E aveva fatto sua, dimostrandone la validità, la teoria eliocentrica che era stata formulata da un altro grande dell’umanità, il polacco Copernico
Purtroppo per chi scrive,non è assolutamente vero.Come già scrissi su un altro tread,formalmente i giudici inquisitoriali di Galileo avevano ragione.Sfortunatamente Galileo non aveva portato alcuna prova scientifica per sostenere la teoria eliocentrica.Come prova sosteneva,di fronte ai giudici,solo che le maree erano dovute allo scuotimento delle acque causato dal moto terrestre. Tesi scientificamente insostenibile.Già allora si sapeva che le maree sono dovute all'attrazione lunare.Agli inizi del 600 il sistema tolemaico e sistema copernicano erano di fatto due ipotesi quasi paritetiche.Inoltre Galileo qualche anno prima aveva preso un "abbaglio":aveva sostenuto che le comete fossero solamente illusioni ottiche..tesi invece smentita dagli astronimi gesuiti (cattolici, "inebetitori di popoli" eh ) ,che da tempo sostenevano si trattasse di corpi celesti reali.
Se Galileo avesse presentato come ipotesi la "sua"(a proposito..mi par di ricordare che prima di Copernico ci fosse stato già aristarco ad ipotizzare l'eliocentrismo..parecchio prima del polacco )teoria,penso nessuno avrebbe potuto ribattere nulla.Se poi si pensa che le prove scientifiche della teoria eliocentrica sarebbero venute un secolo dopo il processo di Galileo,e che il pendolo di Foaucalt risale a metà del 1800...
manca il pezzo storico del: "Eppur si muove"
In effetti,sta frase fu inventata un secolo dopo da un giornalista massone,che la attribuì al buon galileo
c'era la faccina dopo che rideva :P
E' vero XDDDDD Perdona l'eccesso di fame...la cena era vicena =P
ma figurati non c'è nulla da perdonare
però quella scena, anche se falsa, era indubbiamente epica....
o cmq ci fa riflettere sull'abiura di galileo... cioè... sarà stato convinto di quello che ha detto? o l'ha detto solo per salvarsi la faccia? io penso la seconda
Anche secondo me Io penso che Galileo fosse pressochè convinto delle sue teorie...solo non potesse dimostrarle.E' un po' come per altri postulati oggi,che non si posson provare ancora,ma dei quali certi uomini di scienza son decisamente convinti
LA FIGURA STORICA DI GESU'
I Vangeli - documenti riportati in maniera semplice - ritraggono un mondo idilliaco ben poco somigliante alla realtà storica mentre la Palestina - all'inizio dell'era cristiana - non era propriamente un mondo fiabesco
Al contrario era un luogo reale, popolato da veri individui; soggetto ad un complesso di fattori: sociali, psicologici, politici, economici e culturali spesso in contrasto tra loro.
Un mondo nel quale venivano stipulati accordi in segreto ed interessi occulti si contendevano il potere.
I Vangeli trasmettono ben poco o nulla di tutto questo per un motivo facilmente comprensibile: gli evangelisti ed i loro lettori vivevano in quel contesto storico; al pari di Gesù e dei suoi discepoli, erano sudditi dell'Impero romano le cui istituzioni erano loro note e con i cui rappresentanti avevano a che fare giorno dopo giorno.
Dal 63 a.C. Israele era diventato provincia dell'Impero romano con a capo Erode - un re marionetta - considerato un perfido usurpatore; nato in Idumea (regione non giudaica) sentiva molto il problema di non appartenere alla casta ebraica; pertanto cercò di legittimarsi sposando una principessa giudaica e per ingraziarsi la popolazione, ricostruì il Tempio di Gerusalemme su una scala senza precedenti; episodi, che non riuscirono – in ogni caso – a sanzionarne l’autorità.
Al contrario, nella Palestina del tempo di Gesù si era diffuso il desiderio di un leader spirituale che riportasse la Nazione a Dio, che effettuasse una riconciliazione con il divino.
Questo "capo" spirituale, quando fosse apparso, sarebbe stato riconosciuto come il re legittimo: il "Messia".
I cristiani sono portati a considerare Gesù avulso dalla politica, una figura esclusivamente spirituale; tuttavia, gli studi biblici degli ultimi anni hanno reso sempre più insostenibile questa interpretazione.
Il giudaismo dell'epoca non faceva, infatti, distinzioni tra politica e religione o per meglio dire: nella misura in cui la funzione religiosa del Messia comprendeva la liberazione del popolo dalla schiavitù, il Suo ruolo spirituale era anche politico.
Chi meglio di Gesù Cristo, quindi, avrebbe potuto impersonare tale ruolo? Egli era – secondo i Vangeli di Matteo e Luca – un vero legittimo re, discendente in linea diretta di Davide e Salomone.
Chi meglio di Lui avrebbe potuto avanzare una rivendicazione tecnicamente legale al trono dei suoi regali antenati?
Chi più di Lui aveva al suo seguito individui, provenienti dai ceti più disparati, pronti a sostenerlo in tali rivendicazioni?
Basta dare uno sguardo ad alcune frasi dedotte dagli stessi Vangeli per capire l’entità storica e politica rappresentata dal Cristo:
Luca 23:2 Gesù è così accusato"……sobillava la nostra gente alla rivolta, si opponeva al pagamento dei tributi a Cesare e proclamava di essere il Cristo, un Re" In Matteo 21:9 nella sua trionfale entrata a Gerusalemme, Gesù è salutato da una moltitudine che urla "Osanna al figlio di Davide" e in Giovanni 1:49, Natanaele dice chiaramente a Gesù; "tu sei il re d'Israele".
Come non rimanere perplessi di fronte all’ iscrizione "re dei Giudei" che Pilato ordina di affiggere alla Croce?
La tradizione cristiana ascrive questo gesto di Pilato ad un intento derisorio, ma, considerandolo sotto tale veste, l'iscrizione non avrebbe in ogni caso senso a meno che Gesù non fosse stato "realmente" considerato re dei Giudei.
Cosa ci avrebbe guadagnato, infatti, un tiranno prepotente, che cercava, in quel preciso momento ed a tutti i costi di imporre la propria autorità, nell’etichettare un profeta come re?
Avrebbe avuto, invece, un senso se Cristo fosse stato un legittimo re poiché, Pilato, nell’atto stesso di umiliarlo, avrebbe imposto la propria autorità su un legittimo discendente di una casa reale. Ma non basta, si riscontrano ulteriori prove della regalità di Gesù nella narrazione evangelica del massacro degli innocenti da parte di Erode ( Matteo 2:3 - 14); anche se può essere discutibile tale documento da un punto di vista storico, questo racconto ci passa un'ansia molto concreta da parte di Erode per la nascita del Cristo: "…all' udir ciò Erode fu preso da grande turbamento….convocò tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi …….e domandò loro dove dovesse nascere il Cristo"; "A Betlemme in Giudea - essi dissero - poiché così ha scritto il profeta.
Se Erode si sentiva tanto minacciato da un neonato, può essere stato solo per ciò che il bambino intrinsecamente rappresentava: un legittimo re con una rivendicazione al trono che persino Roma, nell'interesse della pace e della stabilità, avrebbe potuto riconoscere.
Solo una concreta sfida politica di questo tipo avrebbe potuto, secondo me, giustificare l'ansietà di Erode! Ma se il Cristo era, realmente, un discendente regale come si può rapportare tale immagine con l’icona del “povero falegname di Nazareth” al quale siamo abituati da secoli?
E’ il caso di sottolineare alcuni punti fondamentali per avere delle idee più chiare:
è sulla base del Vangelo di Marco 6:3 che si sviluppa la storia di Gesù come falegname ed è proprio a tale Vangelo che lo storico Geza Vermes, della Oxford University, si riferisce nel suo libro “Jesus the Yew per segnalare il comune uso dei termini: “falegname” e “figlio di falegname”, nell’antica letteratura ebraica.
La parola generalmente tradotta come “falegname” non indica, nell’originale greco, un semplice artigiano del legno bensì un “maestro” padrone di ogni arte, manualità e disciplina. Pertanto, secondo Vermes, il termine starebbe a significare: un insegnante, una persona di profonda cultura!
E’ inutile negare, infatti, che il linguaggio usato da Cristo appare di gran lunga superiore a quello su cui tanto abilmente scivola l'attuale iconografia.
Egli viene dipinto, in tutti i resoconti, come un uomo colto; un uomo capace di discutere, apertamente, nel Tempio al cospetto dei Saggi; situazione non molto usuale per un povero falegname!
Man mano si sta delineando una figura storica molto diversa da quella tramandata nel corso degli anni: un discendente reale; un uomo colto; un essere dotato di un forte carisma da essere seguito da una moltitudine di seguaci; proseguendo nella ricerca si evidenzia un altro falso storico:
Cristo non poteva essere nato nella cittadina di Nazareth poiché la stessa fu edificata nel III secolo, quindi “Gesù di Nazareth” rappresenta una errata traduzione dell’originale greco: “Gesù il Nazareno”!
Il “Nazareno”, termine che Lo identifica come appartenente ad uno specifico gruppo o setta con un ben preciso orientamento politico-religioso!
Tornando alla regalità del Messia, ci sono prove inconfutabili, che dimostrano la sua unzione; da alcuni frammenti, che si possono ricavare dal Nuovo Testamento, si può ricostruire una parte della verità:
Matteo 26:7 e Marco \4:3 - 5, si legge di un'unzione regale, cioè gli era stato versato sul capo un olio speciale - lo stesso olio che veniva usato per ungere gli appartenenti alla Casa reale – gli evangelisti precisano che detta unzione aveva comportato una spesa di trecento denari, l'equivalente forse di 3000 euro dei nostri giorni.
A sua volta, Giovanni 12:3 - 5, tenta di negare il significato di questa cerimonia, precisando che vennero toccati dall'olio solo i piedi di Gesù; tuttavia ci comunica che tale rito fu eseguito da Maria di Betania, sorella di Lazzaro e svela il senso della cosa specificando che il rito si svolse il giorno prima del trionfale ingresso di Cristo a Gerusalemme.
All’unzione, si aggiunge il Battesimo nel Giordano, che assume il significato di una vera e propria investitura come Messia o legittimo re.
Investitura di estrema importanza dal momento che il modus operandi di Gesù, dopo l'avvenuto rituale del Battesimo, subisce un cambiamento significativo; Egli inizia a viaggiare in ogni luogo della regione, mischiandosi a folle sempre più numerose e soprattutto suscitando l'interesse del pubblico che accorreva per ascoltarlo. E’ ormai indubbio che i Vangeli sono stati privati di valenze politiche ben presenti nella vera realtà!
Realtà che appare in tutte le sue articolazioni se si prova ad analizzare il processo subito dal Cristo, in tutte le sue angolazioni, compresa quella legale.
Nel leggere gli avvenimenti accaduti, dopo la sua unzione ed il Battesimo, vien da porsi delle domande:
quali possono essere stati i motivi per i quali le stesse persone che si affollavano intorno a Lui per darGli in benvenuto mentre entra a Gerusalemme, a soli pochi giorni di distanza richiedono a gran voce la Sua morte?
Perché la stessa moltitudine che ha invocato la benedizione divina sul figlio di Davide dovrebbe gioire nel vederlo mortificato ed umiliato dall'odiato oppressore romano?
Perché, ammesso che i resoconti biblici abbiano una qualche veridicità, la stessa popolazione che venerava Gesù dovrebbe aver fatto un improvviso e completo voltafaccia nel chiedere che una figura come Barabba venisse risparmiata?
Probabilmente le risposte sono contenute proprio nella particolare situazione politica nella quale sono avvenuti determinati fatti e nel “ particolare” giudizio al quale Egli è stato sottoposto!
Gli storici ci dicono che la Palestina si ribellò nel 66 d.C. e non fu certo un avvenimento improvviso in quanto la rivolta " covava sotto le ceneri"! Dall'inizio del secolo, infatti, le fazioni militanti erano diventate sempre più attive; avevano condotto una guerriglia prolungata rapinando carovane di rifornimento dei romani, attaccando contingenti isolati di truppe romane, sfidando le guarnigioni e creando più caos possibile.
Gesù, sempre secondo taluni storici, era un combattente ma non un rivoluzionario qualunque in quanto se fosse stato simile ad altri avrebbe potuto conquistare il favore popolare ma non certo essere acclamato Messia! Come è stato già detto: possedeva una legittima base di riconoscimento.
A differenza del normale rivoluzionario, Egli va visto per ciò che gli stessi Vangeli ammettono fosse: un pretendente al trono di Davide, un legittimo re, il cui scettro implicava una sovranità sia spirituale sia temporale.
Del processo di fronte a Pilato sappiamo praticamente quanto riportato dai Vangeli benché l'Imperatore Massimino ( antagonista e predecessore di Costantino) nel contesto della sua persecuzione verso i cristiani ( avversari politici in quanto favorevoli al suo avversario) predispose la stampa e la diffusione delle memorie di Pilato (acta Pilati) integralmente tratte dagli archivi imperiali.
Eusebio, vescovo cristiano, ci dice che furono inviate copie presso le scuole affinchè i bambini le imparassero a memoria e si rendessero conto della pericolosità sociale dei cristiani.
Strano è il fatto che con l'avvento di Costantino, questa documentazione venne letteralmente fatta sparire, mentre nessun tentativo di contestarla o ricercarla risulta compiuto dalla Chiesa cristiana dell'epoca.
Le altre descrizioni del processo e la relazione di Pilato sono costituite dal resoconto di Anania (425 d.C.).
Da tali documenti e da innumerevoli ricerche effettuate nel tempo, è molto probabile che il processo a Gesù Cristo possa essere considerato un procedimento giudiziario, che - in qualche modo- intendeva fermare la potenza rivoluzionaria della parola e del pensiero, ma che ebbe un evidente significato politico perché la dottrina divulgata dall'Imputato costituiva una vera sfida al potere dominante!
"Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire perché si è fatto figlio di Dio" con queste parole i pontefici ebrei ed i loro seguaci si scagliano contro Ponzio Pilato, il praefectus Judaeae, uscito dal Pretorio per spiegare che ritiene innocente quel Gesù che loro hanno denunciato e intende liberarlo; presa di posizione altamente osteggiata poiché nessuno dei presenti intende accettare le prove a favore dell’imputo, presentate dal prefetto.
A Pilato, pertanto, non resta che rientrare nel Palazzo per proseguire quel processo inutile nella piena consapevolezza che la “condanna” sia stata già decisa, prima ancora del giudizio.
Si pone davanti al condannato e Gli chiede: “Tu, di dove sei?” senza ottenere nessuna risposta; questo atteggiamento lo irrita ed, allora, prosegue dicendo;” Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti ed il potere di crocifiggerti?”
Con tale minaccia Pilato riesce a spezzare il silenzio di Gesù, che, invece di andargli incontro, gli rende manifesto quali siano i termini autentici del suo potere" Non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo ha una colpa più grande chi mi ha consegnato a te!"
Non vi sono molte scene nella letteratura mondiale che mostrino con maggiore efficacia il problematico rapporto tra diritto e potere come questo passo del Vangelo secondo Giovanni ( 19,7 - 11).
I moduli espressivi ed il pensiero del quarto evangelista hanno contribuito forse in misura maggiore dello scarno resoconto dei tre sinottici a far sì che le immagini del processo a Gesù da quasi duemila anni si presentino vive agli occhi dei cristiani e che le stesse immagini abbiano costantemente ispirato scrittori, pittori e musicisti.
Al di là dell'effetto plastico, è indiscutibile che per un numero infinito di esseri umani, che avevano subito i soprusi del potere, ai quali era negata giustizia, il proprio destino si rifletteva nelle scene archetipiche del processo e della crocifissione di Gesù, dalle quali traevano conforto.
Il racconto della passione proposto dai quattro evangelisti acquista, pertanto, il suo significato storico universale proprio per il fatto che in un certo senso rappresenta l'atto costitutivo di una religione alla quale oggi aderisce un terzo dell'umanità; ma le critiche suscitate dalla testimonianza degli evangelisti sono determinate dalle contraddizioni esistenti all'interno di ogni singolo Vangelo come pure fra i vari Vangeli.
Fonti non cristiane, in particolare gli Annali di Tacito (XV, 44,3) confermano che Cristo fu condannato da Ponzio Pilato e che la crocifissione era una pena prettamente romana e non ebraica.
Il racconto della passione proposto da Marco è il più breve, il più semplice e probabilmente il più antico.
L'evangelista dovrebbe averlo scritto circa una generazione dopo la morte di Gesù, basandosi oltre che sulla tradizione orale su documenti scritti.
Giovanni si avvicina al resoconto storico introducendo dei testimoni oculari: dopo l'arresto e la consegna al pontefice, uno dei discepoli che conosceva quest'ultimo, ebbe la possibilità di entrare nel cortile (Gv18,15).
Questo testimone risulta anonimo al pari di colui che vide che dal costato trafitto con la lancia usciva sangue ed acqua, la veridicità di questa testimonianza è particolarmente sottolineata dall'evangelista ( Gv 19,35).
Un parametro significativo per effettua una critica può essere rappresentato dall’amministrazione provinciale romana in generale e dall’amministrazione della provincia della Giudea in particolare, della quale ci informa Giuseppe Flavio nella Guerra giudaica (Bellum Iudaicum) e nell'Antichità giudaiche (antiquates Iudaicae).
Questo scrittore ci offre, infatti, un quadro della personalità e del modo di amministrare di Ponzio Pilato che – storicamente parlando - deve essere rapportato all'immagine di lui e del suo modo di condurre il processo che ci offrono gli evangelisti.
E’ lecito chiedersi, infatti, fino a che punto i discepoli di Gesù erano informati sulle sue ultime ore!
Un buon numero di testimoni era a conoscenza dei meri fatti esterni: gli inviati dei pontefici e gli scribi, con i quali Gesù aveva avuto screzi anche in passato, lo arrestarono la sera di Pasqua, quindi il 14 nisan, nel giardino di Getsemani e subito la mattina successiva, i pontefici lo consegnarono legato al Governatore.
Quella stessa mattina, Pilato lo fece condurre al Golgota dai suoi soldati, dove venne crocefisso: apparve evidente che era stato flagellato.
Al processo la decisione sarebbe addirittura stata presa davanti ad un vasto pubblico,
I Vangeli concordano sul fatto che l'esito del processo non fu determinato dal diritto, romano o ebraico che fosse, bensì dal potere.
Come già detto, Pilato aveva deciso di liberare Gesù ma nella successiva lotta di potere era stato sconfitto dai pontefici che lo avevano messo sotto pressione usando come argomento le moltitudini radunatesi davanti al Pretorio per chiedere l'amnistia tradizionalmente concessa per Pasqua.
E' probabile che sull'udienza vera e propria nel Pretorio nessuno dei discepoli di Gesù e della cerchia più vasta dei suoi seguaci avesse notizie di prima mano.
Lo stesso dicasi per il presunto interrogatorio nel sinedrio che sarebbe avvenuto la sera stessa dell'arresto.
Su questa udienza preliminare Marco, Luca e Giovanni danno infatti informazioni diverse.
Molti storici hanno sostenuto e con buone ragioni che le diverse descrizioni siano state aggiunte dopo l'interrogatorio da parte di Pilato.
Mi sembra palese che un interrogatorio su questioni di fede non sarebbe servito a nulla dal momento che i pontefici avevano sin dal principio mirato ad una decisione politica.
