziario della Chiesa da Papa Innocenzo III che nel 1252 ne disciplino rigorosamente l'uso con la bolla Ad extirpanda. Quali erano i soggetti indispensabili? L'inquisitore, il vescovo del luogo, un medico, un notaio della diocesi - una novità per l'epoca -, con l'obbligo di mettere per iscritto tutte le domande, le risposte, il tipo di torture, etc. e chi (un laico) le eseguiva. Vi si poteva ricorrere se l'accusato durante l'interrogatorio si contraddiceva nelle risposte, quando vi erano gravissimi indizi e se il chiamato a comparire rimaneva contumace, lo scomunicato rimaneva in tale stato per un anno, contro chi favoriva, accoglieva e frequentava gli eretici. Nel caso di eresia, poi, la tortura era applicabile a tutti, ad eccezione di donne incinte, vecchi e bambini. Per queste ultime due categorie si procedeva a fustigarli con moderazione. Quanto al tipo di tortura, il più comune era "i tratti di corda": l'inquisito, con le mani dietro la schiena veniva sollevato più volte in aria con un sistema di carrucole e poi fatto cadere di colpo senza fargli toccare il pavimento. Al massimo per tre volte per seduta, di durata non superiore a 30 minuti, fino al limite di tre sedute, a distanza di giorni l'una dall'altra. Se l'imputato non confessava, era rilasciato; se confessava sotto tortura o in conspectu tormentorum, la confessione doveva confermarsi per iscritto in un secondo tempo, senza tortura. La tortura, da impiegarsi solo come extrema ratio, non doveva procurare ferite, né ledere l'efficienza fisica dell'imputato e poiché erano molti coloro che superavano la prova gli stessi inquisitori non credevano alla sua efficacia probatoria. Cadde in disuso a partire dal XIV secolo. A Tolosa, tra il 1309 e il 1323 furono emanate 636 sentenze inquisitoriali, ma la tortura fu utilizzata una sola volta; a Valencia, su 2354 processi celebrati tra il 1478 e il 1530, vi si fece ricorso soltanto in dodici casi. Un'altra leggenda nera da sfatare.

 

 

Tratto da un'intervista al professor Franco Cardini

 

Professor Cardini, quali sono i luoghi comuni più diffusi sull'inquisizione?

 

La prima nozione da sfatare è che l'inquisizione procedesse in modo arbitrario e per volontà della Chiesa di asservire la società laica alla sua visione repressiva e fanatico. Ciò è totalmente privo di fondamento e corrisponde a una "leggenda nera" avviata nei secoli XVIII e XIX, prima in àmbito illuministico e poi protestante: due propagande calunniose, che volevano distorcere la realtà in modo anticattolico (tra l'altro, i roghi erano più frequenti nei Paesi della Riforma, soprattutto calvinisti, che in quelli soggetti a Roma). Così, anche se a livello scientifico la realtà è ormai chiara da decenni, il gioco dei mass media continua a mettere in circolazione le vecchie dicerie del Sette e Ottocento.

 

Intende dire che la ferocia dell'Inquisizione non corrisponde al vero?

 

Assolutamente no, e non lo dico io che - in quanto cattolico - potrei essere sospetto di parzialità. Lo affermano studiosi come John Tedeschi, italo-americano ed ebreo, o come Adriano Prosperi, di area marxiano-gramsciana, i quali concordemente arrivano a questa diagnosi: i processi dell'inquisizione sono in generale corretti, il ricorso alla tortura c'è nella misura in cui è un espediente ordinariamente usato a quel tempo nei tribunali laici, infine gli inquisitori funzionano spesso come garanti di equità nel processo. Non sono rari, infatti, i casi di assoluzione degli imputati in seguito a una presa di posizione dell'inquisitore.

 

Però sembrano tutte eccezioni rispetto alla regola.

 

Sono casi particolari, non eccezioni. Normalmente, invece, il processo inquisitoriale si concludeva col non luogo a procedere oppure con condanne leggere (l'esilio, pene pecuniarie, penitenze). Gli specialisti oscillano tra il 40 e il 70% di processi conclusi con una condanna, e in questa percentuale - alta ma non schiacciante - la pena capitale è relativamente rara, senza contare che c'erano infiniti modi per evitarla. In sostanza il rogo coglieva solo l'eretico che si metteva nelle condizioni di essere considerato recidivo.

 

 

 

Biografia

Franco Cardini è nato a Firenze il 5 agosto del 1940. Laureato in Lettere presso l'Università della sua città natale, per qualche tempo è stato professore di scuola superiore; in seguito ha insegnato in diverse università, quali, ad esempio, quelle di Middlebury e di Barcellona.

Divenuto Professore Ordinario, dall'85 all'89 ha insegnato Storia Medievale all'Università di Bari e, dal 1989, ha ottenuto la cattedra di Storia dell'Insegnamento presso l'Università di Firenze.

Nel 1994 ha vinto il Premio "Tevere" per la Storia.

Attualmente è professore ordinario di Storia Medievale presso l'Università di Firenze e, dal 1997, è Membro del Comitato Consultivo del Mystfest di Cattolica (FO) e del Consiglio di Amministrazione dell'Ente Cinema S.p.A.


M
Morgil
Confratello
Utente
5307 messaggi
Morgil
Confratello

M

Utente
5307 messaggi
Inviato il 11 settembre 2005 13:42 Autore

Martin Luther

 

Martin Lutero (Martin Luther), il grande riformatore tedesco, nacque il 10 novembre 1483 ad Eisleben, una cittadina nella Turingia, regione centro-orientale della Germania. Suo padre, Hans Luther, originariamente un contadino, fece fortuna come imprenditore nelle miniere di rame, mentre la madre, Margarethe Ziegler era una massaia.

 

Nel 1484, proprio poco dopo la nascita del piccolo Martin (primogenito di sette fratelli), i genitori si trasferirono nel vicino paese di Mansfeld, in seguito alla nomina del padre a magistrato - grazie alla rilevante fortuna acquisita - di quella cittadina. A Mansfeld Lutero frequentò la scuola di latino mentre nel 1497 si recò a Magdeburgo per intraprendere gli studi presso la scuola dei Fratelli della Vita Comune, fondati dal mistico Geert de Groote. Tuttavia Lutero vi rimase solo per un anno, andando a vivere successivamente da alcuni parenti ad Eisenach, dove risedette fino al 1501.

 

In quell'anno il padre lo inviò ad iscriversi all'università della città imperiale di Erfurt dove il giovane studiò arti liberali, conseguendo il baccalaureato nel 1502 e il titolo di magister artium nel febbraio 1505. E fu proprio il 1505 un anno cruciale per Lutero: secondo i suoi biografi, il 2 luglio, ritornando ad Erfurt dopo una visita ai genitori, vicino al villaggio di Stotternheim incappò in un violento temporale durante il quale fu quasi ucciso da un fulmine. Si racconta che nella tormenta Lutero, terrorizzato, fece voto a Sant'Anna che se fosse sopravvissuto avrebbe preso i voti.

Il temporale passò e lo studioso mantenne la promessa due settimane più tardi.

Naturalmente, l'episodio del temporale affrettò probabilmente un'evoluzione già in corso da tempo e non fu, come si vuol troppo semplicisticamente credere, un'illuminazione improvvisa.

 

Ad ogni modo entrò, contro la volontà paterna, nel convento agostiniano-eremitano di Erfurt, dove pronunciò i voti nel 1506, e dove venne ordinato sacerdote il 3 Aprile 1507. La regola dell'Ordine prescriveva una sistematica lettura della Bibbia. In breve Lutero acquistò una conoscenza straordinaria della Sacra Scrittura.

 

In convento, inoltre, sotto la guida del frate superiore Johann Staupitz, si dedicò allo studio degli scritti di Aristotele, Sant'Agostino, Pietro Lombardo e del filosofo scolastico Gabriel Biel, commentatore del pensiero nominalista di Guglielmo di Ockham, il cui orientamento teologico era dominante presso gli agostiniani.

 

Nel 1508, dietro raccomandazione di Staupitz, gli venne assegnata una cattedra di filosofia morale ed etica aristotelica all'università di Wittenberg, appena fondata nel 1502 dal principe elettore Federico III di Sassonia, detto il Saggio.

 

Nelle sue riflessioni stava prendendo corpo la convinzione che le nostre opere non possono essere altro che peccaminose, perché la natura umana è solo peccato. Il corollario, sul piano delle fede, è che la salvezza è concessa da Dio per la sola fede e la sola grazia.

 

Da Wittenberg il futuro riformatore si recò nel 1510 a Roma, assieme al suo maestro Johann Nathin, per portare una lettera di protesta in merito ad una diatriba interna all'ordine agostiniano. Lutero ne approfittò per visitare la città, facendo il giro dei luoghi santi, per guadagnare, come era consuetudine, indulgenze.

La prassi delle indulgenze, nata durante le crociate, prevedeva inizialmente che chi non poteva rispondere fisicamente all'appello dei Papi per la liberazione dei luoghi santi, si concedeva la possibilità di una partecipazione mediante un contributo in denaro accompagnato da pratiche spirituali. In seguito il principio andò estendendosi ad altre opere buone. Le indulgenze si trasformarono poi in un grosso affare bancario. La concessione dell'indulgenza ai vivi e ai defunti era dilatata al massimo ed era liberata in gran parte degli obblighi spirituali riducendosi al puro versamento del denaro.

 

Il 31 ottobre 1517 Lutero scrisse una lettera ad Alberto di Hohenzollern Brandeburgo, arcivescovo di Magdeburgo e di Magonza, e al vescovo di Brandeburgo, Schultz, chiedendo di ritirare la "Instructio" che disciplinava la concessione delle indulgenze e di dare doverose disposizioni. La lettera era accompagnata dalle famose 95 tesi, in cui si trattava il problema dell'indulgenza.

Solo in seguito, alla mancata risposta da parte dei vescovi egli si decise di far conoscere le sue tesi dentro e fuori Wittenberg. Le 95 tesi non respingono del tutto la dottrina delle indulgenze, ma ne limitano molto l'efficacia, soprattutto sottraendola al solo atto formale dell'offerta.

Le 95 tesi, tuttavia, non sembrarono ancora un aperto invito alla ribellione (vi affiora infatti l'immagine di un Papa non informato a sufficienza degli abusi).

 

Nell'ottobre del 1518, però, Lutero invitava il Papa a convocare un Concilio, riconoscendo ancora implicitamente un'autorità della Chiesa superiore al Papa. Si trattava in ogni caso del famoso appello al Concilio contro il Papa, già severamente condannato da Pio II con la bolla "Execrabilis" del 1459.

L'anno seguente, il 1519, Lutero negava pure l'autorità dei Concili. La Sola Scrittura, in pratica solo la Bibbia, e non il Magistero della Chiesa, dovevano considerarsi fonte di verità, tutte considerazioni poi approfondite in alcuni celebri scritti.

 

Con il presentare sulla base del principio "Sola fede, sola grazia, sola Scrittura", intendendo cioè il rapporto tra Dio e l'uomo come diretto e personale, Lutero eliminava la Chiesa quale mediatrice mediante i Sacramenti. Essi, infatti, erano ridotti al solo Battesimo e alla sola Eucarestia, sia quale detentrice del magistero. Affermazioni che non potevano non provocare un enorme scandalo, che infatti diede origine alla scissione da Santa Romana Chiesa e diede il via a quell'enorme rivoluzione culturale che va sotto il nome di Protestantesimo.

 

Dopo aver sconvolto con la sua Riforma l'Europa e l'equilibrio fra gli Stati, Lutero muore a Eisleben, sua città natale, il 18 febbraio 1546.


L
Lord Lupo
Confratello
Utente
1626 messaggi
Lord Lupo
Confratello

L

Utente
1626 messaggi
Inviato il 13 settembre 2005 20:01

Non è propriamente una 'storia segreta', ma ho questo saggio sulla guerra punica è la migliore ricostruzione storica che abbia mai letto in proposito...

 

LA SECONDA GUERRA PUNICA (fu la prima guerra "mondiale e totale"della Storia?)

DI LANFRANCO SANNA

 

Il teatro di guerra

 

Nel corso della seconda Guerra Punica non si troveranno di fronte solo i due grandi Imperi, quello cartaginese e quello romano, ma in pratica saranno coinvolti tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo ad eccezione del Regno Tolemaico e Seleucide: Massalia, Siracusa, i Celti (Boi, Insubri e Cenomani), i Veneti, gli Etruschi di Mantova, i Liguri, i popoli della penisola iberica (Ilergeti, Sedetani, Suessetani, Carpetani, Celtiberi, Turboleti, Olcadi etc.), i Numidi (Masesili, Masili, Mauri), il Regno macedone e la simmachia greca, la Lega etolica, la Lega achea, Acarnaia, Elide, Arcadia, i Dardani, gli Illiri, Sparta, Messene, Pergamo, Bitinia.

Saranno attivi contemporaneamente più fronti assai distanti tra di loro, con oltre mezzo milione di soldati e marinai in armi: il fronte italico, il fronte iberico, il fronte balcanico, la Gallia cisalpina, la Sicilia, la Sardegna, l'Africa. 400 navi da guerra e migliaia da trasporto solcheranno il Mar Tirreno, il Mar Ionio e il basso Adriatico, il Mar Ligure, il Mar di Sardegna e delle Baleari, il Canale di Sicilia, il Mar Egeo. La guerra assumerà presto i caratteri di totalità: non era affatto una delle "solite" guerre tra gli stati alessandrini, quando si affrontavano enormi eserciti poco bellicosi con il solo scopo di strappare territori al nemico, ma un conflitto nel quale uno dei due contendenti doveva essere eliminato dal novero delle grandi potenze.

In 17 anni (16 di guerra attiva) periranno 300.000 italici su molto meno di 4 milioni di abitanti (dopo la secessione dell'Italia meridionale), con una mortalità media annuale dello 0,5% cioè una mortalità totale dell' 8%. Gli Italiani e gli Inglesi nella 1ª G.M. ebbero la stessa mortalità media, ma solo per 4 anni quindi una mortalità totale del 2%. Soltanto i Francesi ebbero una percentuale maggiore di mortalità annua (0,85%) ma nch’essi per soli 4 anni (= 3,4%). Nei primi tre anni di guerra gli Italici subiranno la perdita di 100.000 uomini, cioè circa l' 1% di mortalità annua, sovrapponibile a quella subita dall'Unione Sovietica nella 2° G.M..

Il potenziale umano mobilitato da Roma raggiungerà in alcuni anni il 10% della popolazione senza scendere mai sotto il 6-7%; l'Italia nella 1ª G.M. mobilitò il 9% della popolazione, la Francia il 10%. Anche la popolazione soffrirà pene indicibili tra carestie, massacri, pestilenze. Non si avrà mai più un impegno così in tutta la plurisecolare storia dell'Impero Romano quando, alla massima espansione, saranno in armi 25-30 legioni per un totale di 300.000 uomini ma su una popolazione di cento milioni di uomini.

Anno 219-218

Annibale, nel corso dell'inverno 219-218, concentra nella penisola iberica 15.000 uomini di cui 2.500 cavalieri numidi, mauri, liguri e 21 elefanti, 57 navi da guerra di cui 32 quinqueremi e 5 triremi fornite di equipaggio. In Africa lascia 15.000 soldati turdetani, mastiani, oretani e alcadi di cui 1.200 cavalieri oltre a 1.500 frombolieri delle Baleari. A Cartagine stazionano 4.000 soldati provenienti dalle famiglie più illustri delle colonie fenicie e una flotta di 60 navi da guerra. In totale, per difendere l'impero punico mobilita 70.000 tra soldati e marinai mentre, per attaccare Roma, raduna 90.000 fanti e 12.000 cavalieri per un totale di 172.000 uomini e 117 navi da guerra. Roma invece si è mobilitata molto lentamente, ed ha in armi solo 5 legioni per un totale di 58.000 fanti e 6.000 cavalieri, mentre ha allestito una flotta forte di 220 quinqueremi e 20 navi esploratrici con oltre 60.000 marinai e fanti di marina.

Anno 218

PIANO DI GUERRA di Annibale.

Annibale, per sorprendere i romani, decide di portare la guerra in Italia via terra valicando le Alpi; rinuncia infatti a priori, visti i risultati della prima Guerra Punica, al tentativo di contrastare il potere marittimo dei romani: un'altra disfatta avrebbe significato senza dubbio la fine della potenza commerciale ed economica di Cartagine. Prende perciò contatti con i Celti della Pianura Padana, insofferenti della recente conquista romana, che promettono il loro aiuto. Egli conta sul fatto che i romani avrebbero dovuto dividere le loro forze tra penisola iberica e Africa ed è convinto che, giunto nella penisola italica, i popoli sottomessi si sarebbero ribellati al giogo romano. Sa infine che deve risolvere rapidamente il conflitto poiché l'economia cartaginese è essenzialmente di tipo commerciale e una lunga guerra sarebbe insopportabile.

PIANO DI GUERRA di Roma

Il piano dei romani prevede, una volta ottenuto il controllo marittimo, di passare al più presto dalla Sicilia in Africa con un esercito consolare e di contenere Annibale nella penisola iberica con l'altro. Convinto che Annibale avrebbe conteso alla Repubblica il dominio del mare, il Senato appronta una flotta composta da 220 quinqueremi e 20 navi esploratrici; la squadra più numerosa (160 quinqueremi e 18 navi esploratrici) è inviata in Sicilia con il compito di assicurare il controllo del Canale di Sicilia e di scortare l'esercito d'invasione composto da 2 legioni con 8.000 fanti e 600 cavalieri affiancate da 16.000 fanti e 1.800 cavalieri di "socii" (console Tiberio Sempronio Longo). All'altro console Publio Cornelio Scipione, affiancato dal fratello Gneo, è assegnata la Penisola iberica con 2 legioni forti di 8.000 fanti e 600 cavalieri romani e 14.000 fanti e 1.600 cavalieri forniti dai "socii", e l'altra squadra navale composta da 60 quinqueremi e 8 navi esploratrici. Nella Gallia Cisalpina è presente il pretore Lucio Manlio Vulsone con una legione presidaria.

GALLIA CISALPINA

Alla fine di maggio Annibale passa l'Ebro, ed alla notizia i Celti Insubri e Boi attaccano i recinti coloniali di Piacenza e Cremona. Il pretore Manlio accorre celermente, ma è attaccato in un querceto e perde 500 uomini e altri 700 in un secondo scontro. Ritiratosi a Tanneto, vi resiste aiutato dai Celti Cenomani. È allora coscritta rapidamente una 6° Legione che il Pretore Caio Attilio conduce a Tanneto in soccorso del collega. Questi contrattempi ritardano purtroppo la partenza di Scipione per la penisola iberica.

PENISOLA IBERICA: Gallia meridionale

Annibale, varcato l'Ebro, è costretto a duri combattimenti contro le popolazioni locali nei quali perde 22.000 uomini in soli due mesi di operazioni. Sottomessa la regione, ad eccezione delle colonie greche di Messalia (Emporion), vi lascia Annone con 10.000 fanti e 1.000 cavalieri, mentre 3000 Carpetani disertano e altri 7000 iberi vengono congedati perché ritenuti poco affidabili. Gli rimangono così soltanto 50.000 fanti e 9.000 cavalieri, con i quali attraversa i Pirenei presso la costa; in due settimane raggiunge il Rodano a nord della confluenza con la Durence perdendo però altri 12.000 fanti e 1.000 cavalieri. I romani, partiti via mare da Pisa, seguendo la costa, dopo 5 giorni di navigazione sbarcano a Massalia e da qui raggiungono il Rodano verso il 15 agosto, 60 miglia a sud dei cartaginesi. Annibale spedisce Annone con qualche migliaio di cavalieri a nord per trovare un guado, attraversare il fiume e occupare poi la sponda sinistra del Rodano dove si erano presentati ostili numerosi celti alleati di Massalia. Nel frattempo, 300 cavalieri romani sono inviati in esplorazione verso nord lungo la sinistra del Rodano. Annibale raggiunge l'altra sponda del Rodano su delle chiatte non ostacolato dai celti ostili che sono messi in fuga dalla cavalleria di Annone sopraggiunta dal nord, e invia subito verso sud 500 cavalieri numidi che si scontrano, il giorno successivo, con la cavalleria romana (muoiono 160 romani e 200 numidi). Scipione, raggiunto il campo cartaginese con tre giorni di ritardo, decide di tornare alle foci del Rodano e di far proseguire l'esercito verso la penisola iberica come era stato stabilito, mentre lui stesso con una quinqueremi torna in Italia.

ITALIA: Alpi e Pianura Padana

Annibale attraversa le Alpi in soli 18 giorni o al Moncenisio o al Monginevro a metà settembre, appena in tempo prima che la neve blocchi il passaggio. Pur ostacolato dalle popolazioni del luogo, giunge nella Pianura Padana con 12.000 libici,8.000 iberi e 6.000 cavalieri. Scipione, sbarcato a Pisa con pochi rinforzi, raggiunge ai primi di ottobre le legioni della Gallia Cisalpina forti di 18.000 fanti e 1.600 cavalieri rafforzati da parecchie migliaia di ausiliari cenomani, da sempre alleati di Roma e nemici degli Insubri.

SICILIA

La flotta punica, nel frattempo, salpa alla volta della Sicilia con 35 navi da guerra con l'intento di occupare di sorpresa Lilibeo, base strategica per il controllo del Canale di Sicilia e del Tirreno meridionale, ma una tempesta la disperde tra le Egadi: attaccata dalle navi romane è costretta alla fuga perdendo 7 unità e 1.700 prigionieri. Altre perdite subiscono alcune navi cartaginesi appostate nelle Eolie per praticare la guerra di corsa. Sempronio, che ha avuto l'ordine di sbarcare il più rapidamente possibile in Africa, invia una squadra contro Malta che è occupata facilmente (la guarnigione punica di 2.000 uomini è catturata ), e un'altra squadra verso le coste del Bruzio dove i cartaginesi avevano compiuto un'incursione. Ai primi di ottobre, ricevuto l'ordine di portarsi rapidamente in Gallia Cisalpina, lascia in Sicilia 50 quinqueremi, 25 le destina al controllo delle coste del Bruzio e invia le altre 100 a Roma.

GALLIA CISALPINA

Annibale assale e conquista in tre giorni Torino, capitale dei Taurini di stirpe celta-ligure, uccidendo tutti i prigionieri. Scipione, attraversato il Po a Piacenza, risale il Ticino sulla sinistra e lo passa su un ponte di barche. Annibale con 6.000 cavalieri avanza verso la pianura, mentre Scipione, con poca cavalleria e la fanteria leggera, avanza in esplorazione offensiva verso i cartaginesi. Si viene allo scontro passato alla storia come la battaglia del Ticino, fiume peraltro piuttosto distante dal luogo dello scontro. Annibale schiera la sua cavalleria su una sola linea con al centro la cavalleria pesante e alle ali la cavalleria leggera numidica. Scipione schiera le sue truppe su due linee: davanti i frombolieri e la cavalleria celtica, dietro la cavalleria italica e la fanteria leggera. I numidi accerchiano le truppe romane, lo stesso Scipione è ferito molto gravemente ed è salvato dal figlio diciassettenne, il futuro "Africano". I romani sono costretti a ritirarsi, ripassano il Ticino e il Po e si accampano presso Stradella. Annibale cattura 600 legionari lasciati a demolire il ponte sul Ticino, ma attraversa il Po presso Tortona per timore di un attacco improvviso dei romani, e si accampa a 6 miglia dagli accampamenti nemici che rifiutano il combattimento. 2.000 fanti e 200 cavalieri celti disertano dopo aver fatto strage degli italici di guardia e passano ad Annibale che li invia nelle loro terre a fomentare la rivolta antiromana. I celti Boi stringono alleanza con i cartaginesi. Ai primi di dicembre il console Sempronio è a Piacenza e si unisce all'altro esercito romano: in soli due mesi dalla Sicilia ha raggiunto il fronte settentrionale. I cartaginesi intanto ricevono l'aiuto dei celti e catturano, per tradimento, il magazzino romano di Casteggio. I due eserciti sono adesso separati dal fiume Trebbia ingrossato dalle piogge. Sempronio, contro il parere di Scipione, vuole affrontare Annibale. Provocato dalla cavalleria numida, fa uscire prima tutta la cavalleria (4.000 cavalieri), poi la fanteria leggera ed infine tutto l'esercito che attraversa a guado ed a stomaco vuoto, per inseguire la cavalleria numida, la Trebbia gelida. Annibale ha schierato nella prima linea gli elefanti e 8.000 fanti armati alla leggera e dietro, su una sola linea, 20.000 fanti africani, iberi e celtici.Alle ali dispone la numerosa cavalleria (10.000 uomini), mentre 2.000 soldati agli ordini di Magone si nascondono in una valle sulla sua destra. I romani si schierano classicamente con al centro la fanteria forte di 36.000 uomini, e alle ali la cavalleria (4.000 cavalieri) divisa metà per parte. La più numerosa cavalleria cartaginese ha presto la meglio su quella romana ed attacca alle spalle la fanteria nemica aiutata dagli uomini di Magone, apparsi improvvisamente. Ciononostante, 10.000 fanti romani sfondano la linea cartaginese e, in perfetto ordine, raggiungono la piazza di Piacenza; i cavalieri superstiti insieme ad altri fanti scampati alla battaglia, si ritirano prima nei campi e poi raggiungono anch'essi Piacenza. Di lì Scipione si trasferisce in seguito a Cremona. I romani perdono nella battaglia 15.000 uomini tra morti e i pochi prigionieri, molto lievi invece le perdite cartaginesi; molti soldati invece morirono per l'inverno e le malattie, così come tutti gli elefanti eccetto uno.

PENISOLA IBERICA

La flotta romana, ripartita dalle foci del Rodano, sbarca ad Emporion. Le 2 legioni con 22.000 fanti e 2.000 cavalieri al comando di Gneo Scipione raggiungono rapidamente il fiume Ebro. Annone, lasciato nella zona da Annibale con 11.000 uomini, attacca battaglia a Cissi, presso Tarragona, perdendo 8.000 uomini. Asdrubale, che si era mosso verso il medio Ebro con 8.000 fanti e 1.000 cavalieri, venuto a conoscenza della disfatta di Annone, dopo aver attaccato alcuni distaccamenti romani lungo la foce dell'Ebro, torna a sud. Gneo Scipione, sedata la rivolta di alcune tribù iberiche, passa l'inverno tra Emporion e Tarraco, mentre Asdrubale sverna a Cartagena.

L' ESERCITO ROMANO

La Fanteria. Subito prima, o durante la guerra contro Pirro, si instituì il manipolo come unità di base della legione. Con questa riforma non era più soltanto il censo a decidere la disposizione in battaglia dei legionari, ma anche l'età: nella prima linea erano schierati i 10 manipoli degli hastati, i più giovani tra i legionarii, formati da 120 uomini ciascuno. Seguivano i 10 manipoli di principes, sempre di 120 uomini, ed infine i 10 manipoli di triarii, con metà forza (60 uomini per manipolo). Facevano parte integrante della legione anche 1.500 velites, fanti armati alla leggera, che non erano inquadrati in unità organiche ma che potevano combattere sia autonomamente che frammisti alla fanteria pesante. La Cavalleria Fin dall'origine l'esercito romano ebbe un corpo di cavalleria, i celeres, divisi in 3 centurie corrispondenti alle tre originarie tribù, con una forza massima mai superiore ai 1.000 cavalieri. La riforma militare di Servio Tullio portò a 12 le centurie di cavalleria, più 6 centurie di riservisti. Militavano in cavalleria coloro che avevano un alto censo oltre all'età e all'attitudine fisica. Spesso la cavalleria era usata come fanteria montata e quindi combatteva appiedata. Venuti a contatto con l'ottima cavalleria di Pirro, i romani incrementarono la quantità della loro cavalleria e ne migliorarono l'armamento con l'aliquota fornita dai socii (circa il triplo della cavalleria legionaria). Solo alla fine della II Guerra Punica si pervenne all'arruolamento di ausiliari (numidi, etoli, traci). L'unità di base era la turma di 30 cavalieri ciascuna, divisa in 3 decurie di 10 cavalieri. Dieci turme formavano la cavalleria legionaria, forte quindi di 300 cavalieri. Alla legione era sempre affiancata un'unità chiamata ala formata dai socii addestrati ed armati alla stessa maniera dei romani forte di circa 6.000 uomini compresa la cavalleria (900 cavalieri). Le due formazioni insieme non avevano una denominazione specifica, pur agendo di conserva, pertanto ogni volta che si parla del numero di legioni, bisogna tener conto anche dell'ala corrispondente.

FORZE IN CAMPO NELLA II PUNICA

- Confederazione Italica: Roma ed i socii italici con le province di Sicilia (eccetto Siracusa), Sardegna, Corsica e il protettorato in Grecia settentrionale (Apollonia, Durazzo).

** Siracusa (dal 215 passa a Cartagine)

* Marsiglia

* Celti Cenomani

* Lega Etolica, Sparta, Messene, Illiria, Elei.

* Pergamo

** Numidi Masesili (dal 204 passati a Cartagine)

* mercenari: Iberi

- Impero Cartaginese: Cartagine e le città fenicie dall'arco dei Fileni alle colonne d'Ercole, la penisola Iberica fino al fiume Ebro, le Isole Baleari.

La Simmachia greco-macedone: Regno di Macedonia, Lega Achea, Beozia, Tessaglia, Acarnania, Epiro.

* Bitinia

* Numidi Masili

** Numidi Masesili

* Celti Boi e Insubri

** Siracusa (dal 214)

** secessionisti dello Stato Romano: Capua, Sanniti, Lucani, Bruzi, Taranto, Locri, Metaponto, Crotone, Sardi, Siculi.

*mercenari: Iberi, Celtiberi, Liguri, Libici, Macedoni

- Anno 217 -

QUADRO GENERALE

Eletti consoli Gneo Servilio Gemino e Caio Flaminio, sono mobilitate 11 legioni ed inviati rinforzi alle 4 legioni in Gallia e alle 2 nella penisola iberica. Delle 5 nuove legioni levate, due sono inviate in Sicilia, 1 in Sardegna e 2 di presidio di Roma. Forti guarnigioni sono inviate a Taranto e alle altre località di interesse strategico. Siracusa manda 500 mercenari cretesi e 1.000 peltasti siciliani. La flotta ha la stessa consistenza dell'anno precedente.

GALLIA CISALPINA

Roma ha ormai perso tutta la Gallia cisalpina fino a Brescia eccetto Piacenza e Cremona. L'esercito di Annibale comprende 50.000 uomini soprattutto Celti. I Romani gli contrappongono due eserciti: le 2 legioni che Sempronio aveva portato dalla Gallia Cisalpina a Lucca, rafforzate dai nuovi complementi e dagli ausiliari inviati da Siracusa ora al comando di Flaminio, e le altre 2 legioni, al comando di Servilio Gemino, che hanno ripiegato da Cremona a Rimini. I due eserciti romani sono costretti a rimanere divisi sia per controllare le due possibili direttrici di marcia di Annibale verso la penisola italica, sia perché uniti si creerebbero dei gravi problemi logistici; ma d'altra parte dovranno riunirsi per poter fronteggiare l'esercito di Annibale alla pari. -Annibale passa l'Appennino al passo della Collina e giunge a Pistoia, devasta tutto il territorio che attraversa in Etruria, e penetra lungo la riva settentrionale del lago Trasimeno. -Flaminio segue da vicino il cartaginese ma cade in un'imboscata: è una strage nella quale periscono poco meno di 15.000 romani contro appena 1.500 punici. I 6.000 legionari che riescono a sfondare le linee nemiche e a ritirarsi su un colle si arrendono. Annibale trattiene i romani ma lascia liberi i federati e i siracusani nel tentativo di favorire la rivolta italica. 4.000 cavalieri agli ordini del propretore Gaio Centennio, mandati in soccorso da Servilio, sono attaccati e sconfitti dalla cavalleria Numida di Marbaale: 2.000 muoiono ed altri 2.000 sono fatti prigionieri. Alcune migliaia di scampati alla strage del Trasimeno si sperdono in Etruria, mentre altre migliaia raggiungono Roma. Vista la gravità della situazione il Senato nomina un dittatore nella persona di Quinto Fabio Massimo e suo vice il "magister equitum" Marco Minucio Rufo. In aggiunta, vengono coscritte altre due legioni che si riuniscono alle due di Servilio. Il dittatore promulga un editto per fare "terra bruciata" attorno al nemico.