La brutalità dell'arresto svelò subito a Gesù le loro intenzioni "Siete venuti come contro un ladro e un ribelle con spade e bastoni a catturarmi - Ogni giorno ero presso di voi nel tempio a insegnare e non mi avete preso" ( Mc 14,48 - 49; Mt 26, 55; Lc 22, 52 - 53).
Queste due frasi, che rappresentano una reazione logica e perciò credibile, furono le ultime che i discepoli udirono dalle labbra di Gesù prima di fuggire per andarsi a nascondere.
Dalle circostanze dell'arresto potevano prevedere, infatti, che davanti al prefetto, i pontefici avrebbero accusato il Cristo del delitto di lesa maestà; per i pontefici era questo il modo più facile per sbarazzarsi di un pericoloso avversario.
Per farlo sfruttarono la Pasqua, quando il prefetto dalla sua residenza di Cesarea fece ritorno a Gerusalemme per svolgere la sua attività di giudice.
Al di là di come si sarebbe potuta motivare l'accusa nel dettaglio, essa sarebbe in ogni caso culminata nell'imputazione di Gesù, che sosteneva di essere il re dei Giudei.
Con il desiderio di Pilato di liberare l'innocente Gesù il processo avrebbe potuto concludersi ma proseguì come era logico aspettarsi visto la situazione politica del tempo.
Proviamo ora a chiederci se il processo avvenne davvero in pubblico, con il popolo a contatto diretto con Pilato: senza dirlo esplicitamente Marco dà l'impressione che si tratti di un processo pubblico; il suo resoconto è coerente con il fatto che un prefetto di norma amministrava la giustizia pubblicamente. Quello che sappiamo con sicurezza è che il processo dal principio alla fine si svolse all'interno del Pretorio poiché i sommi sacerdoti – per evitare ogni scalpore- preferirono tale sede; sede approvata dallo stesso Pilato onde evitare tumulti di massa.
Pilato segue delle decisioni già scritte; Pilato tentenna in alcune occasioni; Pilato si adegua…….ma chi era in realtà questo personaggio? La sua immagine delineata dai Vangeli corrisponde o meno a quella fornitaci dalla tradizione non biblica?
Dal punto di vista storico, sappiamo che la Giudea, un territorio piccolo, di recente acquisizione, faceva parte di quel terzo gruppo delle province imperiali, che non veniva amministrato da ex consoli o pretori, provenienti dal ceto dei senatori, bensì da “praefecti” provenienti dal ceto dei cavalieri.
Un'iscrizione trovata nel 1961 a Cesarea, conferma l'ipotesi che Pilato fosse con certezza un prefetto.
In Giudea, dove ogni politica aveva profonde valenze religiose, il rapporto tra prefetto e popolazione era molto difficile.
Nel caso di Ponzio Pilato, un esempio può far comprendere la sua difficoltà a governare e ad imporsi con energia: egli intendeva costruire un'acquedotto ma i sacerdoti, che amministravano le casse del Tempio, si rifiutarono di versare una parte del denaro per questa opera pubblica! ( BII, 175 - 77; AIXVIII,60 - 62).
La svolta nel processo a Gesù ci fa comprendere che dovette, ancora per una volta, capitolare davanti ad una coalizione fra aristocrazia sacerdotale e popolo.
Per onore della cronaca, si deve comunque dire che Pilato amministrò tale processo con molta correttezza e questo ci rimanda al dialogo fra lo stesso prefetto e Gesù: Pilato apre l'accusa chiedendo "sei tu il re dei Giudei?" l'Imputato risponde:" Tu lo dici!"
Questa risposta stringata è ambigua; può essere, infatti, una perifrasi di un succinto " Si" oppure lasciare aperta la risposta " Sei tu a formulare ipotesi sulla mia presunta regalità non io"
Anche i Vangeli concordano sul fatto che Pilato avrebbe volentieri liberato Gesù; rispondendo, infatti, alla reiterata domanda del giudice, l'imputato avrebbe solo dovuto smentire l'accusa, tanto evidentemente falsa, di essere il re dei Giudei.
Ma Gesù non andò incontro a Pilato, mantenne il suo silenzio e così facendo si rese colpevole di contumacia; un delitto per il quale la flagellazione sarebbe stata la pena meno severa ed era solo questa la pena che il prefetto voleva infliggergli!
Gesù, tuttavia, si giocò la clemenza del Giudice poiché tacque malgrado la flagellazione, mentre i soldati di Pilato lo schernivano come "re dei giudei"!
Il silenzio di Gesù è il nocciolo autentico del processo!
Perché abbia taciuto con tanta ostinazione, potrebbe essere spiegato dal fatto che come Messia doveva rappresentare un severo leader, militare e liberatore; pronto a far valere i propri diritti con la forza e nel caso fosse stato necessario, a ricorrere anche alla violenza.
Quanto impersonava e tutto quello in cui credeva gli impediva di chiedere la grazia di fronte ai nemici che lo stavano condannando.
Egli era un combattente e gli stessi Vangeli ci offrono una base solida per la conferma di tale immagine.
Ripercorrendo la Storia di quel preciso momento non è difficile trovare alcuni fatti di estremo interesse:
la Giudea, pochi anni dopo la morte di Erode, venne annessa all'Impero romano come provincia procuratoria, la sua capitale era Cesarea.
Ben presto venne ordinato un censimento per la riscossione delle tasse ed il Sommo Sacerdote ebreo dell'epoca diede il suo assenso e sollecitò la popolazione a collaborare.
Immediatamente, esplose una fiera resistenza nazionalistica, diretta da un profeta della Galilea: costui è noto alla storia come Giuda il Galileo, o Giuda di Camala.
Giuda creò un movimento ed i suoi membri divennero noti come " Zeloti", che tradotto voleva dire" Zelanti nelle buone imprese".
Negli anni, durante i quali operarono la loro resistenza, vennero, però, spesso indicati come Lestai (briganti) o Sicari (termine derivato da "sica" un piccolo pugnale a lama curva prediletto dagli Zeloti per gli omicidi politici).
La loro posizione era piuttosto netta: Roma era il nemico; nessun ebreo doveva pagare i tributi a Roma; nessun ebreo doveva accettare come signore l'Imperatore romano, l'unico signore era Dio, che aveva conferito ad Israele un diritto di nascita unico e aveva stretto un patto con Davide e Salomone.
Secondo gli Zeloti il dovere patriottico e religioso di ogni ebreo era lottare perché si tornasse a questo diritto di nascita, a questo patto, perché sul trono di Israele riprendesse posto un legittimo re.
In nome di questi fini, ogni mezzo era lecito: Flavio Giuseppe nella sua opera "Antichità giudaiche" dice espressamente"……essi non tengono inoltre in minimo conto la morte di alcun tipo, né piangono le morti di parenti e amici, né simili paure possono spingerli a chiamare Signore un qualunque uomo…."
Se Gesù aveva tra i propri seguaci figure come Giuda il Sicario ed altri Zeloti, è improbabile che questi seguaci fossero placidi e pacifici; al contrario, parrebbero coinvolti nel tipo di attività militari e politiche dalle quali, Gesù, stando alla tradizione si sarebbe distaccato.
Joseph Zias del Dipartimento alle Antichità d'Israele ed Eliezer Sekeles della facoltà di Medicina dell'Università ebraica nell'opera "The Crucified Man from Giv'at ha - Mivtar" affermano" …..quali che fossero i rapporti di Gesù con gli Zeloti, i romani lo hanno senz'altro crocefisso in quanto rivoluzionario".
E' indiscutibile, infatti, che i romani percepissero Gesù come figura militare e politica e che lo abbiano trattato come tale.
La crocifissione era una pena riservata alle trasgressioni alla legge romana; Roma non si sarebbe presa il disturbo di crocefiggere un uomo che predicava un messaggio puramente spirituale, un messaggio di pace.
Inoltre, è bene ricordare che i due uomini che sarebbero stati crocefissi con Lui vengono descritti come "Lestai", Zeloti e non sono criminali comuni, ma rivoluzionari politici , ovvero, combattenti per la libertà.
Gesù stesso, nel Vangelo secondo Luca 22: 36, ordina, a tutti i suoi seguaci che non possedevano ancora una spada, di comperarsene una, anche a costo di vendere il mantello. Quando Gesù viene arrestato nel Getsemani, per lo meno uno sei suoi seguaci porta la spada e la usa per tagliare un orecchio al servo del Sommo Sacerdote; nel quarto Vangelo, l'uomo armato di spada viene identificato come Simone Pietro. Nel trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme a dorso di un asino, circondato da una folla che sventolava rami di palma, Egli inscena senza timori uno spettacolo pubblico; uno spettacolo per il quale sapeva benissimo di poter essere stigmatizzato oppure essere riconosciuto per quello che diceva di essere. Un atto di piena sfida a Roma, un atto di deliberata militante provocazione.
Che l'ingresso di Gesù a Gerusalemme fosse intriso di implicazioni politiche diviene evidente pochi giorni dopo, quando entra nel Tempio ed accusa la popolazione di averlo trasformato in una "spelonca di ladroni" (Marco 11: 17).
Non si può credere che si sia trattato di un evento di poco conto o che si sia svolto senza ricorso alla violenza: Egli arriva a rovesciare i tavoli dei cambiavalute! Si presume che ciò abbia provocato un vero e proprio tumulto.
Qui, nuovamente, adotta una tattica di scontro aperto, segue una rotta di deliberata sfida all'autorità costituita.
In questi ultimi due episodi, i Vangeli probabilmente giungono più vicino a mostrarci un vero ritratto del Gesù storico.
Il processo, non sempre preciso, di traduzione dei Vangeli è servito a nascondere informazioni storiche di estrema importanza; sappiamo bene, infatti, che una sola parola può trasmettere quantità significative di retroterra storico e se il senso anche di una sola parola viene alterato, le rivelazioni che essa offre andranno perdute.
Ma chi erano esattamente i seguaci di Gesù?; Chi erano gli uomini che al Suo ingresso a Gerusalemme lo acclamarono come il Messia?; Chi, fra la popolazione della Terra Santa dell'epoca, aveva interesse a veder riuscire la sua impresa?
Storicamente parlando, sappiamo che Gesù ottenne sostegno da persone di classi sociali estremamente diverse: estremisti politici; poveri contadini; ricche donne i cui mariti occupavano posizioni ufficiali nella politica stessa di Gerusalemme; commercianti e tanti altri ancora.
E’ necessario sottolineare che la Terra Santa, in quel preciso momento storico, pullulava letteralmente di religioni, sette e culti diversi: fra questi i Sadducei e i Farisei sono familiari, se non altro di nome, alla tradizione cristiana.
I Sadducei rappresentavano la casta sacerdotale ed occupavano molte delle posizioni civili ed amministrative più importanti all'interno del territorio stesso; seppero adattarsi molto bene all'occupazione romana e per questo i loro nemici stessi li apprezzavano come collaboratori.
I Farisei consideravano invece la Religione molto più flessibile, più soggetta a crescita, modifiche e sviluppi, non incarnata in maniera così esclusivista dal Tempio e dai sui riti.
La posizione di queste due caste di fronte alla figura di Gesù può essere così tradotta: i Sadducei, che avevano legato i loro interessi a Roma e godevano di prerogative uniche nel Tempio, dovevano reagire a Gesù esattamente come risulta dai Vangeli; ma i Farisei dovevano fornirgli alcuni dei suoi più fedeli e ferventi seguaci e sarebbero stati tra i primi a considerarlo il Messia.
La terza suddivisione principale del Giudaismo dell'epoca era quella degli Esseni, di questa casta conosciamo ben poco anche se con la scoperta dei Rotoli del Mar Morto per la prima volta è diventato disponibile un "corpus" di materiale esseno, che permette agli storici di poterli valutare sul loro terreno.
A tal proposito, va detto che gli Esseni appartengono alla storia, ma spesso la loro dimensione mistica fortemente intessuta di cultura e religione giudaica ha dato spazio ad illazioni suggestive e ricostruzioni prive di rigore filologico, che hanno condotto alla formazione di fantasiosi luoghi comuni.
Infatti, stando alla maggioranza delle fonti canoniche coeve, gli Esseni non esistevano, anche se Filone d'Alessandria vi si riferisce già nel " Quod omnis probus liber sit"; Plinio il vecchio ne accenna nella " Historia Naturalis"; mentre Flavio Giuseppe li ricorda più volte nelle " Antichità giudaiche", nella " Guerra Giudaica" e nella " Vita".
Per onor di cronaca, occorre anche aggiungere che, attualmente, la tesi tendente a collegare Cristo agli Esseni appare in gran parte ridimensionata.
Infatti, malgrado che l'ipotesi di Gesù come esponente di detta setta abbia ottenuto ampia eco dopo il ritrovamento dei Manoscritti di Qumran. tuttavia, all'indagine critica e storica effettuata nel corso degli anni, la stessa tesi non ha retto. La prima cosa che appare evidente è che gli Esseni , sia nello stile di vita come negli insegnamenti religiosi, erano più rigorosi dei Sadducei e Farisei; avevano, inoltre, un orientamento mistico ben preciso in comune con le varie Scuole misteriche prevalenti nell'area mediterranea dell'epoca.
Riflettevano influenze sia egiziane sia greche ed avevano vari punti in comune con i seguaci di Pitagora.
Inoltre, gli Esseni erano esperti di quelli che oggi si chiamano "studi esoterici", come l'astrologia, la cartomanzia, la numerologia e le varie discipline che in seguito si sono organizzate nella Cabala.
Flavio Giuseppe nella "Guerra Giudaica II.VIII" dice di loro:" Alcuni si ingegnano a prevedere le cose che saranno, con la lettura dei sacri libri e l'uso di diversi tipi di purificazione, e la continua familiarità con i discorsi dei profeti…."
Nonostante le recenti scoperte, gli Esseni vengono ancora considerati alla luce di quattro antichi preconcetti: si ritiene che risiedessero esclusivamente in comunità isolate del deserto, di tipo monastico; si ritiene che fossero pochissimi di numero; si ritiene che praticassero il celibato; si ritiene che fossero non violenti, che aderissero ad un pacifismo di impronta mistica.
Dopo la scoperta dei rotoli del Mar Morto, le ricerche hanno stabilito che tutte queste convinzioni sugli Esseni sono errate.
Questo popolo, infatti, oltre a risiedere nel deserto abitava anche centri urbani, dove possedeva case non solo per i residenti ma anche per i confratelli giunti da lontano e per altri pellegrini.
L'idea che tutti gli Esseni praticassero il celibato deriva da Flavio Giuseppe, il quale, comunque, si contraddice quando nella sua opera "Della Guerra Giudaica, II:VIII" afferma che alcuni di loro erano sposati.
Inoltre, è bene ricordare che nei Rotoli del Mar Morto, si riscontrano norme vigenti per i membri della setta sposati con figli e nel vicino cimitero nei pressi di Qumran, sono state, anche, rinvenute sepolture di donne e bambini.
Per quanto concerne poi la presunta scelta per la non violenza attuata dagli Esseni, questa è smentita da prove significative.
Dopo il sacco di Gerusalemme, infatti, da parte dei Romani nel 70 d.C. la resistenza organizzata di Israele venne sistematicamente estirpata, con l'eccezione della fortezza di Masada, sul Mar Morto.
Generalmente si ritiene che i difensori di Masada fossero Zeloti, Flavio Giuseppe che era presente li indica come Sicari, che avevano un orientamento religioso prettamente esseno.
Oltre ai Sadducei, Farisei ed Esseni, il giudaismo - ai tempi di Gesù - comprendeva molti altri gruppi e sette più piccoli e meno noti.
Due gruppi in particolare hanno cominciato a ricorrere con frequenza sempre maggiore negli studi biblici degli ultimi anni.
Il primo è noto come setta " dei Figli di Zodak" o Zadochiti; l'altra importante setta è denominata " partito dei Nazareni" e ne erano membri gli immediati seguaci di Gesù.
L'esistenza di molte pseudo sette ha provocato notevole confusione ed incertezza fra gli studiosi della Bibbia, ed il caso creato fra le varie teorie ha oscurato, senza dubbio, una chiara percezione dell'attività militare e politica di Gesù.
Il Dottor Robert Eisenman, ha pubblicato nel 1983 un libro: "Maccabees. Zodokites, Cristians and Qumran", che riesce in parte a fare luce su tale materia così intrigata e costituisce a tutt'oggi uno dei più importanti studi sull'argomento.
L'autore in questione, infatti, lavorando su materiali originali e mettendo in discussione l'affidabilità di vari commentatori, identifica i vari nomi con i quali i membri della comunità di Qumran alludevano a sé stessi.
Tale analisi porta Eisenman a concludere che : i Figli di Zodak, gli Uomini di Melchizedek, gli Ebionim, gli Esseni ed i Nazzareni sono la stessa identica cosa e il loro obiettivo primario sembra essere quello della legittimazione dinastica del Sommo Sacerdote.
Nel Vecchio Testamento, il Sommo Sacerdote tanto di Davide come di Salomone si chiama Zodok e per tradizione questo è il titolo strettamente legato all'idea di messia, all'unto, al legittimo re.
Più specificatamente è collegato al messia davidico.
I Nazareni, quindi non sono un partito separato ma semmai il nucleo; l'equivalente di uno Stato Maggiore, un Comitato, un Gabinetto.
A tale proposito, passiamo ora ad osservare più da vicino questo Gruppo ed il processo tramite il quale le circostanze, la storia e San Paolo hanno cospirato per precipitarlo nell'oblio.
Dunque, come precedentemente scritto, i Vangeli sono opere, poetiche e devozionali, più che cronache e trattano di un periodo precedente la loro composizione, forse di sessanta o settanta anni.
A parte i Vangeli stessi, il libro più importante del Nuovo Testamento è quello degli Atti degli Apostoli, che rappresentano il tentativo di tracciare un resoconto storico.
L'autore degli Atti si identifica con il nome di Luca ed il suo racconto si concentra soprattutto sulla figura di Paolo, che lui conosceva a livello personale; sempre da Luca veniamo a sapere il contenuto della missione e conversione dello stesso Paolo ed apprendiamo molte cose in merito al partito di Nazareno; vale quindi la pena di proporre per sommi capi il retroterra storico coperto dalla narrazione di questi Scritti.
Sappiamo che la data della crocifissione è ancora molto incerta. Il Nuovo Testamento dice solo che l'evento si è verificato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista che - a sua volta - non è databile con esattezza; tuttavia è possibile che sia stata provocata dalla sua critica alle nozze tra Erode ed Erodiade (si vedono Matteo e Marco) dopo il 28 d.C. non più tardi del 35 d.C.; in base a questo evento, molti storici datano la Crocifissione, tra il 30 ed il 36 e proprio in quest'ultimo periodo ci fu una sollevazione in Samaria, guidata da un messia samaritano, che fu brillantemente soffocata e tutti i ribelli, compreso il leader, vennero sterminati.
A quel tempo, forse un anno e mezzo dopo la morte di Gesù, i Nazareni dovevano già essere numerosi ed onnipresenti, perché Paolo, che agiva in nome della casta sacerdotale sadducea ed era fornito di mandati rilasciati dal Sommo Sacerdote, si propone di stanarli fino a Damasco.
La Siria non faceva parte di Israele, le autorità giudaiche potevano rivendicare la propria giurisdizione sulla Siria sita a nord solo previa approvazione dell'Amministrazione romana e se Roma ha accettato questa "caccia alle streghe" significa che Roma stessa si sentiva minacciata.