PENISOLA ITALICA

- Fabio, riunite le quattro legioni a Tivoli, raggiunge Preneste e passa l'Appennino per giungere ad Arpi alla fine di luglio, dove si era accampato Annibale. Questi, dopo la vittoria al Trasimeno, aveva attraversato il territorio degli Umbri, era sceso fino a Spoleto che lo aveva respinto, aveva raggiunto l'Adriatico presso Ancona da dove, seguendo la costa, aveva raggiunto il tavoliere delle Puglie.

- Annibale devasta la Daunia, si porta nel Sannio, raggiunge Benevento e conquista Telesia. Decide poi di dirigersi verso Cassino con l'intento di interrompere le comunicazioni tra Lazio e Campania, ma, per un errore della guida, giunge a Casilino. Bloccato dai Romani che si schierano attorno all'unico valico rimasto per ritornare nel Sannio, riesce a sfuggire con uno stratagemma. Arriva quindi a Lucera e conquista Gereonio sterminandone gli abitanti.

- Minucio, in assenza di Fabio, attacca i punici che razziano il territorio: subisce la perdita di 5.000 uomini infliggendo (dice) 6.000 morti ai Cartaginesi, ma è salvato dall'arrivo di Fabio con il resto dell'esercito.

Il Senato decide di affidare il comando separato dell'esercito a Minucio ed a Fabio (si hanno in pratica due dittatori). Minucio, provocato ad arte da Annibale, attacca nuovamente battaglia e viene un'altra volta salvato dall'intervento di Fabio (fine dicembre). Alla scadenza della dittatura sono nominati i due consoli: Servilio Gemino, che aveva comandato una spedizione navale in Africa, riceve le legioni di Minucio, e Regolo quelle di Fabio. Gli eserciti per il momento rimangono accampati a Gereonio.

- Annibale ha poco più di 50.000 uomini, di cui 10.000 cavalieri; dei 50.000 disponbili in Etruria ne aveva persi 7-8.000.

SICILIA

Sono inviate 2 legioni di presidio. E' rafforzata la flotta nell’isola con l'invio di altre 25 quinqueremi. Siracusa ha offerto, come abbiamo visto, 500 mercenari cretesi e 1000 peltasti.

PENISOLA IBERICA

- Asdrubale con 35.000 uomini (i superstiti della battaglia di Cissi, africani ed iberici), appoggiato da una flotta forte di 40 navi da guerra al comando di Imilcone, muove da Cartagena verso la foce dell'Ebro.

- Gneo Scipione al comando di 35 navi da guerra, affiancate da alcune veloci navi Marsigliesi, attacca la flotta cartaginese che naviga lungo la costa. Nello scontro sono affondate 4 navi puniche e 2 vengono catturate, mentre le altre sono portate ad arenarsi ed abbandonate dagli equipaggi e dai soldati imbarcati. I Romani ne catturano intatte 25. Ottenuto il completo controllo del mare, Scipione attacca e distrugge Onusa, sbarca in prossimità di Cartagena distruggendo i raccolti, poi si volge verso le Isole Baleari che si arrendono e pagano un tributo. Infine, dopo una crociera di 1.000 miglia romane, torna a Tarragona.

MAR TIRRENO E MEDITERRANEO CENTRALE

- Cartagine reagisce inviando una squadra di 70 navi da guerra cariche di soldati nel Tirreno con la speranza di incontrare e rifornire Annibale, che invece si era diretto verso l'Adriatico. Nella loro rotta i punici intercettano e disperdono un convoglio di navi da carico romane destinate alla penisola iberica partite dal porto di Cosa; ma poi tornano indietro mentre è scesa in mare alla loro ricerca una flotta romana forte di 120 quinqueremi al comando di Servilio Gemino, che con la nomina del dittatore ha perso il potere consolare. La squadra romana fa scalo in Corsica, in Sardegna e a Lilibeo, poi prosegue verso l'Africa senza peraltro riuscire ad intercettare quella avversaria. Giunti alla piccola Sirte, i romani devastano l'Isola di Meninge e sbarcano sulla terraferma, ma vengono respinti dalle milizie locali perdendo 1.000 uomini. Durante il ritorno occupano però l'Isola di Pantelleria e, conclusa la crociera a Lilibeo, passano sotto il comando del pretore Otacilio.

PENISOLA IBERICA

Publio Cornelio Scipione, ormai guarito dalle gravissime ferite subite nella battaglia del Ticino, è inviato come proconsole nella penisola iberica con 30 navi da guerra e 8.000 soldati. In totale i Romani dispongono nella penisola di 2 legioni con 25.000 uomini, e di 80 quinqueremi con 25.000 marinai. Mentre gli Iberici si ribellano, i Romani passano l'Ebro e si accampano a 5 miglia da Sagunto. Arrivato l'inverno le operazioni militari sono sospese.

- Anno 216 -

QUADRO GENERALE

- Roma mette in campo 17 legioni per un totale di 170.000 uomini e 220 quinqueremi con 60.000 marinai che dispone così:

2 legioni nella penisola iberica contro l'esercito di Asdrubale;

2 legioni in Gallia Cisalpina contro i Celti;

2 legioni in Sicilia;

1 legione in Sardegna;

2 legioni a Roma in addestramento;

8 legioni nell'Italia meridionale contro Annibale, che ha circa 50.000 uomini di cui 10.000 cavalieri.

ITALIA MERIDIONALE

Sono eletti consoli Lucio Emilo Paolo e Publio Terenzio Varrone. -Annibale da Gereonio si sposta verso Canne. - I consoli lo seguono e pongono il campo a 6 miglia di distanza. Il 27 luglio Varrone, cui spetta il comando in quella giornata, muove il campo; Annibale lo assale sorprendendolo in piena crisi di trasferimento con la cavalleria e la fanteria leggera per un totale di 18.000 uomini. I romani, prima in difficoltà, reagiscono però con vigore e costringono i cartaginesi a lasciare il campo. Emilio Paolo passa alla destra dell'Aufido (più correttamente identificabile con l’attuale Fortore che con l’Ofanto) e costruisce un altro campo per un terzo delle forze. Il 2 agosto si viene a battaglia: i romani schierano 70.000 fanti e 7.200 cavalieri, mentre lasciano a presidio degli accampamenti 10.000 uomini. I cartaginesi dispongono di 40.000 fanti e 10.000 cavalieri. Nella catastrofe di Canne i romani perdono 45.000 fanti e 2.700 cavalieri ai quali si aggiungono 19.000 prigionieri, contro solo 5.500 fanti e 200 cavalieri punici. - Dopo la vittoria, Annibale attraversa il Sannio ed entra in Campania; si dirige prima verso Napoli, che però non viene attaccata, e poi verso Capua, la seconda città per grandezza d'Italia, che gli si consegna avendo fallito il tentativo di ottenere i diritti politici da Roma. Ma a differenza delle altre città secessioniste, Capua ha ambizioni di potere nella penisola in contrapposizione a Roma, tanto che stipula con Annibale un trattato di "cobelligeranza" e non di semplice alleanza. Degli altri centri della Campania Nocera è distrutta, Nola resiste, Acerra è abbandonata dalla popolazione. Resiste valorosamente anche Casilino, difesa da 570 prenestini e 470 perugini, che si arrenderanno solo nella primavera successiva quando furono liberati per riscatto (ultimo caso di un riscatto pagato dai romani nella guerra punica); la città sarà occupata allora da 2.000 campani e 700 cartaginesi. Magone, fratello di Annibale, con metà dell'esercito attraversa l'Irpinia mentre i Sanniti, i Lucani e i Bruzi passano dalla parte dei Cartaginesi. - Dopo la sconfitta di Canne a Roma rimangono 9 legioni per un totale di circa 100.000 uomini e 60.000 marinai della flotta, oltre ai superstiti delle legioni di cannensi che andranno a formare altre 2 legioni. - Annibale ha adesso circa 35.000 uomini. - Il Senato invia subito il dittatore Giunio da Roma con le 2 legioni presidiarie (25.000 uomini) che si portano sul Volturno. Marcello lascia a Canosa la legione di Fanteria di Marina (classica) che si era trascinata da Roma destinata a rafforzare la Sicilia insidiata da una flotta nemica e, con le 2 legioni reduci dalla disfatta di Canne, accorre verso la Campania.

GALLIA CISALPINA

Aulo Postumio Albino, al comando delle 2 legioni in Gallia Cisalpina, ha il compito di attaccare i Celti con l'obbiettivo di far richiamare in patria quei galli che militano nell'esercito cartaginese. Cade però in un'imboscata nelle selva Litana tra Ravenna e Bologna e vengono perduti altri 25.000 uomini. Delle 17 legioni dell'inizio dell'anno se ne sono perse in poche settimane 10.

PENISOLA BALCANICA

Filippo, re di Macedonia, decide di condurre una guerra parallela contro Roma con il solo scopo di scacciarla dalla penisola balcanica. Provvede pertanto alla costruzione di 100 lembi, piccole e agili navi illiriche a 50 remi che potevano portare 50 soldati ciascuna, per trasportare velocemente le sue truppe. Dall'Egeo passa nello Ionio a Cefalonia, e da questa isola procede verso il protettorato romano di Apollonia. Ma, arrivato alla foce del fiume Aoo, ed avuta notizia dell'avvicinarsi di una flotta nemica, si ritira rapidamente alla base di partenza (primavera del 216).

ITALIA MERIDIONALE

Delle 10 legioni disfatte, Roma riesce a costituirne in poche settimane 7: 2 legioni con i reduci di Canne; 2 legioni con schiavi, condannati, giovani ed anziani ("volontari"); 1 legione di Fanteria di Marina; 2 legioni con i socii. Queste ultime sono inviate a Roma a sostituire quelle urbane che, ormai addestrate, sono mandate sul Volturno, rinforzate dalle 2 legioni di schiavi e volontari (per bene valutare la fermezza del Senato anche in questo momento drammatico, bisogna ricordare che gli schiavi sono acquistati ad un prezzo triplo di quello richiesto come riscatto da Annibale per i prigionieri di guerra romani) e da 25.000 socii al comando del dittatore. Le due legioni di Canne, poste sotto il comando di Marcello, si spostano a Nola e la legione di Marina rimane in Apulia al comando di Varrone.

SICILIA

Siracusa, che nel 217 aveva offerto 500 mercenari cretesi e 1.000 peltasti ai Romani, soldati che avevano combattuto al Trasimeno, invia denaro e cereali con altri mercenari (1.000 sagittari e frombolieri). Il Senato manda altre 25 quinqueremi che si aggiungono alle 50 già presenti, al comando di Otacino Crasso, per proteggere l'isola dalle incursioni cartaginesi. Infatti, proprio nei giorni di Canne una flotta punica stava compiendo un'incursione contro la costa di Siracusa e, mentre i Romani stavano accorrendo in aiuto, un'altra flotta Cartaginese si preparava ad attaccare Lilibeo. Il pretore P. Furio Filo è gravemente ferito durante un'incursione contro la costa africana.

PENISOLA IBERICA

All'inizio del 216 Asdrubale, ottenuto il rinforzo di 4.000 fanti e 500 cavalieri africani, deve impegnarsi a debellare la rivolta dei Carpetani. In seguito della vittoria di Canne, ha l'ordine di portarsi in aiuto del fratello in Italia.

AFRICA: Cartagine

Non è l'unica decisione che prese il Governo punico; lo sforzo della guerra fino a questo momento era stato minimo perché Annibale in Italia era autosufficiente, e nella penisola iberica ed in Africa non si era aggiunto altro se non un modesto rinforzo di navi da guerra. Solo all'inizio del 216 sono stati inviati, come si è visto, 4.000 fanti e 500 cavalieri numidi nella penisola iberica. Sono stanziati fondi per arruolare 30.000 fanti e 4.000 cavalieri tra gli Iberi. Di questi ad Annibale sono destinati 12000 fanti, 1.500 cavalieri, 20 elefanti e 1.000 talenti di argento. E' un grande sforzo economico, se si tiene conto che un mercenario costava notevolmente di più di un legionario romano. Ma quando questo esercito è pronto a partire, scortato da 60 navi da guerra, alla volta di Crotone, giunge la notizia della grave sconfitta di Asdrubale: si decide allora di dirottarlo verso la penisola iberica che per Cartagine è essenziale sia come serbatoio inesauribile di mercenari, sia come fonte di ricchezza (miniere d'argento). Mentre questa valutazione è condivisibile, altrettanto non si può affermare per la decisione di attaccare la Sardegna con un altro poderoso esercito di 13.500 uomini. Certamente sarebbe stato più utile ai fini della guerra il suo invio in Italia meridionale piuttosto che in un fronte secondario e periferico come la Sardegna, ma questo ci fa pensare che Cartagine vede ancora la guerra come una rivincita della I Guerra Punica, e non come una guerra totale; e lo stesso Annibale se ne renderà conto molto più tardi. Da questi fatti è evidente l’enorme differenza tra la condotta della guerra da parte dei due contendenti: per Roma è una guerra totale e definitiva, è cioè una guerra per la sopravvivenza; per Cartagine è invece la prosecuzione del precedente conflitto, con l'obiettivo limitato di riprendere le isole mediterranee perdute.

- Anno 215 -

QUADRO GENERALE

Annibale, libero di muoversi nell'Italia meridionale, occupa Capua e una buona parte del Sannio, della Lucania e del Bruzio.

C'è instabilità politica in Sicilia e in Sardegna.

Filippo di Macedonia si dimostra ostile e potrebbe sbarcare in Italia.

Le difese romane nella penisola iberica sono fragili e potrebbero non essere in grado di impedire il passaggio dell'esercito cartaginese al comando di Asdrubale, il quale ha avuto l'ordine di congiungersi con il fratello in Italia.

Roma reagisce dislocando così le sue legioni:

- l'esercito dell'ex dittatore Giunio Pera è assegnato a Fabio Massimo, le 2 legioni di schiavi e volontari vanno a Sempronio, le legioni urbane sono spostate a Nola agli ordini di Marcello con lo scopo di contenere Annibale;

- le 2 legioni cannensi sono destinate alla Sicilia, e quelle della Sicilia sono spostate in Apulia meridionale al comando di Levino per fronteggiare Filippo;

- la fanteria di Marina va a presidiare Taranto;

- la legione in Sardegna è rinforzata da una seconda legione quando scoppia la rivolta;

- gli Scipioni sono lasciati nella penisola iberica (Publio col titolo di proconsole) con le 2 loro legioni.

Marina:

- 100 quinqueremi in Sicilia;

- 50 nella penisola iberica;

- 25 al pretore urbano per la difesa delle coste laziali;

- 25, poi portate a 50, a Levino per il controllo del basso Adriatico e Ionio in funzione anti-macedone.

In totale sono sotto le armi 200.000 uomini.

ITALIA MERIDIONALE

- Fabio Massimo si porta a Calvi, Sempronio Gracco va a Sinuessa, e, di lì presso Literno in addestramento. Accampatosi presso Cuma, attacca l'accampamento dei Capuani (14.000 uomini) uccidendone 2.000. - Annibale ha passato l'inverno a Capua, mentre gli altri cartaginesi hanno combattuto in Bruzio, o attorno a Casilino, o si sono dovuti sparpagliare per presidiare Arpi, Salapia, Erronea, Compsa e molte altre decine di città. Finito l'inverno, si trasferisce sul monte Tifata che sovrasta Capua; con la fanteria leggera tenta inutilmente di sorprendere Sempronio e di conquistare Cuma. - Fabio conquista Compulteria, Trebula, Saticola; Levino fa delle incursioni contro i Sanniti Irpini; Marcello da Nola devasta il territorio dei Sanniti. - Annibale punta su Nola, rinforzato dai 4.000 Numidi e da 40 elefanti portati da Annone via mare, ma Marcello si rinchiude in Nola; in uno scontro sotto la città cadono 1.000 Romani. I cartaginesi rinunciano per la seconda volta alla sua conquista e, inviato nel Bruzio Annone, si dirigono verso Arpi. - Fabio allora si avvicina a Capua devastandone il territorio dopo aver raccolto grano nei castra Claudiana, dove si ritira a passare l'inverno. - Marcello lascia a Nola un forte presidio e manda il resto delle truppe in licenza per qualche mese. - Gracco viene spostato da Cuma a Lucera a guardia di Annibale. - Levino da Lucera si sposta a Brindisi. - Fabio fa fortificare Pozzuoli e vi lascia un forte presidio.

PENISOLA BALCANICA

In primavera Filippo invia ad Annibale degli ambasciatori; è stretta un'alleanza anti-romana che non prevede però un piano militare concordato. I Romani, catturati gli ambasciatori macedoni in mare durante la via di ritorno, raddoppiano subito la flotta dell'Adriatico e radunano come Fanteria di Marina le truppe raccolte in Apulia col compito di difendere le coste italiane e di impegnare, eventualmente, Filippo nei Balcani.

SARDEGNA

Vengono inviati in Sardegna 5.000 fanti e 400 cavalieri, mentre Cartagine ha preparato una spedizione, in accordo con i ribelli sardi, di 12.000 fanti e 1.500 cavalieri, ma una tempesta disperde la flotta danneggiata verso le Baleari. I Sardi insorgono, il loro capo Hampsicora va a cercare aiuto addirittura tra i Sardi delle montagne (i "Pelliti"); Tito Manlio Torquato, arrivato a Cagliari, fa tirare in secco le navi e arruola anche i rematori, disponendo così di 22.000 fanti e 1.200 cavalieri che sono attaccati imprudentemente da Hosta, figlio di Hampsicora. I Sardi, perduti 3.000 uomini e 800 prigionieri, si ritirano verso Cornus, base della rivolta, mentre sbarcano finalmente i Cartaginesi. Torquato ripiega su Cagliari incalzato dai Sardo-Cartaginesi, ma, quando si giunge a battaglia, i Sardi vengono accerchiati e sbaragliati mentre i Cartaginesi resistono perdendo però 3.700 prigionieri. I rimanenti si imbarcano rapidamente ma vengono intercettati, perdendo 7 navi, da una squadra di 50 quinqueremi romane di ritorno a Lilibeo dalla solita incursione contro le coste africane. Cornus è attaccata e costretta alla resa; su tutta l'isola sono condotte feroci rappresaglie dai romani. In Sardegna rimangono 2 legioni e un certo numero di navi per molti anni, a seconda delle necessità del momento.

SICILIA

Dall'anno precedente (216) sono stanziate nell'Isola le 2 legioni cannensi, che non possono più tornare in Italia e acquartierarsi nelle città durante l'inverno, finché Annibale è presente sul suolo italico. Al comando della flotta è assegnato Otacilio Crasso. Il tiranno di Siracusa Gerone regala 20.000 quintali di grano ai Romani ma poi, alla sua morte avvenuta a 92 anni, il nipote Geronimo che gli succede al trono e stringe con i Cartaginesi un'alleanza che prevede, alla fine della guerra, la spartizione della Sicilia: Siracusa avrebbe ottenuto il territorio fino al fiume Imera (in realtà ottiene la promessa del possesso di tutta l'Isola).

PENISOLA IBERICA

Asdrubale si mette in marcia verso l'Ebro; gli Scipioni, lasciato l'assedio di Ibera Dertosa, gli muovono contro. L'esercito cartaginese, forte di 25.000 uomini (come quello romano), è sbaragliato: è una vittoria paragonabile a quella della Trebbia o del Trasimeno, ma assai più importante dal punto di vista strategico. Infatti non solo è impedito il congiungimento dei due fratelli nel territorio italico, ma anche l'invio dei rinforzi destinati ad Annibale via mare (12.000 fanti, 1.500 cavalieri e 20 elefanti), che devono invece essere dirottati nella penisola iberica che rappresenta un serbatoio irrinunciabile di ricchezze (argento) e soprattutto di uomini. La sua perdita avrebbe significato infatti l'esaurimento della potenzialità bellica di Cartagine, che si basava su eserciti di mercenari molto più costosi degli eserciti di cittadini-soldati della Confederazione Italica. Il 215, che era iniziato sotto cattivi auspici a causa della strategia aggressiva dei Cartaginesi, si conclude positivamente per le armi romane: Annibale raccoglie frutti in Bruzio, ma in Campania l'avanzata è bloccata ed anzi è iniziata una piccola riconquista da parte dei Romani. La rivolta in Sardegna è sedata e l'esercito inviato dai Cartaginesi è sconfitto e costretto alla ritirata. Nella penisola iberica Asdrubale è stato duramente sconfitto e deve rinunziare al proposito di riunirsi con il fratello in Italia.

L'alleanza tra Cartagine e la Macedonia si dimostra per ora aleatoria. Roma riuscirà a controllare Filippo per tutta la durata della guerra col solo impiego di una legione di Fanteria di Marina e di 50 quinqueremi e con ben orchestrate alleanze in Ellade.

Solo in Sicilia con la morte di Gerone si è verificato un ribaltamento delle alleanze con il rischio dell'apertura di un altro fronte. Fronte che potrebbe unirsi con quello dell'Italia meridionale solo che Annibale riuscisse a conquistare Reggio e Messina. Ma Annibale, tanto valido nella tattica in campo aperto e nella strategia aggressiva, non riuscirà durante tutta la guerra a conquistare nessuna città italica se non con l'inganno o con la dedizione spontanea e fallirà, in seguito, anche nella strategia difensiva. Il dominio del mare resta indiscutibilmente in mano dei Romani e l'economia cartaginese, basata sul commercio, è destinata a resistere meno dell'economia romana essenzialmente agricola.

- Anno 214 -

QUADRO GENERALE

Roma decide di levare altre 6 legioni per un totale di 20 legioni, oltre ai presidi di Taranto e di Pozzuoli (circa 6.000 uomini ciascuno).

La flotta comprende 250 quinqueremi:

-50 nella penisola Iberica

-50 nel basso Adriatico

-150 nel Tirreno, Sicilia e Sardegna.

Tra esercito e marina sono sotto le armi 300.000 uomini che rappresentano 1/10 della popolazione totale della Repubblica.

Strategia:

- in Italia si vuole bilanciare la tattica passiva della "terra bruciata" di Fabio, con l'azione più aggressiva di Marcello e Sempronio.

- Nelle province (Sicilia e Sardegna) e nella Penisola iberica si devono controllare la situazione e tenere le posizioni.

- I Macedoni non devono mettere piede in Italia.

Dislocazione delle legioni:

- 2 legioni urbane a Roma

- 2 legioni in Apulia

- 2 legioni ai confini della Lucania

- 4 legioni per tenere testa ad Annibale (2 legioni a ciascun

console)

- 1 legione presidiaria nel Piceno (Varrone)

- 1 legione nel Salento (Levino)

- 2 legioni in Sardegna

- 2 legioni in Sicilia

- 2 legioni in Gallia Cisalpina

- 2 legioni nella penisola iberica

ITALIA MERIDIONALE

- Annibale, dopo aver svernato ad Arpi, si porta sul monte Tifata; lasciati i numidi e gli iberi a difesa di Capua, marcia verso il Lago Averno ed attacca improvvisamente Pozzuoli senza frutto, poi punta su Napoli ed infine su Nola. - Marcello lo precede e vi introduce 6.000 fanti e 300 cavalieri, Fabio ordina a Sempronio di marciare su Benevento; il suo posto a Lucera è preso dal figlio, mentre egli stesso si avvicina a Casilino. - Su Benevento muove anche Annone dal Bruzio con 18.000 uomini e si viene a battaglia: della fanteria, composta soprattutto da lucani e bruzi, si salvano solo 2.000 uomini, mentre la cavalleria riesce a sfuggire. - Marcello attacca Annibale giunto di fronte a Nola, ma la cavalleria di Caio Claudio Nerone non arriva in tempo per risolvere la battaglia a favore dei Romani. Annibale, dopo alcuni giorni, si ritira da Nola. - Quinto Fabio Massimo conquista, con l'aiuto di Marcello, Casilino, poi mette a ferro e fuoco il Sannio caudino, occupa Campsa, Telesia, Mele e Compulteria uccidendo o catturando 25.000 nemici. - Ritornato Marcello a Nola, i Romani da Lucera occupano Ece e si accampano a Erdonea. - Annibale, che si è aggirato tutta l'estate attorno a Taranto inutilmente, si ritira a svernare a Salapia. - Marcello è inviato in Sicilia. - A fine anno le legioni del Piceno e del Salento si riuniscono a Brindisi. SICILIA Agli inizi dell'anno sono trasferite in Sicilia le 2 legioni cannensi. Geronimo, con 15.000, uomini si stanzia a Lentini; Ippocrate ed Epicide (inviati da Annibale) con 2.000 uomini hanno il compito di scorrere la provincia romana. Ucciso Geronimo, segue un periodo di instabilità politica in Siracusa. Al largo di Murganzia, un porticciolo 10 miglia a sud di Catania, stazionano 100 navi da guerra della Repubblica, mentre tutto il confine con Siracusa è presidiato da guarnigioni romane. Marcello giunge a fine anno in Sicilia ed assume il comando delle truppe. Dopo alcuni scontri di frontiera, mentre la situazione a Siracusa è confusa, attacca e conquista Lentini, catturando 2.000 disertori romani che vengono decapitati.

PENISOLA IBERICA

- Asdrubale, rafforzato dall'esercito di Magone, sottomette i Celtiberi ribelli. - Publio Scipione si spinge fino a Akra Leuke (Cuenca), ma, attaccato, perde qualche migliaio di uomini e si ritira. - Gneo Scipione si scontra con un terzo esercito cartaginese comandato da Asdrubale di Giscone ed è salvato dall'intervento del fratello. - I due Scipioni occupano la città di Castulone. - I cartaginesi iniziano a mettere sotto pressione i romani, che devono combattere duramente tutto l'anno.

AFRICA

Siface, re dei Numidi Mesasili, insofferente dello sfruttamento subito da anni da parte di Cartagine, la attacca improvvisamente. Di conseguenza Asdrubale, con parte dell'esercito della penisola iberica, è richiamato in patria.

PENISOLA BALCANICA

L'unico obiettivo di Filippo nel 214 è quello di conquistare l'illirico romano per estromettere la potenza italica dalla penisola balcanica ( eppure questo territorio sarebbe comunque passato ai Macedoni alla fine della guerra vittoriosa secondo gli accordi con Cartagine). Il re macedone non ha infatti il coraggio di sbarcare in Italia, sia per la incontrastata supremazia in mare dei Romani, sia per il timore di rivolte in casa o di aggressioni da parte dei bellicosi vicini. Armati 120 lembi, attacca Apollonia che però non riesce a conquistare d'impeto ed è costretto ad assediare. Conquista invece Orico priva di mura. Levino, avvisato delle operazioni nemiche, in due giorni è ad Orico che libera con facilità; poi invia il tribuno federale Quinto Nevio Crista con 2.000 uomini verso Apollonia; arrivato inaspettato, questi attacca l'accampamento macedone di notte uccidendo o catturando 3.000 nemici. Levino intanto con la flotta blocca la foce dell'Aoo dove si sono rifugiati i lembi macedoni; Filippo non ha altra scelta che incendiare la flotta e tornare a piedi in Macedonia praticamente privo di armi ed di equipaggiamento. Ottenuto questo facile successo, Levino sverna ad Orico.

- Anno 213 -

QUADRO GENERALE

Sono mobilitate 22 legioni così dislocate:

- 2 nuove legioni urbane a Roma in addestramento;

- le due legioni urbane dell'anno precedente sono inviate a

Suessula in sostituzione delle 2 trasferite in Sicilia;

- 2 legioni di Sempronio in Lucania;

- 2 legioni di Quinto Fabio sono spostate in Abulia;

- 4 legioni in Sicilia (le 2 cannensi più le 2 di Marcello);

- 2 legioni in Sardegna;

- 2 legioni nella penisola iberica;

- 2 legioni in Gallia Cisalpina;

- 2 legioni a Levino intorno a Brindisi in funzione anti-

macedone;

- 2 legioni dall'Apulia al Sannio.

ITALIA MERIDIONALE

- Quinto Fabio riprende Arpi, difesa da 5.000 Cartaginesi e 3.000 Irpini, seconda città del sud ribelle. È rioccupata anche Cosenza (che però verrà ripersa alcuni anni dopo), mentre altre posizioni sono guadagnate in Lucania. - Annone sconfigge il prefetto federale Tito Pomponio Veientano al comando di un'unità tattica formata da soldati regolari, contadini e schiavi, con funzioni anti-guerriglia; di conseguenza alcuni paesi del Salento passano ad Annibale.

- SICILIA Sbarca a Palermo, scortata da 30 quinqueremi, la 1° legione di Marcello, mentre ad Eraclea Minoa sbarcano 25.000 fanti e 3.000 cavalieri cartaginesi. In totale si affrontano nell'isola 40.000 Romani con 100 navi e 50.000 tra cartaginesi, siracusani e ribelli siculi con poco meno di 100 navi da guerra, per un totale di 150.000 tra soldati e marinai. Dopo cinque giorni di preparativi, i romani attaccano per mare e per terra Siracusa difesa dalle macchine da guerra di Archimede. Su 60 quinqueremi sono imbarcati arcieri e frombolieri che battono le mura dal mare. Altre 8 quinqueremi, legate tra loro, formano una piattaforma fornita di scale da sbarco, ma il tentativo di prendere la città d'assalto fallisce e si decide allora per l'assedio. Due legioni al comando di Appio rimangono a Siracusa, mentre Marcello con una legione scorre la Sicilia: distrugge Megara Hyblea, ed Eloro e Erbesso si arrendono. Mentre i cartaginesi si sono impadroniti di Agrigento, Ippocrate esce da Siracusa con 10.000 uomini e 500 cavalieri passando tra le maglie larghe dei Romani, ma mentre sta preparando il campo è sorpreso presso Arille da Marcello, che dopo aver vinto i cartaginesi sta tornando a Siracusa: nella battaglia cadono 8.000 siracusani. Il generale punico Imilcone si avvicina a Siracusa e si accampa presso l'insana foce del fiume Anapo a 8 miglia dal campo romano. Dopo lo sbarco della 2° legione di Marcello a Palermo, che è scortata da 30 quinqueremi, Imilcone le marcia contro nel tentativo di sorprenderla, ma i romani costeggiano la costa tirrenica della Sicilia e giungono indisturbati a Siracusa. I cartaginesi occupano Morganzia dopo che la guarnigione romana è stata sterminata dagli abitanti. Marcello a sua volta prende Enna. Una flotta punica di 55 navi al comando di Bomilcare entra nel porto di Siracusa, ma poi torna subito in Africa. Imilcone sverna ad Agrigento, Ippocrate a Morganzia. FRONTE ORIENTALE

Filippo spreca tutto l'anno nell'attacco a Messene.

AFRICA

Gli Scipioni colgono l'occasione per inserirsi nella guerra tra Siface e Cartagine: inviano infatti tre "consiglieri militari" per addestrare la fanteria numida e per stringere un'alleanza.

I cartaginesi, in difficoltà, richiedono l'aiuto di Gaia, re dei Numidi Masili, ed insieme sbaragliano l'esercito di Siface che è costretto a rifugiarsi presso i Numidi maurusi.

Aiutato da questi, Siface forma un altro esercito ma è definitivamente battuto da Masinissa, figlio Gaia.

I cartaginesi però si dimostrano tolleranti, e nell'anno successivo concluderanno una pace che permetterà a Siface di tornare sul suo trono. Masinissa invece passerà nella penisola iberica al comando della cavalleria numida.

- Anno 212 -

QUADRO GENERALE

Continua l'enorme sforzo militare dei romani.

Le legioni sono portate a 25:

-10 legioni schierate contro Annibale;

- 6 legioni con compiti di guarnigione;

- 9 legioni sono stanziate oltremare: 4 in Sicilia, 2 in Sardegna, 2 nella penisola iberica ed 1 in Grecia.

La flotta (250 quinqueremi) è così destinata:

- 130 navi in Sicilia;

- 50 a Brindisi;

- 35 nella penisola iberica;

- 35 in Sardegna e nel Tirreno.

In totale tra soldati e marinai sono sotto le armi per la Repubblica 350.000 uomini.

ITALIA MERIDIONALE

Annibale occupa per tradimento Taranto, ma la rocca, che blocca la flotta tarantina nel Mar Piccolo, rimane romana presidiata da 5.000 romani. Anche Metaponto, Turi ed Eraclea passano ad Annibale, che pertanto in poche settimane è riuscito a prendere il controllo di tutta la costa ionica del Bruzio (ad eccezione di Reggio) e della Lucania, oltre che del Salento fino a Santa Maria di Leuca. Alla fine dell'anno Annibale torna a Taranto dopo un'estate ricca di vittorie, ma la rocca di Taranto e Brindisi, unici porti idonei tutto l'anno ad accogliere una flotta, rimangono in mano dei romani.