E' chiaro, pertanto, che il partito nazareno di Gerusalemme veniva considerato sovversivo dai romani come dalla gerarchia sadducea ufficiale e tale pericolosità fece sì che nel 44 d.C.: prima Pietro e Giovanni e poi di seguito gli altri membri vennero arrestati, fustigati e ricevettero l'ingiunzione di non pronunciare in nessun modo il nome di Gesù.
Nello stesso anno, il discepolo conosciuto come Giacomo, fu arrestato e decapitato secondo l'uso di esecuzione romana.
E' su questo turbolento sfondo che va inquadrata la figura di Paolo, descritta negli Atti.
Dunque, egli entra in scena un anno circa dopo la crocifissione di Gesù Cristo; si chiama Saulo di Tarso, fanatico sadduceo e strumento in mano dei Sadducei, partecipa attivamente agli attacchi contro il partito nazareno a Gerusalemme.
Paolo è molto esplicito ed ammette francamente di aver perseguitato le sue "vittime" fino alla morte.
Ben presto, accompagnato da una banda di uomini armati " fino ai denti" parte per Damasco al fine di scovare i ribelli nazareni e sterminarli.
Lungo la strada subisce qualcosa di traumatico: "una luce dal cielo lo avrebbe fatto cadere da cavallo" e una voce, senza origine discernibile, gli avrebbe chiesto:"Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?"
Egli chiede alla voce di identificarsi e la stessa risponde:"Io sono Gesù il Nazareno e tu mi perseguiti!"
Quando Paolo torna in sé scopre di essere stato colpito da cecità momentanea! A Damasco, un nazareno gli restituirà la vista perduta.
E da quel momento in poi, sarà fervidamente fanatico nella promulgazione del pensiero nazareno quanto lo era stato prima nel cercare di sopprimerlo.
Attorno al 39 d.C., torna a Gerusalemme, dove - stando agli Atti - viene ufficialmente ammesso nel partito nazareno.
Da Tarso, Paolo prosegue il suo viaggio missionario, che durerà quattordici anni e lo porterà in tutto il mondo.
Ci si aspetterebbe che tanta abnegazione gli guadagnasse l'approvazione della gerarchia nazarena di Gerusalemme! Al contrario, riesce a guadagnargli solo scontento poiché i nazareni ritengono che Paolo stia predicando qualcosa di molto diverso da ciò che loro stessi hanno sanzionato.
In termini di chilometri percorsi ed energie spese nei suoi viaggi missionari, l'impresa di Paolo è stupenda!
Pertanto, è un po' difficile comprendere i motivi, che hanno creato le frizioni con i Nazareni di Gerusalemme; si può solo ipotizzare che egli abbia fatto qualcosa che Gesù non avrebbe approvato.
Paolo stesso, nella seconda Lettera ai Corinzi, 11: 3 -4, dice esplicitamente che gli emissari nazareni stanno promulgando un altro Gesù, diverso da quello che predica lui stesso.
L'inconciliabilità tra Gesù e Paolo solleva domande di considerevole rilevanza per il mondo contemporaneo e molti studiosi stanno ancora studiando tale situazione.
Molti, comunque, sono d'accordo nel rilevare che è da Paolo e da lui solo, che comincia ad emergere una nuova religione, che si fonde con il pensiero greco - romano, con le tradizioni pagane, con elementi di svariate scuole mistiche.
Una volta che il culto di Paolo iniziò a cristallizzarsi come una religione a sé, invece che come una forma di giudaismo, dettò certe priorità che non esistevano ai tempi di Gesù e che lo stesso avrebbe sicuramente deplorato.
Per diffondersi nel mondo romanizzato, il Cristianesimo si modificò e nel farlo riscrisse le circostanze storiche nel quale era nato.
Gesù stesso doveva essere separato dal suo contesto storico, essere trasformato in figura non politica: un messia spirituale, un inviato dell'altro mondo che non voleva affatto sfidare Cesare.
Quindi, sfortunatamente, tutte le tracce dell'attività politica di Gesù vennero smorzate, diluite o censurate.
Akhenaton:il faraone eretico
Faraone dell’Egitto, passato alla storia come il faraone eretico che intorno al 1300 a.C. contrappose un culto monoteista a quello politeista che era stato in vigore in tutto il suo regno. Akhenaton non fu l’unico faraone ribelle. Il suo predecessore prima ed alcuni successori perseguirono una politica anti-tebana.
Ad iniziare la svolta religiosa in senso monoteista fu Amenophis III (chiamato anche Amenhotep III ), il padre di Akhenaton, che cominciò a combattere il potente clero tebano di Amon contrapponendogli il dio Aton. A testimonianza di questa nuova tendenza, Amenophis III, soprannominato "il donnaiolo" perchè si diceva avesse 365 donne diverse all'anno, fece costruire ai confini del deserto uno splendido palazzo circondato da un grande parco a cui aveva dato il nome di "splendore di Aton", dove nacque Akhenaton (o Ekhnaton), che alla sua nascita prese il nome del padre, Amenophis IV.
Il piccolo principe ereditario, all'età di 12 anni, fu fatto sposare con una fanciulla nubiana di nome Nefertiti ("la bella che viene da lontano"), di due o tre anni più giovane, perché il trono avesse al più presto un erede.
Alla morte di Amenophis III la regina Tiye prese il potere in nome del figlio.
Salito al potere, il faraone fanciullo per prima cosa si cambiò il nome, e da Amenophis, che significa "Pace di Amon", divenne Akhenaton, cioè "Aton è soddisfatto ". Akhenaton si attribuisce la funzione di rivelatore di Aton agli uomini definendosi suo figlio e cerca di convincere i propri sudditi a credere anch'essi in un solo dio e quindi a se stesso.
Egli, inoltre, sconfessa il mito di Osiride. Questi era una divinità che accompagnava gli uomini all'aldilà. Attraverso suo figlio Horus , aveva vinto la morte e apportato la resurrezione. Attraverso questo mito gli egiziani credevano che l'aldilà fosse una coninuazione della vita terrena, in cui non vi fossero malattie e ingiustizie, ma solo la pace della Valle dei Giunchi. Akhenaton elimina tutto ciò e lascia un vuoto incolmabile tra l'uomo e l'aldilà. Solo in un primo momento sarà lui a svolgere le mansioni di Osiride, in quanto figlio di Aton, ma tale funzione viene abbandonata presto.
Aton non ha sembianze antropomorfe o zoomorfe come le altre divinità. Non è mai rappresentato ed anche questo aspetto rende poco tangibile all'uomo questa nuova religione.
La concezione del monoteismo del faraone è diversa da come viene intesa oggi: il dio Aton rappresenta insieme tutte le espressioni che le varie divinità avevano. Dunque si tratta di un monoteismo che esprime e comprende un politeismo.
Dietro questa nuova teologia c'era una motivazione pratica: il potere politico, gestito dal faraone, coincideva con quello religioso, detenuto dal clero tebano che godeva di enormi privilegi. Quest'ultimo doveva essere eliminato, quindi era necessario un nuovo modello religioso che soppiantasse il precedente.
Akhenaton, con l'intento di avvalorare il suo credo, decide di abbandonare l'allora capitale Tebe, in favore di una nuova capitale fondata in onore del dio Aton. Essa fu realizzata in poco tempo presso l’attuale pianura di Tell-El-Amarna, 200 km a sud del Cairo, e venne chiamata Amarna (Akhetaton: "l'orizzonte del dio sole "). L'orizzonte del dio sole era simboleggiato dal disco solare racchiuso tra due monti e proprio tra le alture circondanti la pianura vi erano due monti separati da una spaccatura da dove sorgeva il sole. Nel cuore della capitale Akhetaton fu costruito il tempio di Aton che fungeva anche da palazzo reale. Il pavimento del palazzo fu disegnato con figure di guerrieri asiatici e nubiani e le pietre che delimitavano la città ed i templi formavano una serie di rettangoli perfetti che riproducevano in proporzione la superficie dell'area di Amarna (nome attuale della zona in cui sorgeva Akhetaton).
Il popolo, di fronte ad una rivoluzione di questa portata, restò fedele agli antichi dei, rifiutando il nuovo culto monoteista. Dopo 10 anni di potere, Akhenaton, alla morte della regina madre, sostenitrice delle dività tebane, emanò un editto nel quale tutti gli antichi dei venivano sconsacrati: i nomi delle divinità vennero cancellati dalle iscrizioni, il clero di Amon viene disperso, i templi chiusi ed i beni confiscati. Incaricati del re andarono per tutto il paese a cancellare il nome delle divinità di Tebe dai templi, dalle steli, dalle tombe, dai papiri e da tutte le altre iscrizioni.
Dopo 17 anni di governo, Akhenaton scompare. Tale scomparsa è ancora oggi un mistero. Alcuni pensano vi sia stata una congiura contro di lui anche se è mal supportata dal fatto che vi sono molte perplessità sull'identità del suo successore. Molti studiosi ritengono che questo successore sia Smenkhara, figlio o fratello di Akhenaton, mentre per altri dietro il nome Smenkhara si cela la moglie Nefertiti che quindi avrebbe regnato fino alla salita al trono di Tutankamon, suo figliastro.
La tomba di Akhenaton fu collocata ad est di Akhetaton ed in perfetto allineamento con il tempio di Aton. Nelle loro raffigurazioni, Akhenaton e Nefertiti, vengono ritratti nudi, inoltre Nefertiti rappresentata in battaglia e vestita dei simboli del faraone, mentre Akhenaton viene raffigurato da solo quando intercede presso il dio sole Aton. Tutto ciò, finora, non era mai stato osato da nessun faraone. Con la morte di Akhenaton vengono anche ristabiliti i culti tradizionali. Ad Akhenaton da adesso in poi si farà riferimento come al "nemico", il suo nome verrà cancellato dagli annali e la città di Akhetaton distrutta come le opere realizzate in onore di Aton. Il nome del faraone non sarà più pronunciata sino al 1917 d. C. quando venne scoperta nella Valle dei Re una tomba, la numero 55, risalente all'epoca di Tutankamon. Quale è il nome del defunto è impossibile stabilirlo poichè sia il sarcofago che le iscrizioni sulle pareti furono cancellate a scalpellate. Gli unici indizi vennero ricavati dallo studio dei crani di Tutankamon e dello sconosciuto. Il confronto, secondo gli esperti, rivelava una parentela diretta, probabilmente del 1º grado. Sono in molti a sostenere che quella è la tomba di Akhenaton, il cui corpo fu trasportato nella Valle dei Re da Tutankamon, mentre per altri il defunto sconosciuto è Smenkhare.
Durante il regno di Akhenaton l’Egitto non ebbe una buona politica estera: non seppe contrapporsi all’ascesa dei Mitanni e degli Ittiti in Asia Minore, perdendo così quegli stati vassalli dell'area siro-palestinese, che apportavano ricchezza alle casse reali. Di questa situazione, infatti, seppe approfittare molto bene il re ittita Suppiluliumas che realizzò un potente impero.
Dal punto di vista culturale, invece, l’Egitto conobbe un grande splendore: nacque l'arte armaniana, rivoluzionaria per il periodo, in quanto contrapponeva alla staticità classica delle figure egiziane, una nuova dinamicità, arricchita di particolari, quali immagini naturali importate da Micene. Inoltre, attraverso l'arte, vengono rappresentate scene di vita reale che, per la prima volta, riguardavano anche la famiglia del faraone.
L'EGITTO
Lo storiografo greco Erodoto scrisse che l'Egitto, una fascia di terra lunga circa un migliaio di km e larga dai venti ai trenta km, era un dono del Nilo nel bel mezzo del deserto. Intatti questo fiume africano determinò la formazione e lo sviluppo della civiltà dei suoi abitanti, popoli di lingua camitica con forti relazioni semitiche, che secondo le relazioni storiche antiche non superavano i sette milioni d'abitanti.
In estate, durante la stagione delle grandi piogge, il Nilo inonda le sue rive e lascia una ampia fascia di terreni fertilissimi.
Sembra che 10.000 anni a.C. s'erano già formate le prime popolazioni agricole stabili nella valle del Nilo. In ogni modo il Periodo Predinastico, (Età Neolitica) comincia nell'anno 4000 a.C. e termina nel 3200 a.C.
In un principio il territorio sui divideva in 43 'nòmi', autonomi politicamente ed amministrativamente.
Verso la fine del 4000 si formò un regno nell'Alto Egitto (al sud), la cui ultima capitale fu Hieraconpolis e il cui sovrano portava una bassa corona rossa con il simbolo d'un serpente, e il Basso Egitto (al nord, fino al delta del Nilo, che sbocca nel Mar Mediterraneo), con capitale Buto, il cui sovrano aveva in capo un'alta corona bianca col simbolo dell'avvoltoio ad ali spiegate, quindi si ebbe una fusione dei due regni che più tardi tornarono a separarsi.
La storia d'Egitto si divide in vari periodi:
Le prime due dinastie thinite. Età Feudale dal 3200 al 2700 a.C.
Impero Thinita: finalmente nel 2900 a.C. Narmer (Menes in greco), il faraone (che significa grande casa o casa reale) dell'Alto Egitto, riunì definitivamente i due regni, e durante le prime due dinastie thinite si fissò la città di Thinis come capitale, situata nel medio Egitto, unendo come simbolo i due copricapi suddetti. La monarchia era assolutista, ereditaria e teocratica, il faraone era il figlio del dio Sole e doveva sposarsi solo con membri di sangue reale, quindi si trattava generalmente di matrimoni tra fratelli e sorelle.
L'Impero Antico o Impero Menfitico (2700-2200) fu fondato da Djoser, con capitale Menfi, nel basso Egitto, che comprese quattro dinastie, dalla III alla VI
2200-2100 durante le dinastie dalla VII alla X terminò il potere faraonico e ritornarono indipendenti i 'nòmi'.
Durante questo periodo regnarono dieci dinastie, di cui la IV fu famosa per la costruzione delle piramidi dei faraoni Kheope (alta 137 metri), Khefren (136 metri) e Micerino (62 metri). E anche della famosa Sfinge, così chiamata, ma che in realtà è un tempio con la testa d'un faraone e il corpo di leone.
Al finale di questo periodo si registrò la decadenza politica e la frammentazione del territorio finché i faraoni della città di Tebe, dopo numerose battaglie, sconfissero i faraoni della X dinastia e unificarono il paese.
Il Regno Medio (2100-1788), detto anche primo periodo tebano, dato che, con la dinastia XI, la capitale fu trasferita a Tebe, nell'alto Egitto. Con la dinastia XII la capitale fu stabilita a Lisht, non lontana da Memfi, e si registrò un grande sviluppo artistico e letterario. Per i privilegi concessi a tutta la popolazione, senza eccezioni, si considera questa la prima forma di governo democratico nel mondo.
Amenemhet I cominciò le guerre di conquista, continuate da Sesostri I, Sesostri II e Sesostri III che estesero i loro domini sulla Nubia, Etiopia e Palestina, giungendo fino al Mar Nero.
Dal l788 al 1580 si ebbe un periodo d'usurpazione, durante la dinastia XIII, con capitale Tebe, cominciò la decadenza dell'impero, le frontiere furono attaccate da tribù nomadi e sopravvenne il caos interno.
Cominciò così la dinastia XIV, con capitale Xois, quindi gli Hixos conquistarono il paese, formando dinastie straniere (XV e XVI) che si stabilirono nel delta del Nilo, con capitale Avaris.
Erano pastori asiatici, di lingua semita, che giunsero con i cavalli (sconosciuti dagli egizi), che determinarono la decadenza del potere faraonico e ritornarono a forme primitive di organizzazione sociale.
Nella stessa epoca arrivarono tribù ebree, guidati da Giacobbe.
Con la dinastia XVII (1600-1580) cominciò la lotta contro gli hixos fino alla loro espulsione definitiva durante la dinastia XVIII.
Il Regno Nuovo o Periodo Imperiale (1580-1090), denominato anche Secondo Periodo Tebano.
Durante questo periodo regnarono otto dinastie, dalla XVIII alla XXV. Amosis della XVIII dinastia, che ebbe la capitale a Tebe, espulse gli hixos, riconquistò la Nubia e riuscì a sottomettere la nobiltà. Famosa di questo periodo fu la regina Hatshepsut (2520-1480), moglie di Tutmosi II e poi di Tutmosi III, denominato il Napoleone del deserto, il quale riconquistò la Palestina e la Siria, sottomettendo fenici, cananei, hittiti ed assiri.
Durante questo periodo regnarono otto dinastie (dalla XVII alla XXV), raggiungendo politicamente ed artisticamente il massimo apogeo, in particolare con le dinastie XVIII e XIX.
Tutmosi III, il Grande (1501-1447), conquistò la Palestina, la Fenicia, la Siria e tutta la Nubia, gli resero tributi l'Assiria, la Babilonia e gli Hittiti.
Amenofi III (1411-1375), fece costruire a Tebe opere grandiose, tra cui i famosi colossi di Memnone (nome che gli dettero i greci a Amenofi).
Amenofi IV (1375-1358) attuò una riforma religiosa, contro il poderoso clero, creando il culto monoteistico la cui immagine visibile era il disco solare (il dio Aton).
Principi etici come la giustizia e la benevolenza di un dio unico e universale, il perdono dei peccati, premi e castighi dopo la morte, uguaglianza tra gli uomini, e la proibizione di non uccidere, non rubare, non commettere adulterio riappariranno solo dopo 600 anni, coi profeti ebrei.
Amenofi cambiò il suo nome in Ekenaton o Akenaton (colui che è caro ad Aton). Sposò una principessa mesopotamica, la famosa Nefertiti. Fissò la capitale a Tel-el-Amarna. Anche in arte si ebbe un nuovo auge, chiamato attualmente il rinascimento di Tel-el-Amarna. Ma l'Impero stava cedendo di fronte ad altre invasioni degli ittiti, amoniti ed ebrei.
Il suo successore, che era anche suo genero, Tutankamon ristabilì il politeismo, obbligato dalle pressioni dei sacerdoti e del popolo. Morì a 18 anni d'età e la sua tomba fu scoperta intatta nel 1929.
La XIX dinastia, detta dei Ramèssidi, ristabilì la capitale a Tebe, riuscì a respingere gli Ittiti, indoeuropei provenienti dall'Asia minore e le invasioni dei popoli del mare, altri indoeuropei (forse achei, sardi ed altri) già in possesso di armi dell'età del ferro.
Ramsete II (denominato Ramsete il Grande) regnò dal 1290 al 1225, fu il più famoso dei faraoni, si narra che ebbe 160 figli dalle sue numerose mogli e concubine. Fece erigere numerose statue gigantesche della sua persona, come il colossale tempio del dio Ammone.
Probabilmente fu durante il regnato di Merneptah (1225-1215) che Mosè (che è un nome egizio), condusse il popolo ebraico fuori dall'Egitto, sebbene non esiste nessun dato storico che confermi l'esodo, né la schiavitù del popolo ebraico. Anche lui dovette respingere nuove invasioni dei popoli del mare, tra i quali i siciliani, sardi, achei ed altri.
Ultimo dei grandi faraoni fu Ramsete III (1198-1167) che respinse altre invasioni di nubi e libici e di altri popoli del mare, tra i quali i filistei, che si stabilirono in Palestina. Però cominciò anche la decadenza dell'impero e aumentò la superstizione e la magia.
Bassa epoca (1085-945), che si chiama anche periodo saìtico, dato che la sua capitale fu trasferita a Sais, sul delta del Nilo. Nel 1085 prese il potere la dinastia XXI, dei sacerdoti d'Ammon, a Tebe.