SICILIA

Attaccate dai romani le mura di Siracusa durante una festività, è occupata la Epipole, mentre la fortezza di Eurialo, isolata, si arrende. Bomilcare lascia 55 navi ad Epicide e fa vela verso, Cartagine ma ne fa subito ritorno con altri 100 legni. Ippocrate arma 25.000 siracusani per la difesa della città. Quinto Crispino occupa i vecchi accampamenti presso l'Olimpeio con le legioni cannensi rinforzate da alcune migliaia di renitenti alla leva. Marcello distribuisce le altre due legioni tra Tiche e Neapoli. Ippocrate attacca Crispino mentre Epicide assale Marcello. Contemporaneamente dalla flotta cartaginese sbarcano reparti tra l'Olimpeio e Siracusa con l'obbiettivo di separare le forze romane, ma sono tutti respinti. Le truppe cartaginesi e di Ippocrate si accampano alle foci del fiume Anapo: scoppia la peste all'inizio dell'autunno. I cartaginesi sono sterminati mentre i legionari romani, pur colpiti dal morbo, per il luogo più salubre e la migliore igiene limitano le perdite. Bomilcare naviga verso la Sicilia con 130 navi da guerra e 700 da carico. Marcello gli si fa incontro, ma la flotta cartaginese non osa attaccare battaglia e si dirige a Taranto. Nel cuore della notte, per il tradimento di alcuni iberici di guardia alla porta di Ortigia, i romani penetrano in Siracusa e la occupano. Resiste solo l'Acradina, che infine però è costretta alla resa. Conquistata Siracusa, rimangono però in mano dei cartaginesi Akragas (Agrigento) e la costa meridionale dell'isola, difesi da 20.000 soldati al comando di Annone, Epicide e Muttine, un libio-fenicio di Biserta, inviato da Annibale in Sicilia.

PENISOLA IBERICA

I romani conquistano Sagunto, sgominano le popolazioni filo-cartaginesi ed assoldano i celtiberi: 300 di questi sono inviati in Italia con il compito di convincere alla diserzione quelli che militano nelle fila di Annibale. È la prima volta che i romani utilizzano forti contingenti di mercenari (circa 20.000), che, aggiunti ai 25.000 legionari italici, danno vita ad un imponente esercito. Essi hanno però di fronte un esercito ancor più numeroso perché Asdrubale, eliminato il pericolo di Siface, è tornato nella penisola iberica con più uomini, 30 elefanti e la cavalleria numidica di Masinissa.

MACEDONIA - GRECIA

Filippo riprende con ostinazione la guerra contro Roma: ritenendo ancora una volta impossibile l'attacco via mare, attraversa le montagne ed arriva sull'Adriatico. Conquista Lisso ed Acrolisso, a metà strada tra Durazzo e Scutari e difese dagli Il lirici. Sottomette poi i Dassareti e la città di Iscano, 25 miglia nell'entroterra di Lisso.

AFRICA

È conclusa una pace benevola tra Cartagine e Siface, che ritorna sul suo trono. Masinissa passa nella penisola iberica al comando della cavalleria numida.

- Anno 211 -

QUADRO GENERALE

Sono eletti consoli Gneo Fulvio Centimalo e Publio Sulpicio Galba.

Delle 2 legioni distrutte ad Erdonea, e delle 2 legioni di "volontari" sbandate, se ne possono rimpiazzare solo 2.

Sono prorogati i comandi delle legioni che circondano Capua.

ITALIA MERIDIONALE

- Annibale, che ha svernato in Bruzio, si porta verso Capua. Sale sul monte Tifata, si impadronisce di Galazia e si prepara per un attacco concertato con i capuani. - I romani si dividono i compiti schierandosi in parte contro Annibale e in parte contro Capua. Gli scontri risultano però inconcludenti, allora Annibale decide di marciare contro l’Urbe per costringere il Senato a togliere l'assedio della città campana e a metà anno giunge alle porte della capitale. Il tentativo non riesce ed anzi i romani, usciti dalla Città, lo attaccano mentre cerca di attraversare l'Aniene procurandogli la perdita di 300 uomini. Durante la ritirata è seguito da Sulpicio Galba; quando ormai è vicino a Capua si ferma, lo attacca e lo sconfigge senza però riuscire ad annientarlo. Con un'altra decisione imprevedibile decide di conquistare allora Reggio e quasi vi riesce; sarebbe stato comunque tardi per unire i due fronti perché in Sicilia ormai i cartaginesi sono costretti sulla difensiva attorno ad Agrigento, mentre Siracusa, che avrebbe potuto accogliere l'esercito macedone scortato dalla flotta punica, è saldamente in mano di Roma. Capua, ormai sola, è costretta alla resa: i maggiorenti che non si erano già suicidati vengono giustiziati da Flacco e la città è trasformata in un campo di concentramento in attesa delle disposizioni del Senato. Con Capua si arrendono Atella, Calazia e tutta la Campania ribelle.

MAR IONIO

- Bomilcare, che è al comando di 130 quinqueremi cartaginesi, rifiutato lo scontro con i romani in Sicilia, arriva a Taranto nel tentativo di bloccare completamente la rocca, ma le enormi difficoltà logistiche legate alla necessità di rifornire 50.000 marinai lo costringono a ritirarsi.

SICILIA

- Durante l'estate Muttine con la cavalleria numida scorre la Sicilia. Annone ed Epicide escono da Akragas (Agrigento) e si accampano lungo il fiume Imera dove vengono affrontati dai romani. Nel combattimento i Cartaginesi sono sconfitti anche per la ribellione dei Numidi e ripiegano su Akragas dopo aver perso alcune migliaia di soldati. - In autunno, dopo la partenza di Marcello per l'Italia, i cartaginesi tentano di riprendere l'iniziativa: inviano 8.000 fanti e 3.000 cavalieri mentre insorgono i Siculi. Muttine continua le sue efficaci scorrerie. - Il pretore Marco Cornelio Cetego mantiene il comando per quasi un anno in attesa del nuovo comandante.

PENISOLA IBERICA

Gli Scipioni si portano nella valle del Baetis (Guadalquivir): Gneo con 8.000 romani e 20.000 celtiberi affronta Asdrubale, Publio con 16.000 romani si dispone contro Asdrubale di Giscone e Magone. Publio attacca di notte Indibile che, a capo di 7.500 suessetani, sta per congiungersi con i cartaginesi, ma la sorpresa fallisce e i romani sono attaccati dalla cavalleria numidica: ucciso Pubio Scipione, l'esercito si sbanda. Nel frattempo, Magone e Asdrubale di Giscone si riuniscono con Asdrubale per attaccare uniti l'altro esercito romano. Gli iberi mercenari dei romani vengono corrotti edisertano, lasciando Gneo con solo 8.000 uomini contro gli eserciti cartaginesi riuniti. Allora si ritira su un'altura dove si trincera, ma è sopraffatto ed ucciso, mentre la maggior parte dei suoi soldati riesce a sfuggire. Mentre molte tribù legate ai romani passano dalla parte punica, Lucio Marcio, uno sconosciuto cavaliere romano, conduce 10.000 scampati oltre l'Ebro, inseguito mollemente dai nemici. Egli non solo difende la posizione, ma addirittura coraggiosamente attacca di notte l'accampamento dei cartaginesi che non si decidono ad oltrepassare il fiume. Dopo poche settimane arrivano i rinforzi dall'Italia: 12.000 fanti e 1.100 cavalieri al comando di Caio Claudio Nerone: sono gli uomini che si sono resi disponibili dopo la caduta di Capua. Essendo completamente assente la flotta nemica, i romani portarono a terra anche gli equipaggi delle navi. Asdrubale nel frattempo aveva varcato l'Ebro con l'intento di marciare verso l'Italia, ma, bloccato dai romani, si trova in grave difficoltà e riesce a sfuggire ingannando l'ingenuo Nerone. Gli altri due eserciti punici hanno il compito di tenere a bada sia i Romani che gli Iberi.

PENISOLA BALCANICA

In piena estate il propretore Levino giunge con la sua flotta all'adunata annuale degli Etoli, dove conclude un'alleanza militare in base alla quale l'Acarnania sarebbe andata alla Lega etolica mentre i Romani avrebbero preso preda e prigionieri. Roma si impegna a fornire l'appoggio di 25 quinqueremi e della fanteria di marina imbarcata. Levino si impadronisce quindi di Zacinto e delle cittadine acarnane di Emiade e Naso che consegna agli Etoli, poi si ritira a Corfù per svernare. Filippo fa un'incursione verso Orico e Apollonia, ma poi deve dirigersi contro i Dardani. Sceso in seguito nella Tassaglia, lascia 4.000 uomini alle Termopili e si dirige verso la Tracia; gli Etoli, allora, si lanciano alla conquista dell'Acarnania, ma la resistenza degli abitanti e l'accorrere di Filippo li convincono a ritirarsi. Filippo sverna a Pella, capitale della Macedonia. Il 211 si è concluso con la riconquista di Capua ma anche con la grave disfatta degli Scipione nella penisola iberica. Annibale rimane invitto ed invincibile, libero di muoversi nell'Italia meridionale.

- Anno 210 -

Sono eletti consoli Marco Marcello, il conquistatore di Siracusa, e Marco Valerio Levino, vittorioso nella penisola balcanica.

ITALIA MERIDIONALE

Marcello si propone di affrontare e battere Annibale: ha un primo successo occupando Salapia difesa da 500 cavalieri numidi che vengono completamente annientati; conquista poi Marmorea e Mele in territorio sannita uccidendo i 3.000 uomini del presidio e catturando 1.500 tonnellate di grano e 700 di orzo, importante riserva alimentare dei cartaginesi. Annibale invece riconquista Tisia, vicina a Reggio, che si era data con uno stratagemma ai romani e si presenta inaspettatamente ad Erdonea, assediata dal proconsole Fulvio Centimalo. I romani accettano lo scontro ma vengono sconfitti sempre ad opera della cavalleria numida. Pur battendosi valorosamente, perdono infatti 13.000 uomini. I superstiti 4.300 andranno a rinforzare le legioni cannensi in Sicilia. Annibale, nell'impossibilità di difenderla adeguatamente, brucia la città e trasferisce la popolazione a Metaponto e Turi. Marcello, venuto a conoscenza della sconfitta, si porta in Lucania a Numistrone e si schiera a battaglia, che si conclude con esito incerto. Il giorno successivo i romani si schierano di nuovo pronti alla ripresa del combattimento, ma Annibale rifiuta lo scontro e si ritira verso la Puglia. Marcello lo segue e lo impegna in continui scontri per tutta l'estate.

SICILIA

- Giunge il nuovo console Levino. Durante l'estate i cavalieri di Muttine, che ha perso il comando in favore del figlio di Annone ingelositosi dei suoi successi, si ribellano e permettono ai romani l'ingresso in Akragas. Riescono a sfuggire Annone ed Epicide con pochi fedeli via mare, mentre il grosso della guarnigione è sterminato e la popolazione è venduta schiava; 40 comuni ribelli si arrendono, 20 sono presi col tradimento e 6 sono espugnati.

SARDEGNA

La flotta cartaginese composta da 40 navi da guerra al comando di Amilcare fa una puntata sino ad Olbia nell'estate e, al ritorno, sbarca nella piana di Cagliari facendo razzia.

PENISOLA IBERICA

- Publio Scipione, eletto proconsole, è inviato nella penisola iberica con 10.000 fanti e 1.000 cavalieri resisi disponibili dopo la caduta di Capua..Partito da Ostia, scortato da 30 navi da guerra, sbarca ad Emporion (Ampurias) e prosegue a piedi fino a Tarragona. - Durante l'inverno tra il 211 e il 210 Asdrubale di Giscone aveva svernato a Cadice, Magone lungo la catena castulonese, e Asdrubale di Amilcare nella zona di Sagunto. Per tutto il 210 i cartaginesi si preparano per passare in Italia.

PENISOLA BALCANICA

Levino parte da Corfù e conquista Anticipa nella Locride, attaccata da terra dagli Etoli. Nominato console, è sostituito da Sulpicio Galba. Filippo è considerato così poco pericoloso che il Senato smobilita tutte le forze eccetto gli equipaggi e la fanteria di marina imbarcata su 25 quinqueremi per un totale di 10-12.000 uomini. I macedoni riprendono l’iniziativa nel Golfo Maliaco assediando Echino, senza che le flotta romana possa intervenire in tempo per la mancanza di una base navale nell’Egeo. Allora i romani assediano e conquistano l’Isola di Egina.

- Anno 209 -

ITALIA MERIDIONALE

Sono eletti consoli Quinto Fulvio Flacco e Fabio Massimo. Vengono mantenute operative 21 legioni, ma con molta fatica, perché 12 delle 30 colonie latine rifiutano ulteriori aiuti in uomini e denaro: in tal modo i Romani perdono praticamente 30.000 nuovi coscritti. Primo obiettivo di Fabio è la conquista di Taranto: incarica pertanto Marcello, nominato proconsole e confermato al comando delle 2 legioni dell'anno precedente, di tenere occupato Annibale che è accampato presso Canosa nella speranza di una sua defezione. Quando vi giunge Marcello, il Cartaginese si ritira in terreno collinare perché inizia a difettargli la cavalleria; i legionari attaccano i genieri che stanno preparando le fortificazioni campali ma il combattimento è sospeso per il sopraggiungere della notte. Riprende però il mattino seguente, ma i romani sono sconfitti perdendo 2.700 uomini. Testardamente Marcello rischiera il suo esercito il giorno successivo ponendo alle sue ali Lucio Lentulo e Caio Claudio Nerone: dopo un primo ripiegamento sotto la spinta degli elefanti, i romani respingono il nemico fin verso gli accampamenti, ma perdono altri 3.000 uomini ed hanno numerosi feriti. Annibale la notte successiva si ritira nel Bruzio. La sconfitta, (non ammessa da Marcello), ha permesso però a Flacco di conquistare territori in Lucania e a Fabio Massimo sia di occupare Manduria facendo 3.000 prigionieri, sia di avvicinarsi a Taranto. Approfittando dell'assenza della flotta punica che si era diretta verso Corfù in un cauto e poco convinto tentativo di portare aiuto all'alleato macedone, Fabio circonda per mare e per terra la città che viene presa per il tradimento del comandante del contingente dei Bruzi. Taranto è saccheggiata, 30.000 abitanti sono venduti schiavi, grande è il bottino di oro e argento, tuttavia la città mantiene la propria autonomia amministrativa come prima della defezione. Nello stesso momento Annibale è costretto a difendere Caulonia, assediata dagli 8.000 malfattori di Agatirna, ceduti ai Reggiani l'anno precedente dal console Levino. L'ordine di attaccare Caulonia lo aveva dato loro lo stesso Fabio Massimo proprio con l'intento di allontanare Annibale, che aveva ingenuamente abboccato. Il Cartaginese, annientati i nemici, accorre in aiuto di Taranto, ma la notizia della sua caduta lo coglie a metà strada. Il bilancio del 209, in Italia, può considerarsi negativo: infatti, nonostante la conquista di Taranto, c'è stata la defezione delle colonie latine, la sconfitta di Marcello e l’annientamento degli 8.000 di Agati


M
Morgil
Confratello
Utente
5307 messaggi
Morgil
Confratello

M

Utente
5307 messaggi
Inviato il 14 settembre 2005 12:32 Autore

bell'articolo lord lupo!continua così!!

 

 

Giovanni Acuto e la Compagnia Bianca

 

Nel 1371 sulla scena italiana aveva fatto la sua comparsa una forza nuova, la famosa Compagnia Bianca composta di veterani della guerra dei Cento Anni. I membri della Compagnia Bianca e i loro "rampolli" furono sempre noti in Italia con la denominazione di "inglesi" perché in genere erano uomini che avevano preso parte alle guerre "inglesi" in Francia, ma non erano affatto tutti degli inglesi veri e propri. I metodi praticati dalla Compagnia, che le ottennero subito la superiorità nelle guerre italiane, erano quelli messi a punto dagli inglesi a Crecy e a Poitiers. Molti poi dei capi o ufficiali della Compagnia erano inglesi e tra questi Giovanni Acuto (John Hawkwood) e Andrew Belmont.