Conquiste straniere: dal 945, tra anarchia e guerre civili, si successero dinastie libiche ed etiopiche, quindi nel 670 gli assiri, guidati dal loro re Assarhaddon, invasero l'Egitto e conquistarono Menfi che, nel 666, fu liberata dagli egizi, ma nuovamente espugnata e saccheggiata, insieme a Tebe, dagli assiri di Assurbanipal.
Finalmente il governatore di Sais, Psammètico, aiutato da mercenari greci, espulse gli assiri e si convertì in un nuovo faraone.
Il figlio di Psammètico, Neco II, tentò, per la prima volta, di aprire il canale di Suez e -come narra Erodoto - fece compiere, a dei marinai fenici, la circonnavigazione dell'Africa, dal Mar Rosso al delta del Nilo, da est ad ovest.
Dominio persiano (524-404)
Nel 525 Cambise, re dei persiani, sconfisse Psammètico III e convertì l'Egitto in una provincia del suo impero.
Dinastie dalla XXVIII alla XXX (404-332) che riuscirono ad avere una certa indipendenza dall'Imperio Persiano. Con Dario re di Persia si terminò la costruzione del canale di Suez, cominciata da Neco.
Termina l'indipendenza dell'Egitto: La conquista d'Alessandro Magno (332-323) e Il Regno dei Tolomei (323-20)
Nel 331 Alessandro Magno conquistando l'impero persiano giunse in Egitto accolto come liberatore e fondò la città d'Alessandria, che fu la nuova capitale. Alla sua morte, nel 332, l'immenso impero da lui conquistato si divise tra i suoi generali, Tolomeo ebbe l'Egitto, che includeva la Palestina e la Siria.
La dinastia tolemaica (13 re e tre regine, tutti col nome di Tolomeo, e le regine con quello di Cleopatra) durò dal 323 al 30, favorì le scienze e le arti, famosa fu la biblioteca d'Alessandria, che possedeva 700.000 volumi, forse incendiata dagli arabi nel 700 d.C.
Ci furono varie guerre civili, guerre in Siria e congiure di palazzo.
Finalmente nel 51 regnò Cleopatra VII, in società con suo fratello, Tolomeo XIII.
Tolomeo si oppose all'intervento romano di Giulio Cesare, mentre Cleopatra lo favorì, con l'aiuto d'un altro fratello suo, Tolomeo XIV.
Cleopatra ebbe un figlio da Giulio Cesare, chiamato Cesarione. Alla morte di Cesare Cleopatra ebbe relazioni con Marco Antonio, il quale la dichiarò Regina dei Re, e come viceré il figlio di Cesare e i figli nati da entrambi. Ma Ottaviano giunge con un esercito romano, sconfisse la flotta egiziana e occupò Alessandria.
Marco Antonio, sconfitto nella battaglia navale di Azio, si suicidò, Cleopatra tentò d'innamorare Ottaviano, ma vedendo vani i suoi sforzi si suicidò facendosi mordere da un àspide. Ottaviano pose fine all'indipendenza dell'Egitto convertendolo in provincia romana nell'anno 30 a.C.
In Egitto nacque la filosofia, l'aritmetica, l'astronomia, la giurisprudenza, la teoria politica, il calendario di 12 mesi, 360 giorni più cinque di feste e la scrittura (dal 2900), che era di re tipi: geroglifica (usata nelle iscrizioni dei monumenti), ieràtica (abbreviatura dell'anteriore) e demòtica (ancora più sintetica ad uso del popolo).
Si perfezionò il sistema d'irrigazione, d'ingegneria e la fabbricazione del vetro e della carta. Si creò la colonna, l'obelisco e il concetto d'un'arte senza fini utilitari.
San Francesco e l'Oriente
Lo spirito di San Francesco tendeva all'Oriente. Egli vi si sentiva istintivamente attratto. Il fatto era dovuto, probabilmente, a delle influenze anteriori. Suo padre, un mercanto di stoffe, si recava ogni anno presso le grandi Fiere francesi per vendere ed acquistare. Queste ultime erano frequentate da altri ricchi mercanti del vicino e lontano Oriente. Era possibile che Francesco, quando accompagnava il padre, potesse averli visti; oppure, che il genitore riferisse su di loro dei fatti edificanti, che potevano avere stimolato l'immaginazione del giovane.
Bisogna anche dire che questa tendenza verso l'Oriente era effettivamente diffusa all'epoca e che Francesco, più in là con gli anni, avrebbe potuto venirne coinvolto. Paul Sabatier afferma - nel suo libro "La Vita di San Francesco" - che ogni spirito colto del periodo a cui ci riferiamo si volgeva verso l'Oriente per rigenerare le proprie ispirazioni e rintracciarne delle nuove. Le cosiddette innumerevoli eresie che sorsero nella Chiesa del XIII secolo presero nascita quasi tutte a causa del pensiero orientale. Ciò sollecitò una rimarchevole remora nell'Ordine di San Francesco. Furono numerosi i confratelli che si videro condannati a delle carcerazioni severe, a causa della loro tendenza eretica, e Giovanni di Parma, proprio a causa della sua sincera ammirazione per gli insegnamenti stranieri, venne destituito dal suo grado di Ministro Generale. Altri insinuarono che lo stesso Francesco ne fosse influenzato; ma, lui, si interessava troppo poco alle dottrine, ai teologi, ed era troppo autonomo concettualmente, per lasciare che il suo pensiero si rivolgesse a idee che provenissero dall'estero. Egli riceveva la propria ispirazione direttamente dalla Sorgente Divina.
L'istigatore dell'eresia era Gioacchino da Fiore, un veggente calabrese, che avrebbe potuto incarnare molto bene un mistico orientale di qualche eremo dell'Himalaya. Profondamente francescano, insisteva proprio su quello che Francesco avrebbe insegnato più tardi: distacco dal sapere, assoluta povertà ed amore per la Natura. Si racconta, inoltre, a suo proposito, che un giorno, mentre stava predicando in una cappella, tutto si oscurò, per il passaggio di una grossa nuvola. All'improvviso, questa si aprì ed un sole abbagliante la traforò. La cappella venne inondata di luce. Gioacchino si fermò di colpo, salutò il sole con le mani giunte, intonò un salmo e congedò tutti, affichè potessero gioire del paesaggio splendente .
San Francesco, con tutto il suo fervore religioso, restava un cavaliere entusiasta della novità e dei sacrifici. Non solo l'Oriente lo attirava, ma lo tentava. Sognava di convertire i Saracini alla fede in Cristo. Nell'autunno del 1212 si diresse in Siria; però, appena subì un naufragio, se ne tornò in Italia, senza aver terminato la sua missione. Indomabile, cercò di raggiungerli in Marocco ed in Egitto. Ecco il brano di una lettera di un signore francese che lo incontrò, durante un viaggio:" Vi comunico che Monsignor Réyner, priore dell'Ordine di St. Michel, è entrato a fare parte dell'Ordine dei Frati Minori, che, ovunque, si accresce rapidamente, poichè segue la Chiesa primitiva ed imita la vita degli Apostoli in tutto e per tutto. Il capo di questa confraternita si chiama Fratel Francesco. E' così magnetico che tutti lo venerano... Essendo rimasto con lui diversi giorni, lo vidi annunciare il Verbo ai Saracini, ma con poco successo. Il Sultano, allora, gli chiese in segreto di pregare Dio affinchè gli fosse rivelato, attraverso qualche miracolo, quale fosse la migliore religione."
Il Sultano non si convertì, perchè Francesco non aveva la propensione ai miracoli; e colse l'occasione, una volta, di esprimere il desiderio di non doverne mai realizzare. D'altra parte, non possedeva l'abitudine di insistere nello sforzo di convertire qualcuno." Voglio essere pieno di rispetto di fronte a tutti e convertire con l'esempio piuttosto che con le parole", diceva. Molte altre missioni vennero progettate - delle quali, alcune si realizzarono; ma non si trova alcun accenno storico a proposito dell'India. Non si sa se Francesco avesse mai pensato di andare così lontano. Certi biografi affermano che qualche "eresia" dell'epoca attingeva direttamente al Buddismo. Ecco la natura delle istruzioni che San Francesco dava ai Frati che l'accompagnavano, quando si mettevano in cammino per una crociata di predicazione. Esse avrebbero potuto adattarsi , altrettanto bene, al Signore Budda, mentre le proponeva ai suoi discepoli:" Procedete, camminate due a due, umili ed amorevoli, taciturni, pregando Dio in fondo al vostro cuore, evitando con cura ogni parola inutile. Meditate, durante questo viaggio, come se vi trovaste nello stesso eremo, o nella vostra cella; poichè, ovunque noi stiamo, o andiamo, la nostra cella è con noi. Essa è nostro Fratel corpo, e l'anima è l'eremo che l'abita, per pregare Dio, e meditare."
La meditazione rappresentava una pratica costante, da parte di San Francesco. Malgrado l'attività incessante che praticava, la sua vita era intensamente soggettiva. E questo fatto gli conferisce la sua natura orientale e sembra apparentarlo così bene ai grandi Istruttori dell'India; specialmente a Sri Ramakrishna. Egli era capace di lavorare manualmente, di lavare le piaghe purulenti sulle membra doloranti dei lebbrosi, di pregare e di convertire gli uomini, di percorrere le grandi strade d'Italia, e, ciò malgrado, di trovare anche delle ore adatte a pregare ed a meditare. E se quelle del giorno non erano sufficienti, le derubava alla notte. Quando gli si offriva una sosta nella predicazione, nel servizio, o nel lavoro, andava a nascondersi, solo, in un lontano eremo, per trascorrervi giorno e notte in comunione con l'Altissimo.
A tempi della Confraternita primitiva, tutto questo era una realtà. La meditazione e la preghiera ne costituivano il fondamento del'esistenza. La scelta della povertà non rappresentava tanto un atto di rinuncia, quanto il modo di liberarsi d'ogni attrattiva delle cose materiali, e potersi, così, meglio donare a Dio. Francesco era costretto a sorvegliare di continuo i Frati, affinchè non si disperdessero nel trascendente, con il risultato di negligere i loro doveri verso il mondo, poichè avrebbero digiunato, o meditato troppo a lungo. Rufino doveva venire richiamato dal suo nascondiglio nella foresta per andare a lavare i lebbrosi. Era necessario scuotere dall'estasi Egidio e Bernardo. Frate Egidio provvedeva ai suoi magri bisogni accomodando le scarpe, benchè avesse il dono dell'estasi (parola italiana, che sta per samadhi, o coscienza dell'aldilà). Egli poteva entrare nella visione estatica in qualunque istante; e gli era necessario, allora, appoggiarsi ad un albero, o altrove, per non cadere a terra. Un giorno, egli, riferendosi alle delizie sperimentate durante la meditazione, esclamò:" La contemplazione è fuoco, unzione, sapore, riposo, gloria. Desidererei morire mentre sto in contemplazione!" In quell'occasione, un Frate cercò di interrogarlo per venire a conoscenza di cosa provasse e vedesse mentre aveva raggiunto la super coscienza. Invariabilmente, lui rispondeva:" Ciò che tu vedi, vedi, e ciò che tu senti, senti." Una risposta che ci ricorda quella data da Ramakrishna, in un'occasione simile:" Se qualcheduno vi interrogasse sul gusto del burro cosa mai rispondereste? Che è quello del burro."
Anche Frate Bernardo possedeva il dono della visione sovrannaturale. Un aneddoto del suo tempo riferisce che una volta, assistendo ad una messa, era talmente assorbito in sè, che rimase immobile, con lo sguardo fisso, dal mattino al vespro (15 ore), insensibile a ciò che lo circondava. Quando tornò in lui, gridò:" O, Fratelli mie! Fratelli Miei! Fratelli miei! Non esiste un solo uomo sulla terra, per quanto grande sia, che non vorrebbe trascinare un sacco di letame, in cambio di un sì grande tesoro!" E la storia aggiunge:" Perchè il suo spirito era talmente distaccato dalle cose della terra, che, simile ad una rondine, egli dispiegava le sue ali negli immensi spazi della contemplazione; tanto che, a volte, rimaneva in solitudine per trenta giorni, sulle più alte vette dei monti, nella sua visione delle cose celesti."
Lo stesso Francesco trascorreva delle lunghe ore in estasi, e anche molti altri Frati possedevano il dono della super coscienza. Le loro vite erano talmente distaccate dagli affari del mondo, così interamente votate a Dio, che non risultava difficile ad essi di entrare in comunione con il Signore. Una descrizione, risalente a quell'epoca, dipinge la loro maniera di vivere. " Ardevano nella preghiera e nel lavorare manualmente, nella volontà di scacciare l'indolenza. Si alzavano di notte e pregavano con fervore, sospirando e piangendo. S'amavano di un amore sincero e si rendevano mutuo servizio. Se uno di loro offriva del pane al suo fratello, compiva questo atto come una madre verso l'adorato figlio. Un tale amore ardeva in essi, che sembrava loro cosa semplice rinunciare ai loro corpi, sino alla morte, non soltanto per amore di Cristo, quanto per la salvezza delle anime, o dei corpi dei loro fratelli. Tanto si trovavano ancorati nell'umiltà e nella carità, che ognuno rispettava l'altro come se fosse stato il proprio padre e signore. E, riguardo a coloro che avevano il rango di prelati, oppure differenti gradi superiori, parevano ancor più umili degli altri. Sospinti continuamente all'obbedienza, in ogni situazione, si sottomettevano alla volontà di colui che li comandava, non creando il minimo problema tra ciò che poteva essere giusto, oppure no; poichè, quanto percepivano come un ordine, veniva considerata la volontà di Dio; e fare la Sua volontà era, per loro, una cosa agevole, gradevole ed amorevole...
"Nessuno di loro conservava qualcosa per se stesso. I libri, ed ogni altro oggetto che essi potevano ricevere, restava a disposizione di tutti, secondo la regola praticata e trasmessa dagli Apostoli. Tra di loro veniva osservata l'autentica povertà, e la generosità verso tutto ciò che il Signore accordava; che, quindi, veniva donato, con grazia, a coloro che lo desideravano. Lungo le strade, quando incontravano della povera gente che mendicava in Nome di Dio, se non possedevano null'altro, essi donavano loro una parte dei propri vestiti, per quanto usati e precari fossero. A volte, staccavano dall'abito il cappuccio, o, anche, una manica, o qualsiasi altro pezzo d'abito...."
"Nella loro povertà apparivano sempre gioiosi, poichè non desideravano alcuna ricchezza, e disprezzavano le cose del mondo; quelle che appaiono così care alla mondanità. Soprattutto il denaro, che era polvere, ai loro occhi, e buono solo ad essere calpestato sotto i piedi. Erano felici, sempre e solo, nel Signore, non esistendo nulla che potesse rattristarli. Più stavano lontani dal mondo, e più si sentivano vicini a Dio, mentre camminavano nei sentieri della Sua giustizia."
San Francesco non prese in prestito nulla dall'Oriente, visto che non ne era influenzato. Era orientale per sua natura, perchè, al contrario, non avrebbe potuto avere la profonda comprensione della Vita cristica e dell'Ideale cristiano, in quanto Gesù proveniva dal Medio-Oriente. Di conseguenza, si mostrava tipicamente italiano ed Occidentale. Era una cosa e l'altra, come Ramakrishna. Per la loro natura e per il loro pensiero, i due rasentano i quattro punti cardinali e, addirittura, li superano. Sri Ramakrishna dichiarò, più di una volta, che vedeva giungere a sè devoti da molti paesi e da molti popoli, attraverso mari e continenti. San Francesco disse un giorno ad un confratello:" Contemplo una moltitudine venire a me, e domandarmi di potere indossare l'abito della nostra santa religione. Il rumore dei loro passi risuona nel mio udito, e li vedo giungere da ogni dove, affollando le strade del mondo". Nè Sri Ramakrishna, nè San Francesco limitarono i loro sforzi, tesi ad amare l'umanità. Per essi non esisteva frontiera tra un gruppo umano e l'altro. Sono venuti per ogni uomo; la loro, era una visione universale.
Sri Ramakrishna e San Francesco d'Assisi
San Francesco nacque nel 1182, Sri Ramakrishna nel 1836. Sei secoli li separano, ed anche dei mari e dei continenti; uno spirito razziale diverso li generò. Delle civiltà contrastanti formarono le basi della loro vita. Tempi, circostanze, ambienti, educazione, tutto ciò servì a differenziarli ed a separarli. Eppure, malgrado tutte queste influenze, si esprime in essi una fondamentale unità di pensiero, di sentimento, di applicazione e di missione.
Una divina fiamma avvampava in Sri Ramakrishna, come nel cuore di San Francesco. Se questi fosse nato in India, invece che in Italia, sarebbe stato considerato una Manifestazione divina, in quanto nessuna creatura, più di lui, ha mai saputo incarnare in modo più perfetto, come vita e carattere, lo Spirito cristico. Le stigmate hanno sigillato la sua appartenenza a Cristo. Divenne santo per il fatto di aver seguito una religione che accetta un solo Salvatore. Al contrario, l'insegnamento vedico non limita il numero dei Salvatori. Esso dichiara che, allorquando la spiritualità declina ed il materialismo diviene dominante, la Divinità assume una forma umana per ristabilire la coscienza religiosa di quella precisa epoca e di quel luogo. Di conseguenza, tale insegnamento avrebbe riconosciuto implicitamente San Francesco in questi termini.
Ogni grande istruttore si somiglia, nel modo di realizzare la propria missione. I riformatori sono, piuttosto, dei distruttori; mentre, i Salvatori di uomini si esprimono sempre come dei costruttori. Cristo ha detto:" Non sono venuto per abolire, ma per compiere", e tali parole si attagliano, tali e quali, alla natura espressiva di Sri Ramakrishna e di San Francesco. Quando insegnavano, nè l'uno, nè l'altro hanno mai abolito nulla. Ognuno dei due ha riparato e trasformato. Hanno edificato il nuovo nell'antico, e tramite quest'ultimo. Tale metodo è diverso dal metodo dei riformatori. Lutero, prima mise le basi e, poi, riedificò, su nuove fondamenta. Non penso, personalmente, che avesse l'idea di essere tanto tagliente; ma, vi fu portato dalla logica dei suoi argomenti e dalla propria posizione personale. E, poichè, all'inizio, fece opera di distruzione, quanto ha costruito esprime, oggi, un'impressione generale di carenza; di un qualcosa che potrebbe essere sfuggito, nella nuova struttura di pensiero
I risultati della sua opera vennero commentati anche all'interno alla propria famiglia. Si dice che, un giorno, sua moglie affermasse:" Martino, come mai, quando noi vivevamo nel monastero, le nostre preghiera erano tanto fervide, mentre, adesso, sembrano così tiepide?". Certamente, non era che le preghiere fatte nel chiostro salissero più rapidamente verso Dio di quelle espresse in casa. La ragione vera era che Lutero aveva allontanato dal suo concetto religioso un elemento essenziale: la rinuncia e l'abbandono di se stessi. Di conseguenza, egli è giunto a glorificare l'etica, a scapito della spiritualità. La virtù è necessaria, ma non rappresenta che una tappa preparatoria alla realizzazione spirituale.