 

 

 

La Compagnia trasse la sua denominazione dall'armatura rilucente che indossavano i suoi cavalieri. Questi, infatti, portavano un'armatura liscia quale non era per nulla comune in Italia e avevano un numero sufficiente di paggi per tenerla sempre lustra e forbita. L'unità combattente formata da tre persone -la cosiddetta lancia- di cui si attribuiva alla Compagnia Bianca il merito di averla fatta conoscere in Italia, comprendeva due combattenti e un paggio. La Compagnia Bianca adattò la "lancia" al contesto specifico di combattenti armati che operavano a piedi e questa fu una delle novità rivoluzionarie della tattica da combattimento inglese. L'idea di far scendere i guerrieri da cavallo originariamente era stata divisata come espediente per far loro tenere più saldamente il terreno e per evitare che i cavalli venissero uccisi o feriti durante la battaglia. Poi una formazione di guerrieri appiedati che avanzavano spalla a spalla con le loro lance in resta si palesò una straordinaria forza adatta al contrattacco; e di questo gli italiani ebbero ben presto modo di accorgersi. Per attuare questa tattica ogni lancia della cavalleria pesante doveva essere impegnata da due guerrieri che combattevano insieme e quando giungevano a contatto con il nemico i due potevano anche combattere schiena contro schiena per aiutarsi a vicenda. Frattanto i paggi tenevano i cavalli dietro la linea di combattimento e venivano avanti quando c'era bisogno dei cavalli o per inseguire il nemico sgominato o per ritirarsi alla svelta.

L'altra novità importante che la Compagnia portò in Italia furono gli arcieri con arco lungo. L'arco lungo aveva una potenza offensiva e una precisione maggiori della balestra, ma per usarlo occorreva un fisico robusto e un lungo esercizio. Per queste ragioni l'arte ed il successo degli arcieri inglesi non trovarono facilmente imitatori in Italia e il loro numero divenne sempre più esiguo poiché non giungevano d'oltralpe nuovi praticanti; l'incidenza dell'arco lungo nel modo di guerreggiare italiano fu così breve e temporanea.

 

Queste innovazioni tattiche portarono un notevole spirito di corpo e una disciplina quale era difficile riscontrare in compagnie mercenarie. Questo non significa che la disciplina fosse perfetta: sappiamo che i pisani ebbero a lagnarsi amaramente del comportamento che la Compagnia aveva tenuto a Pisa, e si racconta che montassero persino dei falsi allarmi per far uscire gli inglesi dalla città. Invece l'esperienza che della Compagnia fecero più tardi i fiorentini fu nel complesso soddisfacente; i funzionari di Firenze riferirono ai loro superiori che i soldati inglesi erano i più morigerati che fosse loro mai capitato di vedere e che pagavano sempre con tutta esattezza le vettovaglie di cui avevano bisogno. Ma soprattutto gli italiani erano colpiti dalla loro disciplina in battaglia e dalla statura e corporatura di tanti di loro. Gli inglesi erano usi cavalcare anche di notte e combattere anche in pieno inverno e, inoltre, diversamente dagli altri mercenari, erano attrezzati per condurre un assedio poiché erano soliti portarsi speciali scale pieghevoli per scalare le mura, e bombarde.

 

Nel 1364 la Compagnia Bianca, al soldo dei pisani, si accampò sulle colline sopra Firenze, molestando e terrorizzando la città. Tuttavia, anche una compagnia formidabile quale essa era aveva ben poche possibilità di riuscire a prendere una grande città come Firenze e i suoi mercenari si accontentarono di mettere a sacco i sobborghi e di ottenere, per andarsene, un'ingente somma. Subito dopo la Compagnia Bianca si sciolse. Lo Sterz andò ad unirsi a Hannekin Bongarten con cui formò la Compagnia della Stella, che i due portarono a sud per fare scorrerie in territorio senese e nei domini pontifici. Il resto della Compagnia Bianca, comandato da Giovanni Acuto, rimaneva intanto al soldo dei pisani. Acuto doveva diventare in personaggio più in vista nelle guerre italiane del trentennio successivo. Egli era un soldato duro, in vero professionista che, a differenza dei condottieri suoi contemporanei, pareva preoccuparsi non tanto del denaro quanto della propria reputazione militare. Molti dei successi che arrisero ai suoi soldati possono attribuirsi alla migliore preparazione e al migliore armamento di cui erano provvisti, ma non si può mettere in dubbio che nella sua compagnia egli riuscì a creare tale unità e tale spirito di corpo quali non si erano mai visti. Inoltre si acquistò fama di essere leale ed onesto, fama che nasceva in certa misura per contrasto con la condotta dei suoi rivali, perché Acuto non era certo uno specchio di virtù. Sebbene fosse orgoglioso della sua autorità di comandante e si appassionasse alla guerra da vero professionista, non ricusò mai di accettare denaro in cambio della rinuncia a combattere e, al pari di tutti in condottieri del suo tempo, non ebbe gran rispetto per la vita e i beni della popolazione civile.

 

Verso la metà degli anni Sessanta del Trecento erano disponibili in Italia quattro grandi compagnie: quelle di Acuto, di Sterz, di Bongarten e, infine, la Compagnia di San Giorgio capeggiata da Ambrogio Visconti. La Compagnia della Stella si sciolse e per alcuni anni le compagnie di Acuto e di Ambrogio Visconti furono le più potenti forze militari indipendenti della penisola. Quando operavano unite, infatti, risultavano pressoché irresistibili e volta a volta ne fecero esperienza Genova, Siena e Perugia. Ma quando agivano separatamente diventavano più vulnerabili e così Visconti fu sconfitto da un esercito congiunto di Napoli e del papa e da ultimo finì ucciso, nel 1374, in uno scontro con dei contadini nelle vicinanze di Bergamo. Giovanni Acuto optò per una soluzioni più sicura, anche se meno vantaggiosa sul piano economico: dapprima si pose al servizio di Milano e poi nel 1375 andò a militare per il papa.

 

Erano quelli gli anni in cui i papi d'Avignone compivano grandi sforzi per recuperare il controllo effettivo degli Stati della Chiesa nei quali aveva per lunghi anni dilagato l'anarchia. Somme immense di denaro erano disponibili nel tesoro pontificio, e per mandare a buon effetto l'impresa le compagnie erano strumenti ottimi. Nel 1375 Giovanni Acuto non solo si vide addossato il compito di ridurre all'obbedienza papale le città e le signorie della Romagna, ma anche quello di far guerra a Firenze, che si era allarmata vedendo crescere la potenza pontificia lungo i confini del suo territorio. E' vero che Acuto si lasciò comprare da Firenze, ma si dimostrò poi più scrupoloso nell'ubbidire ai suoi padroni ecclesiastici lanciando i suoi all'attacco delle popolazioni delle città romagnole. A Cesena i soldati di Acuto furono affiancati da una nuova compagnia di bretoni che i papi avignonesi avevano inviato dalla Francia: il ruolo avuto da costoro nel massacro di Cesena pare che sia stato maggiore di quello degli inglesi. Si racconta che Giovanni Acuto si piegasse agli ordini del cardinale Roberto con somma riluttanza e che riuscisse a salvare alcune donne di Cesena. Ormai erano quindici anni che era in Italia e doveva essere affezionato al paese ed ai suoi abitanti, cosa che non si poteva sicuramente pretendere dai bretoni. Come che sia, a Cesena furono massacrate più di cinquemila persone e le fosse erano piene dei cadaveri di coloro che avevano tentato di fuggire dalla città

Acuto, probabilmente disgustato da quello che gli era toccato fare a Cesena, ben presto abbandonò il servizio del papa e passò la maggior parte degli anni che gli restarono da vivere al soldo di Firenze. Tuttavia, mentre era ancora al soldo del papa, aveva avuto le città di Cotignola e di Bagnocavallo in garanzia degli arretrati che gli erano dovuti; questo fatto è un altro indizio dell'importanza crescente che il condottiere aveva rispetto alla libera compagnia mercenaria. La situazione di Acuto, divenuto feudatario papale (è questo che egli in certo modo divenne con il possesso delle suddette città romagnole), era qualcosa di nuovo per un capo di mercenari straniero. Non solo veniva riconosciuta la posizione di capo mercenario, il condottiere, ma aveva avuto avvio il processo che portava a legarlo allo stato.

 

L'unico stato che poté opporre una certa resistenza alla valanga viscontea fu quello fiorentino, e di fatto l'ultimo decennio del Trecento fu tutto un seguito di guerre tra Firenze e Milano. Finché fu in vita Giovanni Acuto, che guidava le forze fiorentine, tra i due stati rivali prevalse un certo equilibrio. Tuttavia Acuto, anche se dopo il 1380 fu spesso al servizio di Firenze, militò anche per altri padroni, conseguendo anzi il suo maggiore successo nel 1387 quando guidò i padovani alla vittoria di Castagnaro sui veronesi. Quella battaglia meglio di ogni altra palesò il genio tattico dell'inglese e i vantaggi che assicuravano in Italia i suoi metodi "inglesi". La mossa decisiva fu allora la finta ritirata di Acuto che così riuscì a trascinare i veronesi sul terreno che più gli andava a genio e cioè in una posizione acquitrinosa a sud-est di Verona tutta intersecata da canali irrigui. Dietro uno di tali canali e su un terreno un po' più asciutto egli fece smontare i suoi cavalieri e li fece avanzare a file serrate. Da ogni lato e un po' più avanti del centro del suo esercito celò dei balestrieri, i suoi seicento arcieri inglesi e alcuni cannoni. I veronesi avanzarono fiduciosamente in questa trappola così accuratamente predisposta; si arrestarono un momento quando si trovarono di fronte il canale, ma poi si diedero alla svelta a riempirlo di ramaglia e si precipitarono per attraversarlo. In quel momento gli arcieri di Acuto iniziarono dalle posizioni laterali il loro tiro incrociato, mentre i guerrieri del centro fermarono l'avanzata veronese. Quando la pioggia di dardi cominciò a fare i suoi effetti e tra le file sgomente dei veronesi cominciarono a prodursi delle falle, Acuto impartì l'ordine di avanzare e i suoi cavalieri appiedati si aprirono un inesorabile varco tra i nemici. La rotta dei veronesi fu completa e la maggior parte di loro o rimase uccisa sul campo o venne fatta prigioniera. La fama che Acuto aveva di essere il migliore capitano in Italia risultò pienamente confermata.


L
Lord Lupo
Confratello
Utente
1626 messaggi
Lord Lupo
Confratello

L

Utente
1626 messaggi
Inviato il 14 settembre 2005 14:17

(seguono due brevi saggi di Valter Fusco e Franco Cardini, che tentano di fare maggiore chiarezza su questo misterioso personaggio della nostra storia...)

 

ARDUINO, IL PRIMO RE D'ITALIA

 

"Del regno di cui Arduino volle esser re, e del suo trono malcerto, vi sono notizie precise; egli invece è come avvolto da una nebbia, qua e là rischiarata da improvvisi, corruschi, brevi bagliori - e ciò in vita come in morte" (Mino Milani)

 

“Fosca intorno è l’ombra di re Arduino” (Piemonte di Giosuè Carducci)

 

 

1. Correvano i primi anni dopo il Mille epoca di aspre lotte e di vendette, torbida e feroce ma anche pervasa di una profonda idealità, in cui si eleva e troneggia tra storia e mito la figura potentemente drammatica di Arduino, che dal marchesato d’Ivrea assurge al fastigio reale e insorge contro il dominio germanico e dei vescovi.

Arduino nasce probabilmente nel castello di Pombia intorno al 955 da Dadone che ebbe la marca di Ivrea prima di lui. Questo dominio comprendeva i comitati di Ivrea, Pombia, Vercelli, Stazzona, Bulgaria, Ossola e Lomello. In una data imprecisata sposa Berta, presumibilmente figlia del marchese di Liguria Oberto. Arduino succede al padre Dadone intorno all’anno 990. Cruento e irruente come un capitano di ventura, interprete della piccola nobiltà campagnola (i secondi militi), in contrasto con la vecchia nobiltà, appena assunto il governo della marca d’Ivrea cerca di rialzare il prestigio del potere marchionale e di rivendicare i diritti che erano man mano passati al potere ecclesiastico. Nel 955, successivamente alla concessione da parte dell’imperatrice Adelaide (reggente per conto del nipote Ottone III) della corte di Caresana al vescovo Pietro di Vercelli, fomenta disordini contro l’alto prelato con la speranza di rientrare in possesso di quelle terre.

Tra le contese con l’episcopato vercellese sembrano fondamentali le prerogative sulle importanti aurifodine della Bessa. Nel 997 i disordini sfociano in una rivolta armata che si conclude con la tragica uccisione del vescovo. Di questo episcopicidio, a torto o a ragione, è accusato Arduino, che riceve la scomunica da Warmondo vescovo di Ivrea. Un seguente diploma imperiale concede al vescovo di Ivrea la città con il suo territorio e quello di Vercelli, oltre il grande borgo di Santhià, che parrebbe includere l’importante zona della Bessa.

Arduino nel 1000 decide di recarsi a Roma per giustificarsi e domandare all’imperatore Ottone III di cassare le esenzioni rilasciate dalla nonna Adelaide e i provvedimenti fortemente punitivi. A Roma Arduino, per la solerzia del vescovo Leone, viene però citato avanti l’imperatore e il papa riuniti al sinodo, come episcopicida. Ne segue un giudizio veloce e severo. Viene destituito da marchese, passando il titolo al figlio Ardicione e condannato a farsi seduta stante monaco. Arduino rientra immediatamente nei suoi possedimenti, grazie anche all’aiuto, o quanto meno alla compiacenza, del cugino Olderico Manfredi, marchese di Torino, e si prepara a combattere.

Nei primi mesi del 1001, sfruttando le complicate situazioni politiche che impegnano altrove l’imperatore, con il suo esercito conquista Ivrea e Vercelli cacciando i rispettivi vescovi dalle loro sedi. Ottone III non potrà punirlo per le sue azioni poiché viene colto da morte improvvisa, avvenuta il 23 gennaio 1002 nel castello di Civita Castellana. Arduino è rapido nel trarre a proprio favore il vuoto di potere e la violenta reazione contro la politica imperiale che segue la scomparsa dell’imperatore. Il 15 febbraio dello stesso anno viene eletto re d’Italia da una dieta di principi e signori italiani appositamente convocata a Pavia nella basilica di San Michele, grazie anche all’assenza del potentissimo arcivescovo di Milano Arnolfo, impegnato altrove a Costantinopoli.

Sennonché i vescovi, ricolmi d’ogni sorta di privilegi concessi da parte dell’Impero, non potevano certo tollerare l’emancipazione dell’Italia, e ce la misero tutta per combattere l’intruso. Poco dopo, a Ottone III succede il cugino Enrico di Baviera. Nei primi mesi del 1003 questi invia in Italia Ottone di Carinzia, conte di Verona, per affrontare e sconfiggere Arduino, che però interviene prontamente, e vince il tedesco in battaglia a Fabbrica lungo l’Adige (Monte Ungarico) e lo costringe alla precipitosa ritirata. Il regno italico è salvo; tuttavia è molto disgregato, e il sovrano non riesce a imporre ovunque la sua volontà. Arduino resta debole anche dopo la vittoria di Fabbrica, perché non in grado di affrontare nuovamente l’assoluta strapotenza dell’imperatore tedesco. Tuttavia nel medesimo anno della splendida vittoria di Fabbrica favorisce la fondazione dell’abbazia di Fruttuaria presso San Benigno Canavese ad opera del nipote Guglielmo, figlio di sua sorella Perinzia e del conte di Volpiano.

L’anno 1004 scende in Italia lo stesso Enrico II con un fortissimo esercito, per chiudere, una volta per tutte, la partita con il ribelle Arduino, ma questi non accetta la battaglia in campo aperto e si arrocca, con i pochi fedelissimi rimasti al suo fianco, nella valle dell’Orco dove, grazie ad un naturale apprestamento difensivo imperniato sul castello di Sparone e sulla chiusa di Pont, sostiene un assedio pesantissimo, prolungatosi per quasi sette mesi. Il Chronicon Novalicense parla addirittura di un anno, ma gli spostamenti documentati dell’imperatore che il 14 maggio risulta a Pavia dove viene incoronato e già nel gennaio 1005 si trova rientrato in Germania, lasciano supporre che l’assedio si collochi nel vuoto di quei sette mesi.

Alla fine l’imperatore deve lasciare il campo per via delle sommosse che il duca Boleslao di Polonia, gli ungari e gli slavi, stanno creando al confine orientale dell’impero germanico. Arduino ritorna ad essere libero nel riprendere il suo posto di sovrano e recupera il pieno possesso dei territori persi, ma nonostante l’inaspettata vittoria rimane un sovrano che non può contare su molte forze disponibili e su un governo sicuro. Il suo potere è legittimato prevalentemente nel nord-ovest del Regno Italico, mentre restano quasi sempre incontrollabili le terre di Romagna, Toscana, Veneto, Friuli e il sud. Dopo l’assedio di Sparone Arduino regnerà altri dieci anni, senza più scontrarsi con l’imperatore essendo quest’ultimo sempre impegnato nella difesa dei confini dell’impero: tocca il colmo della potenza e della gloria ma è consapevole che la sua stella non può splendere a lungo.