I grandi Istruttori si assomigliano non solo per il loro modo di esprimersi , ma anche nella maniera di compiere la propria missione tra gli uomini. Budda, dopo una lunga ricerca spirituale e un non meno sfibrante combattimento sotto l'albero Bo, risultò vincitore nella notte in cui Mara, il Tentatore, si sforzò di farlo capitolare. Gesù, invece, andò nel deserto, ove venne tentato dal Diavolo. Francesco giunse egualmente ad esaurire ogni sua forza davanti al Crocefisso della cappella, in macerie, di San Damiano, fuori le mura di Assisi. Sri Ramakrishna agonizzò sotto l'albero banyan del tempio-giardino di Dakshineswar. Ognuno di essi dette battaglia alle forze di questo mondo, prima di poterlo aiutare. La lotta di Sri Ramakrishna fu lunga e senza pietà. Egli non combattè per se stesso, ma per l'uomo. Nella sua natura, conobbe, uno dopo l'altro, ogni ostacolo che si erge tra l'individuo e il suo ultimo obiettivo. Divenne lo spazzino degli spazzini; e ripulì, spazzandola, la casa di un parìa, sino a che giunse a sradicare in sè ogni traccia di orgoglio. Rimase seduto ai bordi del Gange, stringendo, in una mano, della terra e, nell'altra, dell'oro; e, ciò, fino a che giunse a comprendere la loro identica natura ed a raggiungere l'estinzione di ogni traccia di cupidigia. Piangeva e pregava, chiamando ad alta voce la Madre divina dell'Universo, sino a che, finalmente, vide cessare ogni desiderio. E venne la Visione, ma non il termine della lotta.
La realtà del Divino gli si era rivelata, ma egli doveva ancora assimilare la convinzione dell'unità di ogni credo e quella, conseguente, di ogni essere. Seguì, allora, la pratica di religioni diverse. Sedette ai piedi di numerosi Maestri. Pregò agli altari di altri credi e, ciò, sino a che tutte le espressioni del pensiero e del sentimento non giunsero a convergere in una sola Unità indifferenziata: egli realizzò l'Unità di Dio, l'Unità dei Credi, l'Unità degli uomini. Ed ebbe termine, allora, la lotta.
La battaglia di San Francesco fu meno intensa e meno definita. Iniziò dopo una malattia che lo scosse interamente. Lo si vedeva, prima, gioioso, compagnone, a cantare e camminare nelle strade di Assisi; e, il giorno dopo, mentre se ne stava passando nelle stesse vie, indebolito e poggiato su di un bastone. Gli riusciva, difatti, impossibile ritornare al suo antico genere di vita, perchè se ne ritrovava, all'improvviso, disgustato; gli amici di prima lo annoiavano. Se ne stava, allora, alla Porta Nuova - l'entrata della città presso casa sua - a contemplare la gradevole panura dell'Umbria, con il cuore appesantito da una nostalgica ricerca; ricerca di cosa? Lui stesso lo ignorava.
Un giorno, cavalcando attraverso un oliveto della vallata, si trovò - di colpo - davanti ad un lebbroso. Fermò il suo cavallo e girò le briglie; poi, tutto vergognoso, tornò sui suoi passi, mise piede a terra e, baciando la mano del disgraziato, gli rovesciò accanto il contenuto della sua borsa. Era la sua prima vittoria. In seguito, si recò spesso al lebbrosario per lavare le piaghe in suppurazione dei malati. Amava la compagnia dei poveri. Trascorreva molte ore solitarie in una grotta, fuori della città; oppure in una cappella abbandonata di San Damiano. Là, pregava, in solitudine, davanti al grande Crocifisso, posto sopra l'altare. Fino a quando, un giorno, questi prese vita, si chinò verso di lui e lo benedì. Fu la sua unzione. Non ne aveva bisogno di altre.
Tuttavia, la sua lotta non era finita, poichè il padre lo opprimeva di rimproveri, affermando che quel ridicolo comportamento rendeva ridicola la propria famiglia. Questi esigette anche, tramite il tribunale, che suo figlio gli restituisse tutto il denaro che egli aveva speso per lui. Francesco replicò spogliandosi dei costosi abiti che ancora indossava, e restituendoli al padre, mentre se ne restava nudo, lì, sul posto. Il vescovo gettò il proprio mantello su di lui, ed il guardiano gli dette una camicia. Poco dopo, Francesco si ricoprì solo di un vestito di iuta: e l'Ordine era già fondato.
Francesco non era monaco, nè prete, e non poteva offrire il sacrificio della messa. Ma veniva considerato diacono. Era predicatore, ma di tale levatura che centinaia e centinaia di uomini, ascoltandolo, abbandonavano il mondo per la vita conventuale. I suo sermoni non avevano alcunchè di straordinario. Non erano nè magniloquenti, e neppure forbiti. Rappresentavano dei semplici richiami, quasi infantili, perchè si offrisse tutto a Dio, senza restrizioni, nè costrizioni. Ma, al di fuori delle sue parole, era lui, come uomo, che stimolava la gente. Francesco non possedeva sapere ed aveva poca istruzione. Sapeva solo leggere e scrivere; e, ciò, anche, alquanto precariamente, come viene dimostrato dai suoi poco numerosi scritti. Attribuiva un minimo valore alla conoscenza, e cercava di escluderla dall'Ordine, considerandola una trappola di vanità, di orgoglio, di ambizione e un inaridimento del pensiero.
Sri Ramakrishna aveva la stessa attitudine. Non apprezzava le cocenti discussioni dei letterati e prendeva in giro i vanitosi, imbevuti del loro sapere. Poichè suo fratello era preside di una scuola di sanscrito, a Calcutta, avrebbe ben avuto tutte le possibilità di studiare. Ma, già quand'era giovinetto, chiuse i suoi libri, rifiutandosi di imparare oltre, su quanto potevano pensare gli uomini, prima di avere sondato il pensiero di Dio. Che veniva innanzi ogni cosa; e quello degli uomini contava, di conseguenza, poco per lui. Non poteva esistere rivalità in ciò.
Un giorno, un signore gli fece dono d'uno scialle di gran valore. Sri Ramakrishna ne apprezzò la bellezza e se lo drappeggiò addosso. Ma, più tardi, quando sedette a meditare, suo nipote gli rammentò di prenderne cura, visto il suo prezzo elevato. Sri Ramakrishna prese, allora, lo scialle, ne bruciò un angolo, lo gettò a terra e lo calpestò, esclamando:" Ora, non distrarrà più la mia mente da Dio."
Si narra un simile episodio a proposito dello spirito di San Francesco: quando gli scismi e le ribellioni, nati nell'Ordine, ebbero strappato il suo cuore, quando la sua vista divenne quasi spenta, quando il suo debole corpo si fece esausto a causa dei viaggi, egli decise di scalare le pendici rocciose dell'eremitaggio della Verna, per visitare il suo primo discepolo, Fratel Bernardo. Ma, Bernardo se ne stava in estasi, e non si accorse affatto di lui. Francesco si volse indietro, accorato dall'apparente indifferenza, quando una voce gli disse:" Lo spirito di Bernardo se ne sta rapito da Dio. Vorresti mai che egli si distragga dal Signore per te; te, una delle sue creature?" Piangendo dalla vergogna, San Francesco si gettò a terra, rendendosi conto di ciò che, inconsapevolmente, aveva pensato.
San Francesco si applicava delle frequenti penitenze, con un grande ardore. S'infliggeva delle punizioni implacabili, ma il peso del pentimento non riusciva, mai, ad oscurare a lungo il suo spirito ed il suo cuore. Possedeva la natura di un intrepido cavaliere, che accettava con gaiezza le probabilità del cammino. Per qualche tempo era stato un soldato e sapeva come affrontare i rischi della guerra. Nella Regola dell'Ordine "l'espressione cupa" era considerata un'offesa. I Confratelli erano obbligati ad offrire un volto sorridente a Dio ed agli uomini. Di modo che Francesco li chiamava, sovente:" I Gioiosi di Dio". Essi dovevano far gioire Dio con la loro gaiezza e non annoiarLo con dei pianti e dei lamenti.
Anche Sri Ramakrishna non desiderava vedere delle espressioni "scure". Egli affermava di non seguire una religione priva di un sano ridere. A quei suoi discepoli che si presentavano con il muso lungo, ingiungeva di allontanarsi e di rimanere soli, sino a quando le loro nuvole non si fossero dissipate. " Noi tutti siamo i figli della graziosa Madre dell'Universo, ed anche noi, quindi, dobbiamo essere graziosi."
La gaiezza che Sri Ramakrishna insegnava e che San Francesco richiedeva ai suoi adepti non era un sentimento che riguardava solo i momenti migliori. Era una gaiezza profonda, persistente nei rovesci, nelle persecuzioni, ed anche sotto i colpi fisici. San Francesco lo spiegò ad un Fratello, mentre camminavano, a piedi nudi e mal vestiti, durante una tempesta e nel pieno gelo dei venti:" Quando noi torneremo in convento, se i Confratelli ci proibissero di entrare, se ci gettassero a terra, o ci calpestassero, se ci colpissero fisicamente, ebbene, malgrado tutto ciò, noi dobbiamo gioire, poichè la letizia del Signore è onnipresente."
Ammazza che lavoro colossale Giò. Mi sono perso parecchia roba. Complimenti !! Vedrò di leggere tutto il prima possibile, ma intanto posto quì una sorta di biografia su uno dei più famosi, se non il più famoso, alchimisti medievali: Nicolas Flamel
NICHOLAS FLAMEL
Nicolas (o Nicholas) Flamel è uno dei personaggi più frequentemente collegati alla magia e all’alchimia medioevali. Nato a Pontoise nel 1330 circa ( e morto Parigi 1418), fu prima di tutto scrivano e copista dell'università di Parigi, ma anche uno dei più famosi alchimisti. Del periodo poco posteriore a quello del vescovo Alessandro Magno, si contraddistingue perché tutti i più eminenti adepti della magia medioevale e dell’ermetismo sono ecclesiastici o uomini protetti dalla Chiesa, ma non lui. Il controllo praticamente totale fino ad allora esercitato dalla Cristianità sul sapere, subisce con Flamel una battuta d’arresto. La sua venuta “profetizza” il cambiamento della situazione globale: da lì a poco una nuova generazione di uomini senza alcun collegamento con la Chiesa darà l’avvio alla “dinastia dei nuovi maghi”. La sua vita non è un mito: la sua casa a Parigi, costruita nel 1407, è ancora in piedi e si trova al numero 51 di rue de Montmorency, dove ora c'è un ristorante. E' intelligente e pieno di curiosità, ha ricevuto un’ottima educazione e presto ha una vasta clientela di nobili rampolli e ricchi commercianti: commercia anche in libri e manoscritti ed è proprio grazie a questo lavoro che ha accesso ai testi e ai documenti più rari dell’epoca. Dame Pernelle, ricca vedova, si accorge di questo vivace giovanotto che nutre un enorme interesse per l'alchimia proprio come lei e, nel 1357 si sposano iniziando così la loro magica avventura. Le sue imprese, tuttavia, sono materia da leggenda. Si suppone che Flamel sia stato il più completo fra gli alchimisti europei. Le leggende narrano che riuscì a perseguire due magici traguardi dell'alchimia, quelli che sono ritenuti gli obiettivi principali di questa pseudoscienza: Flamel creò la Pietra filosofale, in grado di trasformare il piombo in oro, e assieme a sua moglie Perenelle raggiunse quindi l'immortalità. Una notte Flamel fece un sogno profetico: un angelo fiammeggiante gli porge un libro e lo avverte che a lungo il suo contenuto gli resterà oscuro. Sembra che Flamel, poco dopo le nozze, abbia ricevuto da uno straniero, , un vecchio rabbino di nome Nazard, un libro misterioso, scritto da un antico personaggio noto come Abramo L'Ebreo. Il libro era pieno di parole cabalistiche in greco ed ebraico. Flamel dedicò la sua vita al tentativo di comprendere il testo di questi segreti perduti. Viaggiò per le università in Andalusia per consultare le massime autorità ebraiche e musulmane. In Spagna, terra che aveva dato rifugio a molti dottori ebrei fuggiti dalla persecuzione, incontrò un misterioso maestro, di nome Canches, che gli insegnò l'arte di comprendere il suo manoscritto. Dopo il suo ritorno dalla Spagna, Flamel fu in grado di diventare ricco: la conoscenza che ricavò durante i suoi viaggi lo resero un maestro dell'arte alchemica. Flamel diventò un filantropo, donando ospedali e chiese grazie ai ricavi provenienti dal suo lavoro alchemico. Nicolas inizia ad applicare quello che ha imparato e, secondo le testimonianze del suo tempo, a mezzogiorno del 17 gennaio 1382, effettua la prima serie di trasmutazioni alchemiche: riesce a trasformare in argento un blocco di piombo. L'anno dopo il piombo si trasforma in oro. L’attendibilità del racconto è una questione aperta. Rimane il fatto che poco tempo dopo, egli entra nelle grazie di una donna, la quale in seguito acquista la fama di “esperta in scienze chimiche”: Bianca Navarra, figlia del re di Navarra e poi moglie di Filippo VI di Francia e, in conseguenza delle sue trasmutazioni alchemiche diviene immensamente ricco. Alla fine della sua vita possiede più di trenta case con terreno nella sola città di Parigi. Flamel fece sì che degli arcani simboli alchemici venissero scolpiti sulla sua lapide, attualmente conservata al Musée de Cluny di Parigi. Se Flamel sia riuscito o meno a creare la pietra filosofale non lo sapremo mai, ma la sola Parigi conta quattordici ospedali, tre cappelle e sette chiese tutte edificate dalle fondamenta ed arricchite con generosi lasciti, quasi altrettanti ne conta Boulogne, per non parlare della beneficenza nei confronti degli orfani e delle vedove. Nel 1419 Flamel muore senza che nessuno conosca il segreto della sua favolosa ricchezza. Si dice addirittura che non sia affatto morto: è stato visto in seguito con la moglie Pernelle ancora vivo grazie all’Elisir della lunga vita trovato nel manoscritto di Abramo. La sua tomba è vuota; alcuni dicono che fu saccheggiata da persone in cerca dei suoi segreti alchemici. D'altra parte, se Flamel ha di fatto raggiunto il segreto dell'immortalità, la sua tomba vuota può avere altra spiegazione. Nel 1761 ad esempio, all'opera di Parigi o nel XIX secolo, sempre a Parigi, in Boulevard du Temple. C'è anche chi sostiene che tra il 1925 ed il 1930 abbia scritto due libri firmandosi con lo pseudonimo Fulcanelli (I segreti delle Cattedrali e Le dimore Filosofali ). E ancora nel XVIII secolo è stimato da un uomo come Isaac Newton il quale legge faticosamente la sua opera, la annota e la copia a mano nel tentativo di “portare a termine a gloria di Dio le conoscenze di Hermes”. Flamel non rivelò mai cosa contenesse effettivamente il manoscritto e forse anche tutta la storia raccontata fin’ora è più un percorso iniziatico che una vera e propria vicenda storica. Rimane il fatto che al ritorno dal viaggio in Galizia, la povera e modesta vita di Nicolas Flamel e della moglie Pernelle cambia improvvisamente: da dove proveniva questa immensa ed inesauribile ricchezza che ha dato loro la possibilità di realizzare così tante e meravigliose opere, molte delle quali tra l’altro ancora esistenti? È ipotesi accreditata che il Libro di Abramo, così come molti altri testi misteriosi, faccia parte di una grande famiglia di manoscritti tutti derivati da un’opera unica ed ormai perduta, un unico testo base sulla cui fantastica esistenza si possono formulare soltanto ipotesi non rette da prove, ma forse neanche molto lontane dalla realtà.
Ma ecco come descrive il libro dai lui acquistato lo stesso Flamel:
“La legatura in solido ottone, dentro vi erano figure e caratteri che non erano latini e neanche francesi… era stato scritto con una matita di piombo, su fogli di corteccia ed era stranamente colorato. Sulla prima pagina, in lettere d’oro, appariva questa dicitura… Abramo l’Ebreo, Prete, Principe, Levita, Astrologo e Filosofo alla nazione degli ebrei dispersa in Francia (o fra i galli) dall’ira di Dio, augura Salute”.
In realtà, di questo libro non esiste traccia o riproduzione alcuna: quello che più potrebbe avvicinarsi ad esso è il manoscritto Figures Hieroglyphiques d’Abrahm Juif, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi il quale, pur discostandosi dalla descrizione dell’originale fatta dall’alchimista francese, contiene molte immagini indecifrabili. Comunque sia, riproduzioni dell’opera sono state assiduamente e religiosamente studiate da intere generazioni di aspiranti alchimisti, anche se, per quanto ci è dato sapere, invano. Però qualcosa effettivamente Flamel deve aver scoperto e molti sono gli indizi che fanno pensare a questo.
Cosa resta da dire ?
Nicolas Flamel era davvero l’alchimista che scoprì il segreto della pietra filosofale e dell’eterna giovinezza o era semplicemente un povero pazzo, visionario e ciarlatano arricchitosi truffando la gente, una sorta di precursore di Vanna Marchi ???
o bentornato mik!
sempre rimanendo in francia!
LUIGI XIV, IL RE SOLE
Tanti amori, una sola passione: Versailles
Luigi XIV nacque a Saint Germain - en - Laye il 5 settembre 1638, da Luigi XIII e Anna d'Austria. Alla morte del padre, avvenuta nel 1643, fu nominato Re, ma rimase sotto la reggenza della madre fino a quattordici anni, quando venne proclamato maggiorenne.
In quel momento la Francia era nel pieno dei tumulti provocati dalla Fronda, guerra che si combatté in Francia dal 1648 al 1653. La Fronda ebbe origine dal tentativo del parlamento parigino di trasformarsi da corte giudiziaria in assemblea politica, per sostituirsi agli Stati Generali e per sorvegliare il potere reale. Prudentemente, in quanto ancora molto giovane, si tenne alla larga dalle cose dello Stato, lasciandole in mano sia alla regina madre sia al formidabile cardinale Mazzarino (Pescia, Abruzzo, 14 luglio 1602 - Vicennes 9 marzo 1661). Quest'ultimo, ambizioso ed abilissimo diplomatico, riuscì, poco dopo la firma della "Pace dei Pirenei" nel 1659, a combinare il matrimonio tra il suo reale pupillo e Maria Teresa, figlia del re di Spagna Filippo IV. Alla cerimonia era presente l'intera corte francese, i cui membri più giovani, amici del re, risero malignamente alla vista della sposa. Infatti, Maria Teresa non si poteva definire una bellezza: aveva bei capelli biondi e bella carnagione, bianca come porcellana, ma i lineamenti del viso erano volgari e la figura tozza. Parlava male il francese, adorava consumare enormi quantità d'aglio ed aveva i denti scuriti dal consumo di cioccolato, definito dai francesi "...un orribile miscuglio liquido e marroncino...". Inoltre, la sua marcata religiosità l'avrebbe fatta andare più d'accordo con le austere dame di compagnia della regina Anna, piuttosto che con la scanzonata e gaudente corte. Luigi seppe, comunque, nascondere i veri sentimenti ispiratigli dalla moglie e la trattò "da perfetto gentiluomo, con tutti gli onori dovuti al suo rango..." Dal canto suo, la nuova regina s'innamorò subito del consorte. A ventun anni, infatti, il re era definito un bell'uomo: alto, di corporatura robusta, con occhi scuri e magnifici capelli neri, che amava portare lunghi e ricci, fin oltre le spalle. Due anni dopo il cardinale Mazzarino, malato da lungo tempo, morì: le sue ultime parole furono per il re "...Voi solo, governate, nessun altro che voi...". Addolorato dalla perdita di un uomo cui voleva molto bene, Luigi uscì dalla stanza. I ministri che lo attendevano, chiesero chi, d'ora in poi, sarebbe stato il primo ministro. Il re rispose: "Nessun primo ministro, nessun favorito: Signori lo Stato sono Io!". Gli astanti, dapprima stupiti, s'inchinarono reprimendo un sorrisetto canzonatorio: il giovane re amava molto le feste, i balli, la caccia, non avrebbe avuto tempo per il regno, "Non durerà" pensavano. Sarebbe durata cinquantaquattro anni.