Nel corso del 1013 il vescovo Leone, diventato nel frattempo molto forte e invadente, lo obbliga con un pretesto a muovergli ancora guerra e a occupare Vercelli. Questo episodio è il movente della nuova calata in Italia dell’imperatore Enrico II accompagnato da numerose truppe. Trovandosi ancora di fronte alla prospettiva di una guerra dalla vittoria difficile, ma soprattutto all’ultimo abbandonato dai più, nel dicembre del 1013, ormai vecchio e probabilmente con i primi segni della malattia che lo porterà alla fine, Arduino decide di lasciare il campo imbattuto, obbedendo alla condanna espressa a suo tempo dal papa.

Salvata con un lungo negoziato solamente la contea di Pombia a favore dei suoi eredi, si ritira in stato monacale all’abbazia di Fruttuaria, si spoglia delle insegne regali e le depone per sempre. Il primo re d’Italia, già in un lontano Medioevo precursore inconsapevole di un futuro in cui si è voluto scorgere il sentimento dell’indipendenza e dignità della patria, morirà un anno dopo, il 14 dicembre del 1015.

Arduino d’Ivrea esce dalla storia ufficiale repentinamente e drammaticamente come vi è entrato: sbuca con la spada in mano da una fosca notte risuonante di grida e illuminata di incendi, e scompare in silenzio, il mento raso, i piedi scalzi. La sua avventura si consuma in un lasso di tempo brevissimo, una ventina d’anni. La fiamma che ha fatto di lui un personaggio rigoroso, testardo, irriducibile, si è spenta d’improvviso.

Che cosa è veramente accaduto nell’estate del 1014? E che progetto aveva Arduino? Riaffermare il primato del trono, o spezzare il regno in feudi? Ebbe la capacità politica di utilizzare i secondi militi, inducendoli ad una lotta non loro? Ovvero lui stesso si ingannava, ed era diventato uno strumento di quelli? Ovvero ancora, aveva uno scopo segreto, e tutto quanto fece era soltanto l’inizio, un prologo: e l’obiettivo finale, quello che ci permetterebbe di capire, s’interrompe, non è mai terminato. Se Arduino aveva un segreto, certamente lo ha portato con sé nel silenzio del sepolcro di Fruttuaria.

 

2. Fino a qualche anno fa, il nome e le gesta di «Arduino, re d'Italia» riempivano addirittura almeno una buona mezza pagina dei nostri libri di scuola. Oggi, praticamente non se ne trova più traccia. Anche se sarà ricordato in questi giorni da una festa medievale a Cuorgnè, in provincia di Torino. Ma, dal momento che il passato (specie quello che s'insegna agli studenti) dipende largamente dal futuro, non è escluso che egli ricompaia trionfalmente a turbare i sogni dei nostri ragazzi, nel clima del revival neorisorgimentale, nozionistico e vagamente patriottardo imposto ai programmi scolastici di storia.

Difatti Arduino era l'eroe, si fa per dire, della riscossa «nazionale» dell'anno Mille, nella storia scolastica insegnata decenni fa dalle tante Maestrine dalla Penna Rossa ai ragazzi che leggevano Cuore o che indossavano la divisa da balilla. Inutile dire che tale riscossa era un grosso equivoco.

Ma chi era, in realtà, Arduino figlio di Dadone conte di Pombia, nato verso il 955 e investito dall'imperatore sassone Ottone II del governo della marca d'Ivrea? Si trattava di un nobile tagliagole del X secolo, di stirpe forse longobarda, che nel cupo e ferreo Piemonte del tempo riuscì, appoggiandosi soprattutto alla piccola nobiltà locale, a ritagliarsi un discreto potere lottando anzitutto contro quei vescovi ai quali i sovrani romano-germanici dell'epoca affidavano sovente anche il governo civile di città e di ampie circoscrizioni pubbliche e che erano spesso altresì inseriti nella rete vassallatico-beneficiaria del tempo.

Lottando contro il vescovo Pietro di Vercelli e riuscendo a farlo uccidere e a far bruciare il suo cadavere nel 997, Arduino ottenne il controllo di gran parte del Piemonte: ma la sua politica brutale ebbe l'effetto di mettergli contro tutti i vescovi della regione e di attirare su di lui sia i fulmini della scomunica pontificia, sia l'inimicizia di due successivi imperatori, Ottone III ed Enrico II. Ciò, d'altronde, gli fece meritare l'appoggio e il plauso di tutta una nobiltà laica, specie minore, che avversava cordialmente sia il riordino della società civile avviato dagli imperatori della casa di Sassonia, sia l'avvio di una vera e propria moralizzazione dei quadri della Chiesa che in quei sovrani trovava dei fermi sostenitori ma che intralciava chi da abusi e interessi sui beni ecclesiastici traeva vantaggio.

Fu così che, approfittando della morte dell'imperatore Ottone III (che secondo una riorganizzazione dell'impero romano-germanico imposta dal suo avo era, insieme, anche re di Germania e d'Italia), il 15 febbraio del 1002 Arduino riuscì a farsi eleggere re d'Italia nell'antica capitale longobarda di Pavia da un buon numero di nobili contrari all'opera riformatrice della dinastia sassone. Fu grazie tuttavia alla resistenza lealista degli aristocratici laici ed ecclesiastici soprattutto del Nord-Est e all'energia del nuovo imperatore Enrico II che l'avventuriero tagliagole fu battuto e costretto a rinchiudersi nella sua Ivrea e il sovrano sassone recuperava, nel 1004, la corona italica (simboleggiata da un venerabile oggetto sacro, la santa «corona ferrea» che ancora si venera e si ammira nella cattedrale di Pavia). Più tardi, per aver di nuovo cercato nel 1013 di avversare l'imperatore Enrico, che essendo stato eletto rex Romanorum in Germania scendeva a Roma per venir formalmente incoronato dal papa, venne costretto a deporre ogni forma di potere e a chiudersi, ormai anziano e ammalato, nel monastero di Fruttuaria, dove si spense un paio d'anni dopo.

Il regnum Italiae del X-XI secolo altro non era se non l'antico regno federale longobardo, che nell'VIII secolo era passato nelle mani di Carlomagno e il cui titolo era praticamente soltanto nominale e simbolico. Soggetto ai mutevoli umori d'un'aristocrazia in parte franca in parte longobarda, esso si estendeva formalmente su quasi tutta la penisola, esclusi tuttavia gran parte del Meridione e la Sardegna dove si era di nuovo affermato il controllo de gli imperatori bizantini o permaneva l'autonomia di alcuni principi longobardi, specie in Campania; ed esclusa la Sicilia, sotto il potere degli arabi musulmani che l'avevano conquistata fra IX e X secolo provenienti dalla Tunisia. Praticamente, quel «regno d'Italia» non esisteva. Ma il suo nome, associato con il fulgore della santa corona di Pavia al cui interno era (ed è) incastrato un cerchio di ferro che si diceva (si dice) ricavato da un chiodo della croce del Cristo, varcò i secoli. Era portato ancora dagli imperatori asburgici ai primi dell'ottocento, ai quali lo contese e lo strappò Napoleone. Dimenticato dopo il 1815, esso fece sognare i patrioti dell'Ottocento e venne riesumato, con configurazione e funzione diversa, dai Savoia nel 1859.

Il resto è mistificazione, uso politico e demagogico della storia. Con un gioco di prestigio fondato sull'omonimia e la mistificazione, il «regno d'italia» venne dotato di una continuità che non aveva e di un millennio di millantata antichità. E il tagliagole Arduino entrò nella galleria dei «Padri della patria» anticipatori dell'unità d'Italia. Uno dei pochi «delitti» dei quali, a dir la verità, egli era invece innocente.


D
Derfel Cadarn
Confratello
Utente
5942 messaggi
Derfel Cadarn
Confratello

D

Utente
5942 messaggi
Inviato il 14 settembre 2005 15:21

Sinceramente ho trovato estremamente interessanti i brani riportati da Fra.Sotto questa nuova luce mi sembra evidente come molte delle stereotipate allucinanti imputazioni alla Chiesa vadano giusto un attimino attentamente rivalutate.... :figo:

Complimenti Franz :D


M
Morgil
Confratello
Utente
5307 messaggi
Morgil
Confratello

M

Utente
5307 messaggi
Inviato il 18 settembre 2005 14:04 Autore

Carlo V°

 

nacque il 24 febbraio del 1500 a Gand nella Fiandra Orientale e morì a Yuste in Estremadura nel 1558. Era figlio di Filippo il Bello d’Asburgo, arciduca d’Austria e di Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia. Carlo ed il fratello Ferdinando, nato a Madrid nel 1503, dopo la morte del nonno Massimiliano I° (1519) e la morte precoce del padre Filippo (1506), si trovarono, ancora giovanissimi e senza colpo ferire, a capo di un impero immenso, grazie alle eredità di varie casate: quella tradizionale asburgica con Austria, Carinzia, Stiria, Tirolo e Carniola con Trieste, quella di Borgogna con le Fiandre e quelle di Castiglia e di Aragona, con il regno di Spagna, con tutti i territori del Nuovo Mondo e del regno di Napoli e di Sicilia. Per comprendere meglio come nacque questo immenso impero è utile, anche se ripetitivo, risalire a Massimiliano I°, l’imperatore grande mecenate, fondatore, tra l’altro, dell’Università di Vienna ed organizzatore di una solida ed efficiente amministrazione dell’impero. Il matrimonio di Massimiliano con Maria, figlia di Carlo il Temerario, duca di Borgogna, assicurò alla famiglia il possesso dei Paesi Bassi e della Franca Contea, situata nella Francia centro orientale. Suo figlio, l’arciduca d’Austria Filippo il Bello, si sposò con Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, i “re cattolici” che nel 1478 fondarono l’Inquisizione. Alla loro morte Giovanna, diventata regina, trasmise la corona a suo marito, che la resse fino alla maggiore età di Carlo, che a 16 anni divenne re di Spagna, di Napoli e di Sicilia. I due fratelli Carlo e Ferdinando, rimasti orfani precocemente per la morte a 28 anni del padre Filippo, con la madre, Giovanna la Pazza, malata di mente, non ostante avessero un carattere ed una educazione diversa per aver passato la fanciullezza molto lontani l’uno dall’altro, Ferdinando in Spagna dal nonno re d’Aragona e Carlo nei Paesi Bassi, grazie al loro innato amore per la pace, collaborarono sempre tra di loro, andando perfettamente d’accordo, salvo qualche lieve ombra sorta per la divisione dei beni. Per Carlo, nato a Gand, la vera patria era il mondo della Borgogna e delle Fiandre, non avendo mai avuto contatti con l’Austria asburgica del sud-est. Senti molto l’influsso della profonda religiosità fiamminga inculcatagli dal suo precettore Adriano di Utrecht, che diverrà poi papa Adriano VI°. Contribuì molto a plasmare il carattere dei due principi, ma soprattutto a preparare Carlo al compito di sovrano, la sorella del loro padre, l’arciduchessa Margherita, governatrice dei Paesi Bassi, molto simile come carattere a suo padre Massimiliano. L’Europa stava attraversando un periodo particolarmente difficile, l’immensa potenza raggiunta dagli Asburgo, senza alcuna guerra di espansione, con la nascita di un impero sul quale veramente “non tramontava mai il sole”, aveva in se qualcosa di miracoloso, per cui la fede nella loro missione di guida dell’umanità e di difesa della cristianità dai Turchi sembrava veramente confermata e benedetta da Dio, che poneva il destino del mondo nelle mano di Carlo e di Ferdinando. I due principi erano dei cattolici convinti, ma il loro atteggiamento religioso era soprattutto improntato dallo spirito del grande umanista Erasmo da Rotterdam, che esercitò un persistente influsso su entrambi i fratelli. Come Erasmo, aspiravano ad una armoniosa fusione della morale evangelica e della grande cultura classica, cercando di trarre dalla saggezza e dalla purezza del Vangelo la forza per lottare contro l’ignoranza, l’immoralità, l’impostura, il gretto dogmatismo e l’intolleranza ecclesiastica, cercando di non chiudere mai le proprie idee morali nei rigidi schemi di un sistema. Come Erasmo, furono profondamente turbati dalla riforma luterana, che respinsero e combatterono a lungo per impedirne la diffusione. Le difficoltà che Carlo ebbe con il papato, e successivamente anche suo figlio Filippo, rafforzarono lo spirito di indipendenza degli Asburgo, che si consideravano, per l’origine divina della monarchia, i veri protettori della Chiesa, con il pieno diritto ed il dovere di controllarla e reprimerne gli abusi. Basandosi su questo principio Carlo V°, durante il suo impero, trasse la motivazione e la giustificazione per tutto quello che decise di fare, dalla guerra contro i Turchi alla lotta contro i principi tedeschi protestanti, perchè riteneva suo compito combattere i nemici della cristianità e tra i nemici della fede primeggiava il re di Francia, Francesco I°, il quale, pur di contrastarlo e danneggiarlo, si era alleato con i luterani e persino con i Turchi che premevano verso Vienna. Con la guerra combattuta in Italia Carlo aveva voluto dimostrare di essere l’erede della politica ghibellina imperiale, esattamente come aveva fatto suo nonno Massimiliano e nel 1527, dopo una spedizione di lanzichenecchi a Roma, con messa a sacco della città, giunse ad una completa rappacificazione con il papa, che finì per incoronarlo imperatore non a Roma ma a Bologna nel 1530. La grande estensione dell’impero aveva creato qualche problema tra Carlo e Ferdinando, in quanto il centro di gravità della potenza asburgica si era spostato verso occidente ed esisteva il problema delle diverse leggi di successione, che in una parte dell’impero sostenevano la primogenitura, in un’altra parte la successione collettiva. Una prima dieta imperiale a Worms nel 1521 aveva proposto una divisione dell’impero, ma l’anno successivo a Bruxelles Ferdinando aveva ottenuto una diversa divisione, in base alla quale passarono a lui tutti i territori asburgici, dall’Alsazia fino al confine ungarico, mentre Carlo, oltre la corona imperiale, ottenne la Spagna con i relativi possedimenti del Mondo Nuovo e dell’Italia, più l’eredità burgunda. Si delineò così una linea spagnola ed una linea tedesca, che con il tempo finì per inglobare anche la Boemia e l’Ungheria, ponendo così le basi della nazione spagnola da un lato e dall’altro la struttura del futuro impero austro-ungarico. Carlo nel 1519, con l’aiuto molto interessato dei banchieri Fugger, che comprarono i voti dei principi elettori, era stato riconosciuto imperatore del Sacro Romano Impero, battendo il suo principale concorrente Francesco I° di Francia. Questa qualifica creò a Carlo più che altro dei gravi problemi; anzitutto perché era praticamente impossibile creare una organizzazione unitaria efficiente per tutto il vastissimo impero, per lo spirito d’indipendenza di molti territori con le continue rivolte interne in vari territori, per le continue guerre con Francesco I°, che era riuscito a sconfiggere nel 1525 nei pressi di Pavia, aggiungendo all’impero anche tutto il Milanese, poi per il problema della guerra contro i Turchi, che premevano continuamente ai confini con le loro scorrerie, ma soprattutto per tutti i problemi che gli creava la lotta contro l’eresia protestante allora in rapida diffusione, con l’anarchia dilagante in Germania e l’ostilità di molti principi tedeschi favorevoli a Lutero. Carlo, senza avere un momento di rilassamento, dovette subito impegnarsi a fondo contro la dilagante diffusione del luteranesimo in Germania e contemporaneamente bloccare l’avanzata dei Turchi, che si erano alleati con Francesco I°, arrivando alle porte di Vienna. Riuscì a sconfiggerli nel 1526, liberando Vienna e questo gli permise di impegnarsi maggiormente contro i principi tedeschi protestanti, che si erano uniti (Lega di Smalcalda), alleandosi persino con Francesco I°. Nel 1544 Carlo V° e Francesco I°, vista l’impossibilità di prevalere l’uno sull’altro, conclusero a Crépy una pace, che riconosceva a Carlo il possesso di Milano e nel 1547 a Muehlberg otteneva anche una grande vittoria contro la Lega dei luterani. Ma in realtà la verità era ben diversa, perché né i luterani né il successore di Francesco I°, il re di Francia Enrico II°, si consideravano sconfitti, per cui Calo V° con la pace di Augusta del 1555 dovette riconoscere il famoso principio “cuius regio eius religio”, in base al quale i principi della Lega potevano seguire la religione che preferivano, costringendo i sudditi ad adeguarsi. Carlo V°, stanco di governare un impero che gli procurava solo preoccupazioni, arrivato a 55 anni, decise di affidare tutta la parte occidentale del suo impero, compresi i Paesi Bassi ed i territori italiani, al figlio Filippo e di cedere i territori ereditati, la Germania ed il titolo imperiale al fratello Ferdinando, abdicando nelle sue mani nel 1556. L’abdicazione di un imperatore che più di tutti si era avvicinato all’ideale del monarca universale lasciò una profonda impressione nel mondo di allora. La realtà è che Carlo V° d’Asburgo non si ritirò in un convento, come si pensò per un certo tempo e neppure si fece costruire un grande palazzo vicino al monastero di Jeronimo de Yuste, nella regione spagnola dell’Estremadura, ma soltanto una piccola e modesta casa su di un fianco del monastero, continuando ad interessarsi sempre dell’impero, rimanendo consigliere dei figli e dei suoi ex collaboratori. Poiché era molto religioso volle che nella sua camera da letto fosse aperta una finestrella che dava nell’interno della chiesa del monastero, in modo da poter sempre seguire le sacre funzioni anche quando le forze cominciarono a venirgli meno e non fu più in grado di andare direttamente in chiesa. Morì serenamente dopo due anni, nel 1558, a 58 anni, molti per quei tempi, certamente pochi per il giorno d’oggi, probabilmente per una lenta e progressiva insufficienza renale, malattia che gli permise di essere lucido fino alla fine, interessandosi sempre dei problemi dello stato. Non è semplice farsi un quadro di questo grande imperatore, uomo profondamente religioso, amante soprattutto della pace, che si era trovato al vertice del più grande impero mai esistito e che l’obbligò a combattere continuamente, creandogli più preoccupazioni che soddisfazioni. Accettò la situazione per profonda disciplina ed innato senso dei dovere verso Dio, il quale, a suo giudizio, aveva posto nelle sue mani la difesa della cristianità. A 55 anni era probabilmente stanco, aveva capito di non poter più dare il meglio di se stesso per il bene dello stato e passò il testimone nelle mani di suo figlio Filippo, il quale, come re di Spagna, ebbe una vita ancor più travagliata del padre ed in quelle del fratello Ferdinando, il quale, come imperatore, ebbe il merito di lasciare in Austria una amministrazione efficiente, rimasta in auge, tale e quale, fino al 1918. Tiziano ci lasciò vari ritratti di Calo V°: uno dei primi, dipinto nel 1530, è quello del Prado di Madrid, che lo ritrae su di un cavallo nero, con armatura ed elmo piumato, quadro che non amo e non mi convince, perché Carlo V° era essenzialmente, per indole e per cultura, un uomo di pace. Il ritratto, a mio parere, più affascinante, dipinto nel 1540 e conservato nella pinacoteca di Monaco di Baviera, lo ritrae seduto su di una grande poltrona di velluto cremisi e frangiata d’oro. Carlo V° ha qui ormai quaranta anni, indossa un abito nero, molto severo e dal volto traspare una assorta malinconia. Un quadro molto simile lo possiamo trovare a Napoli al museo di Capodimonte. In tutti i dipinti Carlo V° ci appare come un uomo maestoso, anche se non molto alto, energico, con un grande autocontrollo, come poi lo descriveranno gli ambasciatori veneti. Per saperne molto di più si può risalire ai libri dello storico italiano Federico Chabod, “Carlo V ed il suo impero”, oppure a quelli dell’olandese Johan Huizinga, alla Storia d’Europa di H.A.L. Fisher ed il “Carlo V” di Karl Brandi. Certamente Carlo V° fu nell’insieme uomo spiritualmente rinascimentale, un seguace di Erasmo da Rotterdam, nato per comandare ma senza ambizioni di dominio, un romantico della cultura franco-borgognese, punto di partenza della storia moderna, degno successore di Carlo Magno ed ultimo vero imperatore del Sacro Romano Impero.