Per prima cosa Luigi XIV, che aveva un'intelligenza riflessiva ed un temperamento volitivo ed autoritario, pensò a riordinare le finanze del regno: cominciò con l'ordinare l'arresto del ministro N. Fouquet, sovrintendente delle Finanze, con l'accusa di essersi impadronito di parte del tesoro "…che apparteneva alla Francia ed al suo re", per spenderlo nella costruzione del castello Vaux - le - Vicomte. Dalla reale decisione non era estranea una certa invidia, Luigi desiderava costruire per sé una reggia ancora più sontuosa, fuori dalla capitale dei cui abitanti non si fidava più dopo il voltafaccia della Fronda. Aveva già scelta l'ubicazione: poco lontano da Parigi, vicino Fontainebleau, sorgeva un castello di caccia, voluto da suo padre, circondato da paludi ed acquitrini, chiamato Versailles, con poche stanze e piccoli giardini. Disprezzato per le sue scarse attrattive era in stato d'abbandono da molti anni, ma Luigi ne era attratto, specie da quando era divenuto il suo rifugio d'amore. Conscio delle scarse attrattive della moglie mai amata, ma sposata per ragioni di Stato, s'era invaghito di Enrichetta Anna, moglie di suo fratello Filippo il quale era impegnatissimo a truccarsi, a scegliere sempre nuove parrucche ed a occupare il tempo in compagnia di avvenenti e dissoluti giovanotti. L'intervento della regina madre, preoccupatissima per questo legame, suggerì ai due amanti un piano. Il re si sarebbe finto innamorato di una dama di compagnia della cognata. La prescelta fu Louise de La Vallière, diciassette anni, figlia di un nobile di provincia. Louise era timidissima, impacciata ed emotiva. Bionda, con bellissimi e malinconici occhi blu, possedeva quella femminilità di cui Maria Teresa era priva: con grande costernazione di Enrichetta, Luigi s'innamorò perdutamente della sua dama di compagnia. Nel piccolo castello di Versailles trascorrevano lunghe ore, separati dal mondo, facevano lunghe passeggiate a cavallo nei dintorni: tutto ciò confermò ulteriormente la decisione del re di rendere Versailles degna di chi vi abitava. Inutilmente il ministro delle Finanze, J. B. Colbert, ammonì il re di non spendere più denaro di quanto non ne fosse disponibile: per rendere abitabile Versailles la cifra da spendere sarebbe stata incalcolabile. Invano, Luigi iniziò col far prosciugare le paludi, poi affidò i lavori all'architetto L. Le Vau: il nucleo centrale (costruito tra il 1624 ed il 1633) sarebbe rimasto intatto, si sarebbero aggiunte le ali, composte di due grandi edifici in mattoni rossi, contrapposte, divise da un ampio cortile, che sarà chiamato "Corte Reale". Davanti a questa fu sistemato un piazzale semicircolare, delimitato da due obelischi. Ma non bastava, i giardini ed i giochi d'acqua erano la grande passione del re, che li volle in quantità sbalorditiva nella sua nuova reggia. Incaricò il capo - giardiniere Le Nôtre di realizzare i suoi sogni botanici, con l'ordine di creare, nel lato sud, un aranceto, dato che le arance erano i suoi frutti preferiti. Sembrava che le cose non potessero andare meglio per il nuovo re: le finanze dello Stato (grazie agli sforzi di Colbert e del cancelliere M. Le Tellier) stavano riassestandosi, la regina, nel 1661, aveva dato alla luce un figlio maschio, Luigi, il Gran Delfino, la relazione con la La Velliere andava a gonfie vele. L'unico neo fu il decesso della regina madre Anna, morta di cancro nel 1666. Con la sua scomparsa la corte perse un freno limitatore ed il sovrano era libero di gestire la propria vita privata senza continui sermoni di disapprovazione: la sua amante ebbe il titolo di duchessa e la loro terzogenita, unica sopravvissuta ai primi anni, fu legittimamente riconosciuta. Tanti onori non ingannarono Louise. Il re incominciava a stancarsi di lei. La neo - duchessa zoppicava leggermente: ciò non le impediva di ballare con molta grazia, ma restava il fatto che zoppicava. Era sempre stata molto esile, dopo l'ultima gravidanza non si era più ripresa del tutto ed era dimagrita ancora di più. I cortigiani, per adularla, la paragonavano alla dea Diana ed alle ninfe silvestri, ma non cambiava la sostanza: era senza forme femminili. I suoi begli occhi blu erano circondati dagli aloni scuri delle occhiaie. Il re incominciava a temere che una simile amante non gli facesse onore.
Nel 1667 Luigi lasciò i piaceri della corte per recarsi dal suo esercito, nelle Fiandre: aveva dichiarato guerra ai Paesi Bassi per rivendicare il "Diritto di Devoluzione" secondo cui, morto Filippo IV di Spagna (1665), la regina Maria Teresa era l'erede di quei territori, nonostante la rinuncia al diritto di successione, poiché la Spagna non aveva ancora pagato la dote pattuita con la pace dei Pirenei. La guerra si concluse con la Pace di Aquisgrana, ratificata il 2 maggio 1668: la Francia restituì la Franca Contea, ma tenne alcune città delle Fiandre. Poco dopo, nel parco di Versailles, una magnifica festa (costata ben 100.000 scudi), per celebrare la vittoria, riunì tutta la nobiltà francese e, in quell'occasione, fu reso noto il nome della nuova favorita del re: Athenaïs Rochechouart de Mortemart, marchesa di Montespan. Costei era amica della duchessa La Valliere che l'aveva pregata di ravvivare, con la sua conversazione brillante, le viste del re. Athenaïs era l'opposto di Louise: bellissima, vistosa, vivacissima, sarcastica ed ambiziosa. Luigi, dapprima diffidente verso un carattere così aggressivo, col tempo iniziò ad apprezzare la prepotente personalità della bella marchesa e se ne innamorò: aveva tutte le carte in regola per essere la degna amante del re Sole. Tuttavia rimaneva un problema: la malinconica duchessa di La Valliere non poteva essere ripudiata ufficialmente a causa del marito di Atenaïs.
Enrico Pardillan, marchese di Montespan, aveva un'indole tutt'altro che accomodante, non era disposto a condividere la moglie con nessuno, tantomeno con il re. Quando iniziarono a circolare i pettegolezzi sulla marchesa, fece continue scenate, arrivò perfino a schiaffeggiare la moglie in pubblico. Una volta fermò la carrozza davanti al cancello del cortile di Versailles e urlò ai presenti che non poteva passare dall'ingresso principale perché le sue corna erano troppo lunghe! Dopo altre simili imbarazzanti esplosioni, il re "fu costretto" ad allontanare il collerico marchese e lo esiliò nelle sue terre in Guascogna. Ormai Atenaïs aveva campo libero e trionfava. Spendacciona, amica delle arti, gran giocatrice d'azzardo, arrogante, era la complice ideale di Luigi XIV quando si trattava di assecondare la sua smania di costruire o di apportare abbellimenti alla reggia. Il re era incapace di negarle qualsiasi cosa: per lei fece erigere un piccolo castello, isolato da giardini, vicino al villaggio di Trianon, in una strano stile cinese che andava di moda all'epoca. Ma all'ambiziosa marchesa non bastava, sperava in qualcosa di più "adatto a lei". Nel 1674 il re ordinò la costruzione, a Clagny, di un castello per la sua amante: affidò i lavori ad un giovane e promettente architetto J. Mansart. Nel frattempo Lousie chiese al re il permesso di ritirarsi in convento: aveva solo ventitré anni e alle spalle una storia d'amore splendida e travagliata. Al vedere quella bellezza ormai consunta, appassita il re acconsentì: la duchessa di La Valliere, madre di quattro bastardi reali, divenne sorella Luisa della Misericordia in un convento di Carmelitane.
Quattro anni più tardi Luigi trasferì ufficialmente a Versailles la sede del governo. Si resero necessari altri lavori d'ingrandimento: anche questi furono affidati a Mansart che aggiunse, alla costruzione voluta da Le Vau, altre due ali in lunghezza e due in profondità che formarono il "cortile dei Ministri". La reggia di Versailles assunse così un aspetto simile a quello definitivo (che risale al 1829). Lo stabilirsi della corte nella nuova reggia non fu un caso, ma era l'esito di un preciso piano del re: voleva avere tutta la nobiltà vicino per poterla controllare ed evitare una nuova Fronda. Inoltre, la vita dei cortigiani era costosissima: per ogni minimo avvenimento era obbligo indossare un nuovo abito, che la moda voleva essere sfarzosissimo, per questo si spendevano somme ingenti. Per far fronte a queste continue spese le entrate dei cortigiani erano insufficienti, specie quando si aggiungevano le perdite al gioco. Entravano allora in ballo le cariche a corte, la liberalità del re, traffici di privilegi, tutte cose che vertevano sulla persona reale e sulla necessità di un'assidua presenza a corte. Inoltre, molto difficilmente Luigi XIV accordava ai cortigiani il "permesso di ritirarsi nelle loro terre" per rimpinguare le finanze.
Nel 1672 scoppiò la guerra contro l'Olanda, già nei guai per le lotte intestine, nel 1678 la pace di Nimega riconobbe alla Francia la Franca Contea. Ma Luigi XIV rivendicò i diritti sull'Alsazia e sulla Lorena ed occupò Strasburgo. Contro la Francia si formò, ad Augusta nel 1681, una Lega per contrastare la potenza francese. Ne conseguì un'altra guerra, "Contro la Lega di Augusta" che si concluse con la Pace di Ryswick (20 settembre 1697): la Francia dovette restituire il Lussemburgo e la Lorena, ma conservò Strasburgo.
Nel frattempo Madame de Montespan aveva affidato la cura dei figli avuti dal re (otto, in tutto), all'amica Françoise Scarron D'Aubigné (Niort, 1635 - Saint Cyr, 1719), di cui aveva apprezzato sia l'avvenenza fisica, sia la serietà e la devozione. Al re riuscì poco simpatica, tanto che la definì "intellettuale e cavillosa"; dovette ricredersi quando constatò l'abilità e la discrezione della giovane donna, rendendosi conto dell'amore che aveva verso i bambini e della sua abilità nell'educarli. Dal canto suo Françoise era affezionata ai piccoli molto più della loro stessa madre che, molto spesso, li trascurava per lungo tempo. Nel tempo, Luigi continuò ad apprezzare sempre di più la giovane donna, dotata di una notevole intelligenza, con cui si poteva parlare di argomenti molto più seri delle frivole banalità della sua amante. Per ringraziarla della devozione che dimostrava nello svolgere i suoi compiti, il re le regalò il castello di Maintenon, vicino Chartres: Françoise Scarron divenne marchesa de Maintenon. Subito le malelingue della corte iniziarono a spettegolare e Madame de Montespan si preoccupò. Dopo l'ultima gravidanza era sgraziata e grassa, soggetta sempre ad un pessimo umore che si alternava a momenti di ilarità affettata, con il risultato di allontanare il re, che si dedicò ai lavori di Versailles e... ad altre donne. Prima ebbe una relazione con la principessa di Soubise, poi con la marchesa di Thianges, sorella di Atenaïs, ed infine con mademoiselle de Fontanges che aveva solo diciotto anni. La vita a corte stava diventando sempre meno piacevole, anche perché iniziarono a venire a galla scandali di ogni tipo. Prima ci fu la questione delle messe nere. Fu scoperto che moltissimi cortigiani erano soliti recarsi da una certa Caterina Monvoisin, detta La Voisin, donna dalle molteplici attività: procurava aborti, era esperta in veleni ed afrodisiaci (il confine tra entrambi era molto esile), prediceva l'avvenire, celebrava messe nere con la complicità di un vecchio abate traviato, risolveva problemi amorosi e "sistemava questioni d'eredità" (non è difficile immaginare come). La stessa Madanme de Montespan era una sua cliente abituale, s'era valsa del suo aiuto molte volte, con messe nere e con "pozioni magiche". Quando lo seppe, Luigi rimase esterrefatto dalla gravità della situazione, non osava credere che la sua ex amante fosse arrivata a tanto. Nel frattempo la vita a Versailles proseguiva, ogni giorno scandita da orari rigidissimi: di mattina il re si alzava e veniva vestito con un rituale immutabile cui erano ammessi, in ordine di rango, i cortigiani, poi seguivano la messa e le ore di lavoro. Nel pomeriggio tutti erano costretti a seguire il re nella passeggiata quotidiana, in cui gli uomini avevano l'obbligo di restare a capo scoperto, eccetto il re, ma guai a dimenticare il cappello: Sua Maestà poteva richiederlo in qualsiasi momento. La sera era dedicata al pasto principale composto da quattro primi, tre secondi a base di carne, insalate, frutta e dolci canditi. Il re aveva un appetito formidabile: mangiava tutte le portate, il suo piatto preferito erano le uova, cotte in qualsiasi modo. Madame de Maintenon partecipò raramente alla vita di corte, disprezzava quell'ambiente in cui "...la dissolutezza regna sovrana, l'omosessualità è un fatto comune che il re non può estirpare in pieno, perché colpirebbe direttamente il proprio fratello. Aggiungiamo a questo il vino, visto che a tarda notte sono quasi tutti ubriachi fradici...". E' facile capire perché, in questo clima, Luigi desiderasse avere una dimora sua, personale, in cui poter ricevere solo gli amici più cari: fece abbattere il Trianon di porcellana voluto per la marchesa di Montespan e fece costruire, sempre da Mansart, il Trianon di Marmo, in pietra gialla e marmo rosa circondato da uno splendido giardino. Essere invitati al Trianon costituiva, per i cortigiani, un onore altissimo, ad esserne esclusi si era prossimi alla disgrazia. Verso la fine del secolo la regina Maria Teresa morì e, due anni dopo, Luigi sposò in nozze private la marchesa de Maintenon, che, ormai cinquantenne, conservava un gradevole aspetto fisico ed uno humor raffinato. Con la sua influenza molte regole della vita di corte cambiarono: non si poteva giocare durante la quaresima, furono banditi, con pena di morte, tutti i giochi d'azzardo, era vietatissimo parlare, sia pure sottovoce, durante le funzioni religiose. In poco tempo la novella sposa si creò numerosi nemici ed altrettante antipatie. Con il nuovo secolo due lutti colpirono la famiglia reale: nel 1701 morì il fratello Filippo, dopo una violenta lite con il re, nel 1707 morì la marchesa di Montespan; nel 1711 un'epidemia di vaiolo fece strage tra i cortigiani, una della vittime fu il Gran Delfino, l'erede al trono. L'anno seguente morì anche il figlio di quest'ultimo, a soli trent'anni. Dopo simili avvenimenti la corte divenne un luogo malinconico, senza più feste, anche perché le finanze del regno erano dissestate. Nel mese di agosto del 1715 Sua Maestà iniziò a lamentare forti dolori alle gambe, ma i medici non seppero trovare la causa, non riusciva più a camminare e rimase confinato nel suo letto, da dove continuò a dirigere la vita di corte o, almeno, di quel che ne restava. Quando i medici scoprirono che la causa del male era una cancrena, Luigi XIV si sentì vicino alla fine che giunse la sera del 1 settembre. Morì circondato dai cortigiani il cui rango consentiva di assistere sia alla nascita sia alla morte di un re dell'Ancien Régime basato sulla grazia divina, che tramontava definitivamente.
RASPUTIN GRIGORI santo o genio malvagio?
Nato in Siberia da una famiglia di umilissimi contadini, nei vari ritratti fatti dagli storici viene indicato come avventuriero, monaco, guaritore taumaturgico, ipnotizzatore, telepata, crapulone. La biografia ufficiale dice che Rasputin fu sempre un po' strano. Già nella più tenera età oscillava dalla vivacità più sfrenata alla solitudine. In seguito a uno choc psico-fisico (lui e il fratello Micha caddero nel fiume, lui fu salvato a stento e restò a lungo ammalato mentre il fratello morì), affiorano i primi "poteri" che in seguito affinerà.
Nello stadio puberale si moltiplicano le manifestazioni straordinarie, ma emergono anche manifestazioni di una personalità definita dagli scienziati "isterica, mistica, traboccante sensualità, dall'immaginazione sovreccitata, in balia perenne di emozioni violente e bruschi cambiamenti d'umore".
Crescendo si rivela donnaiolo infaticabile, lavoratore accanito e danzatore sfrenato, capace di cadere in estasi ascoltando i suggestivi motivi musicali della sua terra. Sposa una robusta compaesana, ha tre figli e campa senza smettere di bere, di insidiare l'onore delle rappresentanti del gentil sesso che entrano nella sua orbita e di vedere la Madonna.
Contadino e vetturale ha la ventura di accompagnare al Monastero di Werchoturje un seminarista il quale, durante il viaggio, lo convincerà a provare la vita monastica. Combinazione tra le combinazioni in quel convento molti giovani monaci sono seguaci della setta dei Chlysty (o dei flagellanti da chlyst - frusta), i cui adepti si propongono di comunicare con Dio per incarnare Cristo mediante pratiche collettive di mortificazione corporale. Questi riti degeneravano in manifestazioni orgiastiche, l'insieme calzava a pennello alla personalità di Rasputin e gli permetteva lo studio e l'affinamento delle qualità sensitive. Lascia il monastero e per tre anni si dà alla vita di stranniki, sorta di mistico pellegrino, poi torna al paesello natio e per far dimenticare i passati stravizi si seppellisce a pregare nella cantina della propria abitazione. Di tanto in tanto, quando è rapito misticamente, lancia lunghe grida lamentose che impressionano i compaesani i quali a poco a poco prendono l'abitudine di recarsi da lui per chiedere speciali benedizioni.
I suoi occhi magnetici stregavano, o ipnotizzavano, uomini e donne, popolino e sacerdoti, la sua voce persuadeva come una musica e il confessore della bigotta e isterica zarina lo introduce a corte perché si occupi dell'erede al trono affetto da emofilia.
Rasputin riesce a calmare le crisi e le sofferenze del povero piccolo e si parla di guarigione. Intanto il sedicente monaco lavora sulla debole psiche della zarina che lo raccomanda allo zar e di raccomandazioni ricevute in raccomandazioni fatte il potere di Rasputin diventa enorme. E' il deus ex machina dell'impero, tutti lo sanno tant’è che gli avversari politici dello zar metteranno lui, la zarina e Rasputin alla berlina sui manifesti.
Com'era Rasputin secondo l'Astrologia?