M
Morgil
Confratello
Utente
5307 messaggi
Morgil
Confratello

M

Utente
5307 messaggi
Inviato il 18 settembre 2005 14:12 Autore

un embargo d'altri tempi: Luigi XI re di Francia e il ducato di Borgogna

 

Stati Uniti e Inghilterra non sono le sole potenze che, nei tempi, abbiano imposto sanzioni economiche ad altre nazioni per modificare gli assetti politici del mondo a proprio favore. Gli embargos non li hanno inventati loro, anche se ne hanno sempre fatto largo uso come metodo di pressione o, se preferite, di… amichevole persuasione.

 

C’è infatti una guerra economica poco nota ai più, che fu condotta per anni nel XV secolo da Luigi XI re di Francia contro Carlo il Temerario duca di Borgogna: l’attanagliamento di uno Stato da parte di un altro, molto ben concepito e attuato con sorprendente intelligenza e tenacia in ogni particolare, e che stupisce per la sua “modernità”.

Al suo apogeo (seconda metà del 1400) il ducato di Borgogna era costituito da territori che comprendevano Olanda, Belgio, Lussemburgo, e che, incuneandosi profondamente nella Francia, giungevano fin quasi alla Savoia e alla Svizzera. Un vasto dominio, in posizione strategica ideale e con ampie possibilità di commerci internazionali. Per i suoi porti, le sue fiere, i suoi mercati era uno Stato molto ricco, secondo per importanza economica soltanto alla Repubblica di Venezia. Mezza Europa indossava i tessuti prodotti nei Paesi Bassi di Borgogna; la sua fiorente industria tessile è stata definita la Manchester del medioevo. Alla splendida corte di questo ducato mercantile e potente sarebbe in seguito nato e cresciuto quell’arciduca d’Austria che sarebbe poi divenuto l’imperatore Carlo V. .

 

Ma la potenza commerciale dello Stato borgognone aveva un nemico, ingelosito e ingolosito della sua ricchezza, Luigi XI re di Francia. Costui fu un vero maestro della guerra economica, quasi moderno nella varietà e perfezione degli accorgimenti che mise in atto per piegare la Borgogna. Gli atti di ostilità si acuirono nel 1470, quando la Francia chiese agli altri Stati l’embargo contro il ducato.

 

I territori borgognoni importavano grano dalla Francia, e Luigi fece attuare il blocco delle forniture per poter scatenare in quel paese una carestia; concluse con la Svizzera trattati in virtù dei quali venivano drasticamente ridotti gli scambi commerciali fra gli elvetici e i borgognoni; fece in modo che anche i mercanti inglesi deviassero i loro commerci dai mercati borgognoni con i quali avevano sempre intrattenuto ottimi rapporti, e si rimangiò la promessa di togliere il blocco commerciale che pur aveva fatto nei negoziati di tregua con Carlo il Temerario.

 

Così come avrebbe fatto nel secolo successivo Elisabetta I d’Inghilterra facendo depredare dai corsari inglesi la flotta mercantile spagnola di Filippo II che trasportava oro e argento dai possedimenti americani (la corona dei Tudor e la nazione britannica si arricchirono molto in quel periodo grazie anche a queste ruberie), Luigi giunse persino a incoraggiare la pirateria marinara contro la flotta di Borgogna. Riuscì inoltre a convincere le città mercantili della Lega anseatica (Lubecca, Amburgo, Stettino, ecc.) a non avvalersi più della città borgognona di Brugge (Bruges) come loro principale scalo commerciale in occidente; attuò una vera e propria guerra di boicottaggio contro le Fiere del ducato, particolarmente contro quella internazionalmente molto importante di Anversa. Un capolavoro di questa sua strategia di guerra economica fu addirittura la svalutazione della moneta borgognona che entrava o circolava in Francia, nell’intento di portare al fallimento i banchieri di quel paese; si accordò persino con Lorenzo il Magnifico de’ Medici (banchiere finanziatore di entrambi gli Stati) perché tagliasse i crediti alla Borgogna; complicità che tuttavia scatenò una spaccatura nella grande famiglia fiorentina, tanto che Tommaso Portinari, capo della filiale di Bruges, non volle rispettare gli ordini che gli venivano dalla sede di Firenze e continuò a concedere crediti alla Borgogna.

Come si vede, uno strangolamento economico in piena regola: fa venire in mente le “inique Sanzioni” che nel 1936 l’Inghilterra fece imporre all’Italia dalla Società delle Nazioni per ridurci alla fame e all’autarchia, quando conquistammo anche noi “un posto al sole” in Etiopia. Le grandi potenze imperialiste e predatrici non vedono mai di buon occhio un altro Stato che voglia ritagliarsi nell’assetto geopolitico del mondo un angolo di autonomia e di benessere.

 

Carlo il Temerario (temerario perché forse aveva osato troppo contro la crescente potenza francese, che nei secoli successivi sarebbe diventata una forza egèmone in Europa, e fra le più bellicose), Carlo, dicevamo, fu poi militarmente sconfitto nel gennaio del 1477, e gran parte dei suoi possedimenti furono incamerati dal regno di Francia.


M
Morgil
Confratello
Utente
5307 messaggi
Morgil
Confratello

M

Utente
5307 messaggi
Inviato il 18 settembre 2005 14:15 Autore

l'abiura di Galileo.

Oggi sentiamo tutti parlare, quasi quotidianamente, di “pentiti di mafia”: sono quegli illustri personaggi che, dopo aver ammazzato una dozzina di persone ciascuno e aver ricevuto svariate condanne all’ergastolo, una bella mattina si svegliano, brancano il primo giudice che gli capita e… “si pentono”; fanno il mea culpa dei loro peccati, spifferano al magistrato quello che sanno su altri mafiosi, e ricevono dallo Stato benefìci e protezione per sé e i loro parenti.

 

Non sappiamo se c’è una formula sacramentale con cui queste emerite persone dichiarano pubblicamente il loro interessato pentimento; conosciamo invece quella che la Chiesa di Roma (il Potere di allora, nel caso specifico) fece adottare ad un altro personaggio (lui sì veramente emerito) che potremmo definire non certo un pentito di mafia ma un pentito di scienza: Galileo Galilei (1564-1642). Anche lui dovette “pentirsi” di qualcosa davanti ai giudici dell’Inquisizione, anche se in cambio non ne ricevette quello che oggi è il tanto ambìto “regime di protezione” da parte dello Stato.

 

.

 

Le parole che gli fecero pronunciare sotto pena di scomunica e di condanna sono degne di essere ricordate, anche se tutti siamo ben a conoscenza del fatto:

 

 

 

.

 

“Io Galileo, figlio di Vincenzo Galileo, da Fiorenza, dell’età di anni settanta, costituito personalmente in giudizio ed inginocchiato avanti a Voi, eminentissimi e reverendissimi Cardinali, giuro che sempre ho creduto, credo adesso e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa Cattolica ed Apostolica Chiesa, poiché da questo Santo Offizio sono stato giudicato vehementemente sospetto d’eresia per haver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo et immobile, e che la Terra non sia centro e che si muova:

 

pertanto, volendo io levar di mente alle Eminenze Vostre con cuor sincero e fede non finta,

 

abiuro, maledico e detesto

 

li suddetti errori et heresie, e in generale ogni e qualunque altro errore, eresia o setta contraria alla Santa Sede. E giuro che per l’avvenire non dirò mai né più asserirò in voce o per scritto cose tali per le quali si possa aver da me simile sospizione”.

 

 

 

 

 

Pentimento in piena regola, non c'è che dire. Ma quale era il misfatto di Galileo, agli occhi della Santa Chiesa? Dobbiamo ricordare che la Chiesa si è sempre data da fare per insegnare alla cristianità non solo i princìpi della morale evangelica (e si può avere qualche dubbio sul fatto che, nei secoli, lo abbia fatto sempre bene), ma per dettar legge anche in materia di insegnamento scientifico; e la Bibbia, essendo stata "ispirata da Dio", veniva da essa considerata e imposta come l'unica fonte di conoscenza: anche, appunto, di quella scientifica. Di questo testo sacro era famoso (e fondamentale nel caso specifico di Galileo) un episodio di guerra nel quale, sotto le mura di una città nemica assediata, il condottiero del popolo d’Israele Giosuè, vedendo approssimarsi il tramonto e l’oscurità della notte che avrebbero impedito l’assalto alle mura, pronunciò la famosa frase “Fèrmati, o Sole”; come a dire: dammi ancora qualche altro momento di luce per portare a termine la mia impresa militare.

 

Ora - sosteneva la Chiesa - dal momento che il racconto di questo episodio bellico si trovava in un Libro ispirato da Dio, significava che Dio sapeva bene che il Sole si poteva “fermare”, non essendo immobile ma orbitando invece intorno alla Terra. Galileo aveva quindi bestemmiato contro la scientificità della Bibbia, perché aveva osato metterne in dubbio l’indiscutibile e sacra parola (Della serie: come ti inebetisco i popoli).

 

Il nostro uomo di scienza, insigne studioso di matematica e di fisica, nonché astronomo, pur essendo un buon cattolico era abituato a ben altri metodi che non a quello di affidarsi a un testo certamente sacro in tema di religione, ma non certo fonte di indiscutibili certezze quanto a scientificità. E aveva fatto sua, dimostrandone la validità, la teoria eliocentrica che era stata formulata da un altro grande dell’umanità, il polacco Copernico (1473-1543) e secondo la quale, come noi tutti oggi ben sappiamo, non è il Sole che può “fermarsi”, ma è la Terra che, con gli altri pianeti, gli orbita intorno.

 

Copernico la fece franca e non incorse negli anatemi della Chiesa, avvinghiata alla teoria geocentrica (la Terra al centro dell’universo) perché non ritenne opportuno pubblicare i suoi studi, considerandoli troppo rivoluzionari rispetto alla cosmologia tolemaica sino ad allora imperante. La sua opera fu infatti pubblicata postuma per merito di amici ed estimatori.

 

Al nostro povero Galileo andò invece un po’ peggio. Viveva in Italia, la Chiesa l’aveva in casa; quella che imperversava nella società cattolica d’allora era un’atmosfera di forte intolleranza e di completa chiusura verso le idee nuove, come quelle che avevano cominciato a scuotere il magistero della Chiesa di Roma con la Riforma luterana, e contro le quali era stato opposto il baluardo della Controriforma. Non c’era scampo, Galileo era un eretico e come tale doveva essere condannato. Data la tarda età, riuscì a evitare il carcere a vita; ma fu condannato ad essere confinato per sempre in conventi e dimore ecclesiastiche, per poi finire agli “arresti domiciliari”, diremmo oggi, nella sua casa di Arcetri, vicino a Firenze. E se un qualche “regime di protezione” gli fu accordato, lo ricevette dal granduca Ferdinando II de’ Medici, l’autorità laica che gli permise di continuare privatamente i suoi studi.

 

In quel domicilio coatto morì quasi completamente cieco (lui scrutatore del cielo) nel 1642, nello stesso anno in cui, in Inghilterra, nasceva Isaac Newton. La Scienza cominciava a produrre i suoi grandi uomini; alla Chiesa si stava cominciando a far capire che la sua missione sulla terra è solo quella di limitarsi a insegnare, senza roghi e supplizi, il messaggio morale di Cristo.


X
xaytar
Confratello
Utente
4597 messaggi
xaytar
Confratello

X

Utente
4597 messaggi
Inviato il 18 settembre 2005 16:08

molto bello l'articolo.... non avevo mai letto l'abiura di galileo!

solo due osservazioni:

1) la "colpa", oltre alla chiesa, la darei anche al sistema aristotelico che il tomismo aveva introdotto come dominante ^_^

2) manca il pezzo storico del: "Eppur si muove" :mellow:


U
Ulfang il Nero
Confratello
Utente
732 messaggi
Ulfang il Nero
Confratello

U

Utente
732 messaggi
Inviato il 18 settembre 2005 19:22
2) manca il pezzo storico del: "Eppur si muove" :mellow:

Mi pare che quella frase sia una leggenda popolare...o almeno..così scrive Indro Montanelli...

 

 

Comunque...ancora complimenti per i post,ragazzi...


Messaggi
244
Creato
19 anni fa
Ultima Risposta
18 anni fa

MIGLIOR CONTRIBUTO IN QUESTA DISCUSSIONE