Leone Ascendente Ariete esteso a Toro-Gemelli, era animato dal desiderio di emergere, di impressionare, di essere applaudito. La Luna e Saturno nel Capricorno con i pessimi aspetti creati lo rendevano diffidente, avido. Amava il potere, godeva di una discreta fortuna, aveva un'ottima memoria, nessuna remora morale, era scaltro più che intelligente, sensibile in modo animalesco agli odori, ai colori, alle musiche. Era una sorta di elemento naturale, primitivo-animalesco appunto, che grazie al desiderio di emergere, all'ambizione e alla costanza spinta fino al fanatismo aveva affinato le sue doti. Su tutto sovrintendeva l'istrionismo che era per lui una seconda natura. Giove nel Cancro in pessimo aspetto con la Luna e Saturno era l'indicatore della sua frenesia visionaria e contemporaneamente lo predisponeva all'ingordigia. Quanto alla sensualità, alla sfrenatezza sessuale tanto ricordata, sono presenti nel suo quadro e indicate come derivanti da perenne insoddisfazione. La massima che enunciava, e che ha fatto da sottofondo a tutta la sua vita? "Quando Dio manda la tentazione bisogna soccombervi" e non mi sembra che avesse letto Oscar Wilde. Mercurio nel Leone in ottimo aspetto con Marte e Nettuno parla della sua eloquenza incantatrice, ma Marte e Nettuno in opposizione indicano che la personalità del soggetto è disturbata, è un dissociato, una persona affetta da disturbi mentali, un violento emotivamente instabile che attacca perché è insicuro e pensa così di difendersi. La mania di persecuzione venava tutta la sua personalità.
Urano quadrato a Nettuno indica che Rasputin desiderava cambiare, aspirava a una metamorfosi, ma era fatalmente inclinato a scegliere modi sbagliati. Non era lucido e lungimirante come pretendeva di essere. Astrologicamente lo si può inquadrare come un fenomeno da baraccone, niente più di un ipnotizzatore.
Rasputin avanza fino al vertice massimo, viene chiamato "lo zar sopra lo zar", interviene nelle faccende dello stato, nel corso della prima guerra mondiale fa defenestrare ministri e generali a favore dei suoi protetti entrando nella storia come il genio malvagio della Russia. C'è da sperare che il termine "genio" sia una similitudine con i geni intesi come spiritelli benevoli o cattivi, stile il noto genio della lampada di Aladino, e non alla genialità come qualità della mente, perché Rasputin possedeva solo una genialità animale, fatta di diffidenza preconcetta e scaltrezza unite al complesso di Dio o mania di onnipotenza.
Nell'insieme, tra storia e riscontri astrologici, viene fatto di pensare che a favorire la sua ascesa non siano stati tanto la sua intelligenza o i suoi "poteri" quanto la fortuna che gli ha fatto incontrare persone deboli, un ambiente guasto, una società che aveva bisogno di essere stupita, abbindolata.
PIETROGRADO: NOTTE TRA IL 16-17 DICEMBRE 1916
Il principe Felix Jussupoff, il granduca Dimitri Pawlovich, il deputato Purishkevich e il medico Lazawert pensano di averne abbastanza di questo figuro e decidono di sopprimerlo per il bene della patria. Il principe fece credere a Rasputin che la propria affascinante e giovane moglie volesse sottoporsi a un trattamento ipnotico e Rasputin "tradito dalla lussuria, sperando di procurarsi una nuova amante", accettò l'invito. Alcune cronache riferiscono che in questi giorni Rasputin fosse preda di presentimenti neri, ma tant'è, al convegno si recò, accettò i pasticcini, il te e i liquori all'acido prussico in dosi industriali offerti dal generoso principe e... lamentò solo qualche bruciore di stomaco. Allora il principe decise di sparargli, lo colpì alla testa, ma Rasputin non morì. Come in una sequenza dell'orrore venne ancora pugnalato e infine gettato nel fiume. Si concludeva la sua avventura terrena.
Qual era il cielo di Rasputin in quella notte tremenda per lui e inutile per la Russia?
Contrariamente a quanto si possa pensare, non gli faceva affatto difetto la fortuna. Però Urano natale congiunto a Saturno accentuava la presunzione, la mancanza di riguardi verso gli altri. Urano quadrato a Giove indicava ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle aspirazioni suggerite dalle case che li ospitano.
Bene, Urano natale è nella quinta casa, quella "degli amori". Un ostacolo si opponeva al desiderio di Rasputin di farsi una nuova amante: il marito della medesima si suppone. Non solo, Nettuno natale congiunto a Giove in campo XII indica che il soggetto è alla ricerca di stimoli nuovi, che l'inquietudine e l'impazienza, la ricerca del piacere ottundono le facoltà mentali. Ma Nettuno in questo settore parla di intrighi, di nemici, di tradimenti. Qualcuno senza dubbio stava tramando nell'ombra, tant'è che l'ha ucciso.
Lui, da quell'essere primordiale che era, l'aveva avvertito, ma c'erano Urano e Giove quadrati: Rasputin ha favorito i congiurati restando però vittima di se stesso, della propria insaziabilità, della propria amoralità. Insomma, si è scritto il suo destino da solo. E pensare che era un veggente!
CURIOSITA': l'epiteto nel quale più comunemente si incappa quando si legge di Rasputin è demonio, il numero che gli occultisti assegnano alla "Bestia", ovvero al demonio, è 666. Sapete qual era il numero telefonico di Rasputin? 646.46.
E la sua protettrice, la zarina Alexandra Fiodorovna, sapete quando è nata? Il 6 giugno alle ore 6, come dire 6.6.6... e qualcuno non vuol sentire parlare di coincidenze!
Dicono le cronache che nel corso della giornata Rasputin ricevesse decine e decine di persone. A meno che non si trattasse di personaggi importantissimi, non riceveva nessuno singolarmente. Gli ammiratori-postulanti, che si rivolgevano a lui per ogni tipo di grazia, dall'avanzamento professionale alla guarigione di malattie, erano in gruppo, lui passava in mezzo a loro con lo sguardo dardeggiante e a volte si fermava brevemente accanto a l'uno o all'altro. Ha una curiosa rassomiglianza con ciò che accadeva con gli estimatori di Padre Pio. Con una variante: Rasputin ascoltava benevolmente, non era mai scostante o violento.
DON PEDRO e Ines de Castro un folle amore oltre la morte
Sono poche quelli che nella loro vita non hanno mai fatto follie per amore, ma anche chi ritiene di avere commesso la pazzia più grossa, non arriverà mai alle vette, o alle tragiche, grottesche quote speleologiche dipende dai punti di vista, toccati da don Pedro del Portogallo.
Siamo intorno al 1340 quando l’Infante Don Pedro, erede al trono del Portogallo, sposa Costanza di Castiglia. Lui ha una ventina di anni, lei è attorno ai quattordici-quindici, giunge a Coimbra da Burgos accompagnata dal suo seguito e dall’inseparabile Inés de Castro, sua coetanea amica e dama di compagnia. Costanza non è quello che si dice una bellezza, mentre Inés è uno splendore. Figlia illegittima di un nobile e cugina in secondo grado dello stesso Infante, quando questo la vede resta folgorato, se ne innamora alla follia e la povera Inés finisce con il ricambiare il suo amore che presto non è un segreto per nessuno. Pedro è un uomo sanguigno, gagliardo d’aspetto e senza mezze misure, si divide tra i due talami e in cinque anni circa, ha figli con la legittima consorte, che conosce la sua storia con Inés ma soffre in silenzio, e con l’amante. L’ultimo nato dal matrimonio, quello che diventerà Ferdinando I il Cortese, costa la vita alla povera Costanza che sparisce dalla scena. Ma la possibilità di regolarizzare il rapporto con Inés è impensabile, il re padre non avrebbe mai acconsentito non fosse che per la nascita spuria di Inés (come se fosse colpa dei bastardini questa condizione!), perciò Pedro va a convivere con lei e forse si sarebbe potuto dire “… vissero tutti felici e contenti” se non fosse che… Inés ha due fratelli che l’hanno seguita e che, forti dell’appoggio dell’erede al trono, fanno i comodi loro e per la nobiltà lusitana rappresentano un pericolo. Così prepotenti, si chiedono, che faranno quando Don Pedro sarà re?
I consiglieri premono su Alfonso IV perché metta fine allo scandalo, ma Pedro fa orecchie da mercante e continua a vivere la favola dell’amore di Inés in compagnia dei loro tre figli.
Passano dieci anni, i fratelli di Inés sono più che mai prepotenti, il re non sa come arginare la pericolosa situazione quando i tre consiglieri più fidati, Alvaro Consalves, Diogo Lopez Pacheco e Pedro Coelho, gli suggeriscono di togliere dalla circolazione Inés, la concubina pietra dello scandalo.
Il povero Alfonso IV accetta il suggerimento, ma vuole andare di persona da Inés, e la mattina del 7 gennaio del 1355, circondato da armati, si reca nell’antica casa di Isabella d’Aragona, vicino al convento di Santa Chiara, dove la coppia vive.
Pedro è assente, Inés ha avuto vaghe informazioni che qualcosa si sta tramando contro di lei, riceve il re piangendo, circondata dai suoi figli. A quella vista Alfonso IV non ha il cuore di dire o fare alcunché, se ne va, nell’atrio è fermato dai tre consiglieri che gli ricordano il pericolo rappresentato da quella donna e dai suoi parenti, gli strappano il consenso all’immediata soppressione e nel giardino della casa, che da quel momento si chiamerà Quinta das lacrimas, Villa delle lacrime, Inés è pugnalata.
Don Pedro perde il lume dell’intelletto: sobilla le popolazioni del Nord contro il re suo padre e dà vita ad una terribile guerra civile, distruggendo tutto ciò che incontra sul suo cammino, in pratica le ricchezze stesse di quello che sarà il suo regno. È la madre, la regina Beatrice, che riesce ad ammansirlo e per amor suo, davanti all’Arcivescovo di Braga, stipula una tregua con il padre, ma il suo animo è esacerbato e cova sentimenti di vendetta.
Nel 1357 Alfonso IV muore, Pedro è re e può sfogare quanto ha finora represso.
Nel frattempo, i tre consiglieri che avevano suggerito l’eliminazione di Inés sono fuggiti, mettendosi sotto la protezione del re spagnolo di Castiglia che ha motivo di rancore verso Pedro per i torti fatti alla povera defunta moglie Costanza. Ma Pedro sarà anche pazzo di dolore però non è uno stupido, in previsione di questo aveva fatto arrestare un gruppo di rifugiati politici castigliani e subito propone al monarca spagnolo uno scambio che non si può rifiutare: un congruo numero di pericolosi nemici della corona castigliana contro tre soli uomini. Infatti l’altro, anche lui un Pedro I, accetta, ordina l’arresto dei tre ex consiglieri per lo scambio, sfuggirà solo Diogo Lopez Pacheco perché è stato avvertito in tempo e si è dato alla fuga.
Al rientro in Portogallo Alvaro Consalves e Pedro Coelho sono rinchiusi nella prigione di Santarem in Estremadura e apparentemente dimenticati perché il re è occupato in altre faccende. Quali? Pedro, che già è chiamato il Giustiziere (per la storia sarà il Crudele), ha radunato i migliori artisti esistenti e sta facendo preparare due monumenti funebri come mai se ne sono visti fino a quel momento. Quando il lavoro è a buon punto, ecco che promulga la condanna a morte dei due prigionieri e il modo in cui saranno giustiziati: sarà loro strappato il cuore. Per la cronaca: l’America non era ancora stata scoperta, non si sapeva niente dei sacrifici Aztechi e Maya, meglio andare cauti prima di dare del barbaro a qualcuno.
Non pago, Pedro vuole assistere all’esecuzione del supplizio, costringe cortigiani e militari d’alto rango ad accompagnarlo. Le cronache raccontano che, pur essendo abituati alla crudeltà della guerra e del tempo, i militari non riuscivano a nascondere l’orrore che suscitava in loro lo spettacolo, lo stesso boia e i suoi aiutanti apparivano a disagio. Per rendere ancora più raffinata la vendetta e crudele il castigo, il primo ad essere ucciso è Pedro Coelho, e Alvaro Consalves assiste alla sua morte e non sa che il re ha voluto per lui qualcosa di diverso, ancora più lento, con il cuore strappato non dal petto ma dalla schiena. I corpi dei due disgraziati saranno bruciati e le ceneri disperse.
Vendetta è finalmente fatta, ma per Pedro non è abbastanza: Inés deve essere riabilitata, glorificata e lo fa a modo suo, terribilmente.
Ordina l’incoronazione dei “sovrani”, non solo il re, ma la coppia reale. Il popolo è perplesso, pensa ad un’incoronazione in effigie di Costanza, essendo stata questa la moglie legittima. Il re viene a sapere dei dubbi e davanti alla Corte riunita giura sul Vangelo di avere sposato segretamente Inés nove anni dopo la morte della moglie, ad officiare il rito il vescovo di Guarda, combinazione morto qualche mese prima, e con alcuni servitori come testimoni. Conoscendo il carattere del re, anche non credendo alla sua parola nessuno ha obiettato nulla.
Si avvicina il giorno fissato per l’incoronazione, Pedro fa disseppellire ciò che resta di Inés, un mucchietto d’ossa. Piangente e ancora innamorato ne fa ricomporre lo scheletro, ricostruire i legamenti.
E siamo al giorno fatidico, a Coimbra si sono radunati sudditi provenienti dai quattro punti cardinali del regno, le campane suonano a distesa, tutta la città è imbandierata e infiorata, il corteo regale è preceduto dal re, segue una lettiga dove sorretto e puntellato, ingioiellato e ricoperto dal prezioso manto delle regine portoghesi c’è lo scheletro di quella che fu Inés de Castro, attorniato dalla corte in abiti di gala. Il Vescovo incorona il re e deve mettere la corona anche sul teschio di Inés, per volontà di Pedro tornata dal regno dei morti e finalmente Regina del Portogallo! Nobili e popolani devono sfilare davanti al suo trono, genuflettersi e baciare uno degli anelli che ornano le sue dita senza carne. Quando scende la sera, la lettiga con il corpo della regina passa per le vie della città tra due ali di folla, fino al convento di Alcobaca per essere inumata nel più bel monumento che sia mai stato scolpito in Portogallo. La sua tomba è sorretta da sei chimere, sul sarcofago è raffigurata lei, la più bella donna dei due regni. Dirimpetto è il sepolcro pronto per Pedro, è sorretto da sei leoni ruggenti e sul sarcofago è raffigurato lui. Don Pedro ha voluto che i sarcofagi fossero contrapposti perché nel giorno del giudizio, levandosi in piedi, potessero ritrovarsi di fronte e guardarsi negli occhi.
La tomba dei due amanti è tuttora meta di visite, così come la Quinta das lacrimas, dove nel giardino un ruscelletto sgorga da una rupe e un cedro porta una targa che dice: “Eu dei sombra a Ignez formosa”, ho dato ombra a Inés la bella.
L'esercito imperiale romano nel IV secolo: cambiamento e non declino
Questo breve articolo vuole solo essere un introduzione all'affascinante argomento rappresentato dall'esercito Romano del IV secolo d.C., ovverosia tra le fine del regno di Diocleziano (305 d.C.) e la morte di Teodosio il Grande (395 d.C.), un periodo molto interessante del più vasto periodo noto come "Basso Impero" o "Dominato".
Ho ritenuto opportuno affrontare questo tema perché la successiva evoluzione, a partire dal V sec. d.C., delle armate Romane d’Oriente segue tendenze che hanno radici negli ordinamenti militari del IV sec. d.C.
Inoltre ho più volte potuto constatare la larga diffusione di giudizi negativi, ed affrettati, sull’efficienza della macchina bellica romana nel Tardo Impero, che derivano da concezioni oramai superate dalla storiografia specializzata più recente.
Nel presentare l'organizzazione dell'esercito imperiale Romano del IV secolo, ho voluto astrarre dall'evoluzione che ha generato tale struttura, in particolare il ruolo di Diocleziano e di Costantino il Grande nella riforma dell'esercito.
secolo.
Nella seconda parte di questo articolo presenterò inoltre anche un'introduzione alla strategia ed alla tattica dell'esercito Romano nel periodo preso in esame.
Infine un'avvertenza: l'esercito del Basso Impero è sempre stato un argomento poco studiato, specie in confronto a quello dell'Alto Impero o all'esercito Bizantino, inoltre non è stata affatto detta l'ultima parola sui risvolti militari del crollo dell'Impero Romano d'Occidente; quindi quanto da me esposto potrebbe essere un domani superato da nuovi studi o da nuove evidenze.
In particolare è da dire che vi sono dubbi anche sull'attendibilità della Notitia Dignitatum, il documento più completo pervenutoci sull'esercito romano a cavallo tra il IV ed il V sec., ma nessuno studio sul tardo esercito Romano può comunque astrarre da essa.
Tipi di unità
L'organizzazione dell'esercito Romano dell'inizio del IV secolo, dopo la riorganizzazione effettuata da Diocleziano, è, sotto alcuni aspetti, simile a quella dei Severi, anche se accresciuta dal punto di vista numerico (si è passati dai circa 350.000 uomini dell'esercito severano ad almeno 450.000 effettivi di quello dioclezianeo); ad esempio ritroviamo nell'esercito del Dominato i vecchi tipi di unità dell'Alto Impero, come legiones, auxilia, alae e cohortes.
La prima, è più importante, differenza tra l'esercito del Dominato e quello del Principato, è la distinzione tra esercito "campale" ed esercito "di frontiera", il primo altamente mobile e d'elite, suddiviso a sua volta in più eserciti campali centrali e regionali, il secondo legato al limes e con un addestramento minore, ma comunque sufficiente ai compiti principalmente difensivi cui era destinato e composto, almeno fino alla fine del IV secolo, da professionisti.
All'interno dell'esercito campale si ha poi una distinzione tra truppe palatine, comitatensi e pseudocomitatensi (qui elencate in ordine di rango).
Così le 42 legioni dell'esercito campale vengono ora divise in tre classi: legiones palatinae (ad es. Ioviani Juniores e Herculiani Iuniores), legiones comitatenses (ad es. Decima Gemina e Quinta Macedonica), e legiones pseudocomitatenses (ad es. Prima Italica e Quarta Italica).
Vi è inoltre una classe di fanti del tutto nuova nell'esercito campale: gli auxilia palatina; sono citate nella Notitia Dignitatum circa un centinaio di unità di auxilia palatina, (ad es i Batavi Seniores ed i Mattiaci Seniores.) La cavalleria dell'esercito campale consiste di 24 vexillationes palatinae (ad es. Equites Promoti Seniores e Comites Clibanarii) e di 61 vexillationes comitatenses (ad es. Equites Quinto Dalmatae ed Equites Primi Clibanarii Parthi).
In questo ordinamento, così caratteristico della mentalità romana, che dà molta importanza al rango, sia di singole persone che di gruppi, ed associa a ranghi diversi oneri e benefici diversi, le truppe palatine sono l'elite dell'esercito campale, le truppe comitatensi sono quelle "di linea", e le pseudocomitatensi sono quelle trasferite d'ufficio dall'esercito territoriale a quello campale (e ciò dimostra che, almeno per il IV secolo, si trattava di soldati di professione, sufficentemente armati ed addestrati, e pronti, se necessario, ad assumere compiti anche offensivi).
Inoltre, come a sottolineare l'evoluzione dell'esercito romano verso una forza principalmente montata, la cavalleria palatina e comitatense aveva rango superiore rispettivamente alla fanteria palatina e comitatense.
Vi sono inoltre le guardie dell'Imperatore, ovviamente le più alte in rango, divise in 12 scholae palatinae (ad es. Scola Scutariorum Secunda e Scola Armaturarum Seniorum), 5 all'Ovest e 7 all'Est, che hanno sostituito i Pretoriani, sciolti da Costantino; le scholae sono unità particolari, in quanto spesso gli scholares sono nominati ufficiali o vengono incaricati di missioni speciali; esse sono poste agli ordini del magister officiorum, una carica civile simile a quella di cancelliere dell'Impero, anziché agli ordini di magistri militum, carica militare che detiene il comando di più unità.
Più specificatamente destinati alla funzione di scuola per i futuri ufficiali erano i Protectores Domestici, che fungevano anche da guardia del corpo dell'Imperatore.
Tra le truppe di fanteria dell'esercito territoriale precipue sono circa 150 legiones e 118 cohortes, ma vi sono anche 16 numeri, di cui uno solo fuori dalla Britannia (Numerus Barcariorum) e varie altre unità denominate milites (ad es. Milites Fortenses, Milites Munifices) e auxiliares.
Per quanto riguarda la cavalleria dell'esercito territoriale, essa è divisa in alae, cunei equitum o equites; vi sono anche un paio di cohortes equitatae (Cohors Prima Equitata, Cohors Prima Claudia Equitata).
Da segnalare infine l'esistenza di diverse unità di balistarii (Balistarii Theoosiaci, Balistarii Seniores), presumibilmente armati con pezzi leggeri di artiglieria, come ad esempio le carroballistae, destinati al supporto delle unità dell'esercito campale, infatti esse, con una sola eccezione, appartengono all'esercito campale.
Effettivi delle unità e dell'esercito nel suo complesso
Gli effettivi delle legioni dell'Alto Impero variavano tra i 5.000 ed i 6.000 uomini, anche se probabilmente la massima parte delle unità non era ad effettivi pieni; le cohortes e le alae contenevano invece 500 uomini (1000 se millariae) ad effettivi pieni.
Durante il Basso Impero gli effettivi delle legioni diminuiscono; ciò è evidente se si considera il numero totale delle legioni presenti nella Notitia Dignitatum, poco meno di duecento: se esse avessero mantenuto gli stessi effettivi ci sarebbero stati circa un milione di legionari (senza contare i cavalieri e gli altri tipi di fanti).
Questa ipotesi è suffragata dall'affermazione di Vegezio che le legioni, nel IV secolo, sono molto più deboli di prima ( Vegezio, Epitome Rei Militari I.17, II.3).
Purtroppo nessun autore dell'epoca attesta con precisione gli effettivi delle legioni, e lo stesso Vegezio complica ulteriormente la situazione descrivendo nella sua Epitome Rei Militari una legione di 6.100 fanti e 726 cavalieri; molti studiosi odierni risolvono questa contraddizione affermando che Vegezio, volendo portare ad esempio le legioni dei tempi passati abbia semplicemente descritto una legione del III secolo.
In mancanza di notizie dirette si possono solo fare supposizioni basate sulla distribuzione delle legioni dell'esercito di frontiera in più locazioni fortificate (da due a sette per ogni legione), riportata nella Notitia Dignitatum; sulla frequenza con cui Ammiano cita distaccamenti di 300 - 500 uomini tratti dalle legioni, su fonti letterarie posteriori, come lo storico Bizantino Procopio, e su papiri ritrovati in Egitto che attestano la forza di diverse unità dislocate nella Tebaide sotto Diocleziano.
Queste evidenze, peraltro non definitive, ci portano a stabilire per le legioni dell'esercito campale un numero di uomini compreso tra 800 e 1.200, e per le legioni dell'esercito di frontiera un numero di effettivi alquanto più alto, all'incirca 3.000 uomini.
Per quanto riguarda gli auxilia palatina, dalle stesse fonti si deducono effettivi variabili tra i 500 e gli 800 uomini.
Per la cavalleria si può fare miglior riferimento allo Strategikon, che risale al tardo VI secolo, e ci mostra l'esercito imperiale nel suo definitivo stato di forza armata basata sulla cavalleria, con unità di circa 300 - 400 uomini, una cifra che concorda grosso modo anche con altre fonti quale Ammiano ed i papiri della Tebaide.
Si può ipotizzare quindi vexillationes, alae, cunei o unità di equites di circa 350 - 500 uomini.
Anche le Scholae, che erano, forse con un'unica eccezione, unità di cavalleria, dovevano essere formate da circa 500 uomini.
Per quanto riguarda gli effettivi totali a disposizione, data l'incertezza sulla forza delle singole unità, si possono solo fare supposizioni sulla base della Notitia Dignitatum, giacchè non abbiamo fonti dell'epoca attendibili; ad esempio Johannes Lydus, storico Bizantino del VI secolo, afferma (De magistratibus I, 27) che l'esercito Dioclezianeo era di 390.000 uomini, ma secondo un altro storico Bizantino del VI secolo, Agazia (Historiae V, 13, 7), a metà del IV secolo, e quindi solo pochi decenni dopo Diocleziano, l'esercito era di 650.000 uomini. In realtà, facendo riferimento ai valori numerici prima dati, e prendendo sistematicamente quelli minori, si arriva ad una stima di 450.000 uomini, se invece si fa sistematicamente riferimento a quelli maggiori e si suppongono tutte le unità a ranghi completi, si arriva alla stima di Agazia di 650.000 uomini.
Si può quindi concludere che gli effettivi dovrebbero essere stati compresi tra questi due estremi, ma voler dare un numero preciso è quanto meno azzardato.
Per inciso la cavalleria doveva formare il 25% dell'esercito, mentre le truppe dell'esercito campale dovevano rappresentare il 35% - 40% degli interi effettivi.
Struttura di comando
Dalla breve descrizione fin qui data si vede che l'esercito tardo imperiale aveva dimensioni, complessità e livello di organizzazione, anche logistica, che non ritroveremo più, almeno in Occidente, fino all'epoca di Napoleone: l'esercito del Dominato non sfigura a confronto della Grand Armeé, se non a livello tecnologico.
A rafforzare tale impressione concorre anche l'esistenza, nel IV secolo, di una struttura di comando di livello più alto di quello della singola legione.
Nella Notitia Dignitatum abbiamo invece per la prima volta un raggruppamento semi - permanente di unità dell'esercito campale in comandi più o meno permanenti.
Infatti nella pars Orientis troviamo due eserciti campali centrali, comandati ciascuno da un magister militum praesentalis, e tre eserciti campali regionali, in Oriente, Tracia ed Illirico, comandati rispettivamente da magistri militum per Orientem, per Thracias e per Illyri*****.
In Occidente troviamo invece una struttura diversa (forse la struttura di comando orientale è stata modificata da Teodosio il Grande dopo Adrianopoli), basata su due eserciti campali centrali, rispettivamente comandati da un magister equitum praesentalis e da un magister peditum praesentalis e su eserciti campali regionali in Gallia, Spagna, Gran Bretagna ed Illirico, comandati da comites, o, nel caso della Gallia, da un magister equitum.
Certo questi raggruppamenti di unità non erano strettamente l'equivalente dei nostri corpi di armata, in molte occasioni vengono prelevate truppe da un esercito campale per trasferirlo ad un altro, come avviene quando (Ammiano Marcellino, Res Gestae, XX, 4, 2) Costanzo II richiede a Giuliano intere unità e distaccamenti di uomini da altre unità per l'esercito impegnato nella campagna contro i Persiani; d'altronde in altre occasioni essi agiscono come veri e propri corpi d'armata, come, per esempio quando, nella campagna di Giuliano contro gli Alemanni nel 357, è originariamente prevista una manovra a tenaglia condotta dall'esercito campale di Gallia, comandato da Giuliano, e dall'esercito campale italiano comandato dal magister peditum praesentalis Barbazio (Ammiano Marcellino, Res Gestae, XVI,11, 2).
Per non parlare dei raggruppamenti semipermanenti di due legioni
o auxilia che avrebbero ben potuto rappresentare un livello di comando intermedio.
Per quanto riguarda le truppe dell'esercito di frontiera, sembra probabile che i comites ed i duces che li comandavano, rispondessero, durante le operazioni, ai magistri degli eserciti campali schierati nella loro regione.
Effettivi messi in campo
Non è affatto certo che le armate messe in campo dal Principato siano state molto più grandi di quelle messe in campo dal Dominato, almeno per quanto riguarda il IV secolo.
Se concentriamo la nostra attenzione sulle operazioni su scala limitata effettuate dall'esercito campale, peraltro molto frequenti nel IV secolo, vediamo che sono molto utilizzati raggruppamenti di unità di una forza variabile tra i 2.000 ed i 5.000 effettivi.
Ad esempio Teodosio conduce in Africa contro il ribelle Firmo circa 3.500 uomini dell'esercito campale (Ammiano, Res Gestae, XXIX, 5, 24; 5,29; 5,48); ovviamente in Africa lo appoggeranno le truppe là presenti dell'esercito di frontiera.
Quando, nel 398 d.C., scoppia nuovamente la ribellione in Africa, condotta da Gildone, fratello di Firmo, l'esercito campale schiera 5 legioni, per un totale di 5.000 uomini, dall'Italia (Orosio, Historia adversos paganos, VII, 36,6 e Claudiano, Bellum Gildoni*****, I, 421 - 423).
Dunque, per quanto riguarda le operazioni minori, bastano effettivi dell'esercito campale equivalenti a quelli di una moderna Brigata, ovviamente supportati dalle truppe dell'esercito di frontiera.
Passando ad operazioni di maggiore impegno, sono radunate forze maggiori: si va dai circa 20.000 uomini radunati per la campagna di Adrianopoli, provenienti dall'esercito campale d'Oriente ai 38.000 uomini, provenienti dagli eserciti campali di Gallia ed Italia, radunati nel 357 per la campagna contro gli Alamanni (Ammiano Marcellino, XVI, 2, 8; XVI, 12, 2; XVI, 11, 2).
Infine, per l'operazione più ambiziosa di tutto il IV secolo, l'invasione della Persia Sassanide, vengono mobilitati dai 60.000 agli 83.000 uomini, provenienti dagli eserciti campali di tutto l'Impero, (non vi sono fonti contemporanee precise, la stima più alta è dello storico Bizantino Zosimo, che scrive attorno al 500 d.C.).
Dunque, ricapitolando, per la maggior parte delle operazioni il Basso Impero poteva contare su effettivi forse deboli se paragonati alla sua vastità, ma solo marginalmente minori delle forze schierate dall'Alto Impero. D'altronde il grande addestramento e l'esperienza delle truppe regolari era solitamente sufficiente ad assicurare la vittoria contro nemici anche più numerosi.
La difesa dell'Impero poggiava dunque sulla qualità e non sulla quantità delle truppe.
Il reclutamento
L'esercito è sicuramente la singola istituzione Romana che assorbe più forza lavoro nel IV secolo. Solo per assicurare il rimpiazzo di coloro che anno per anno si congedavano (il servizio durava 20 anni nell'esercito campale e 25 nell'esercito di frontiera), assumendo effettivi per un totale di circa 500.000 uomini, occorrevano circa 24.000 uomini.
A questi si aggiungevano gli uomini da sostituire perché persi in azione o per altri motivi (malattie, diserzioni). Senza arrivare ai 96.000 uomini proposti da un autore moderno (Boak autore di "Manpower shortage and the fall of the Roman Empire in the West" 1955), non ci allontaneremo molto dal vero dicendo che, anno per anno, servivano all'esercito imperiale circa 30.000 soldati
Tale numero però saliva a dismisura in caso di campagne o battaglie particolarmente sanguinose; nell'anno di Adrianopoli, ad esempio, tenendo conto di circa 15.000 morti tra i Romani, si arrivava vicino ai 50.000 uomini da arruolare.
Poiché, come detto prima, la forza delle armate imperiali stava nella qualità dei combattenti, si procedeva comunque ad una selezione delle reclute (dilectus).
Esistevano fondalmentalmente tre tipi di reclutamento:
- Reclutamento volontario
- Reclutamento ereditario
- Reclutamento fiscale
Inoltre era sempre teoricamente possibile ricorrere alla coscrizione obbligatoria nei momenti di particolare gravità; infine, sia pur raramente prima di Adrianopoli, e con maggiore frequenza dopo Adrianopoli, e soprattutto nel V secolo, si ricorreva ai Foederati barbari, arruolando intere bande di guerrieri mercenari che combattevano sotto i loro capi alla maniera barbarica, ma che erano legati all'Impero solo da un Foedus, un patto, che prevedeva anche il pagamento dei mercenari barbari e che poteva o meno venire di volta in volta riconfermato.
Il reclutamento volontario era probabilmente la fonte maggiore di reclute; potevano arruolarsi sia cittadini Romani che barbari, a patto che fossero liberi.
Era vietato inoltre l'arruolamento di criminali, cuochi, panettieri, osti ed altre professioni ritenute umilianti (Codex Theodosianus VII.13.8 (380)), nonché dei decurioni, che spesso cercavano di sfuggire ai loro pubblici doveri arruolandosi; è da dire che la condizione dei decurioni nel Basso Impero, era molto gravosa dal punto di vista economico.
Esisteva anche una forma di reclutamento ereditario, per cui i figli dei soldati erano costretti ad arruolarsi, ciò per una legge di Costantino del 326 d.C. (Codex Theodosianus VII.22.8).
A riprova della fame di reclute che affliggeva l'esercito, l'età in cui tali uomini dovevano essere arruolati scese dai 20 - 25 anni stabiliti da Costantino ai 16 anni di una legge di Costanzo II (Codex Theodosianus VII.22.8); inoltre a partire dal 331, i figli dei soldati potevano essere arruolati anche quando i loro padri fossero ancora in servizio. Se poi un figlio di veterano si automutilava per evitare il servizio militare, veniva destinato al decurionato (il che era indubbiamente una punizione).
Al reclutamento volontario ed a quello ereditario, evidentemente insufficenti, si aggiunse anche dal 352 d. C. (Codex Theodosianus VI.35.3) un reclutamento fiscale, per cui un gruppo di contribuenti (capitula), o un singolo facoltoso contribuente, doveva fornire una tassa pagabile in reclute.
Naturalmente, specialmente i proprietari terrieri, piccoli o grandi, sempre alla ricerca di manodopera per i loro latifondi, preferivano fornire i loro coloni peggiori, dal punto di vista fisico o sociale, per cui tale reclutamento dava all'esercito reclute mediocri.
Si abbassò così nel 367 d.C. (Codex Theodosianus VII.13.3) il limite di altezza, portandolo a 5 piedi e 7 pollici (all'incirca 1,57 m.), dai 6 piedi (o 5 piedi e 10 pollici dei cavalieri delle Alae) prima fissati e più in generale si abbassarono i requisiti fisici richiesti, e furono differenziati i requisiti per il servizio nell'esercito campale o in quello di frontiera.
Ciò era particolarmente grave, perché la prestanza fisica è essenziale in un tipo di guerra non tecnologica, ma basata sul combattimento corpo a corpo in armatura e scudo; ad una crisi quantitativa dell'arruolamento se ne aggiunse quindi una qualitativa.
Poiché era diffusa la pratica dell'automutilazione (in genere del pollice), dapprima la si sanzionò duramente, poi, visti gli scarsi risultati Teodosio il Grande affermò che due reclute mutilate potevano essere accettate dagli esattori, al posto di una recluta sana (Codex Theodosianus VII.22.1 (313); VII.13.10 (381)).
Alla fine neppure questo bastò, ed anche il principio di arruolare solo uomini liberi cadde: nel 406 d.C. un editto di Onorio (Codex Theodosianus VII.13.16) promise la libertà agli schiavi che si fossero arruolati.
In una tale situazione era chiaro che quando fu data la possibilità da parte dell'Imperatore Valente di pagare la tassa in moneta (il cosiddetto aureum tironi*****) i proprietari terrieri, e spesso anche lo stato, preferivano questa strada.
Anzi per favorire i proprietari terrieri di classe senatoria (è da notare che i latifondi dell'Imperatore erano esenti da questa tassa) l'aureum tironi***** fu anche abbassato dai 36 solidi stabiliti dall'Imperatore Valente a 25 solidi nel 397.
Il gettito così ottenuto era utilizzato per pagare i volontari, o in un secondo momento, i Foederati.
La barbarizzazione dell'esercito tardo imperiale
Nonostante una vecchia teoria sostenesse che una barbarizzazione più o meno strisciante abbia minato alla base le capacità combattive dell'esercito Romano fin dai tempi di Costantino il Grande, l'orientamento più recente (vedi ad es. i lavori di Elton e di Nicasie) che nega tale problema, almeno fino a quando, con Teodosio il Grande, si ricorse all'arruolamento in massa di intere bande di mercenari barbari sotto i loro stessi capi, mi sembra più convincente.
I barbari che si arruolavano volontari, o in virtù delle condizioni di un trattato di pace imposto dai Romani (che spesso esigevano reclute dai barbari sottomessi), erano addestrati ai metodi di combattimento Romani, combattevano in unità comandate da ufficiali Romani o romanizzati, e probabilmente, anche nelle unità più germanizzate, quali gli Auxilia Palatina, non rappresentavano la maggioranza dei soldati.
Inoltre essi venivano presto romanizzati.
Da questo punto di vista sembra saggia la decisione di istituire l'aureum tironi***** per pagare i volontari, anche barbari.
Poi si arrivò all'arruolamento di intere bande di barbari (20.000 di essi combatterono al fiume Frigidus sotto le insegne di Teodosio contro l'usurpatore Eugenio nel 394 d.C.), ed allora la barbarizzazione ci fu davvero e fu deleteria, ma questo è un fenomeno che, sebbene iniziato sotto Teodosio il Grande, appartiene più al V secolo che al IV.
La decisione di Teodosio di "aprire" ai Foederati barbari mi sembra conseguenza logica della sua politica di assimilarli nell'Impero romanizzandoli (che era stata anche la politica del suo predecessore Valente); inoltre risolveva il problema della scarsità di truppe addestrate dopo le perdite subite dall'esercito campale ad Adrianopoli.
Infatti, anche ammettendo di poter rimpiazzare tutte le perdite subite, ci sarebbe voluto molto tempo prima di portare le reclute ai livelli di addestramento ed esperienza richiesti per il servizio nell'esercito campale; arruolando in massa i Goti si ottenevano da subito guerrieri già esperti, e si evitava di imporre il peso del reclutamento alle province.
Ovviamente il problema di reperire soldati addestrati si accuì dopo le perdite subite dall'esercito campale d'Occidente nella battaglia del fiume Frigidus (394 d.C.), e da quel momento l'arruolamento dei Foederati divenne un opzione sempre più attraente per gli Imperatori; ma fu una politica che nel giro di pochi decenni portò, nel V secolo, alla scomparsa dell'esercito regolare Romano in Occidente.
Una "grande strategia" per l'Impero Romano del IV secolo ?
Si è molto dibattuto negli ultimi anni, sulla scia delle polemiche innescate dal controverso "La Grande Strategia dell'Impero Romano" di Luttwak, sull'esistenza o meno di una "grande strategia", e cioè di un disegno globale valido non solo a livello regionale, ma per tutto l'Impero, e coscientemente portato avanti dai vari Imperatori.
Bisogna però subito precisare che concetti come "grande strategia", "deterrenza", "difesa in profondità" ed altri ampiamente usati da Luttwak sono stati sviluppati e definiti solo in tempi moderni, e come tali volerli applicare integralmente all'antichità classica dà risultati piuttosto dubbi; resta da vedere comunque se le evidenze in nostro possesso ci diano il quadro, se non di una "grande strategia" intesa in senso moderno, almeno di una sistematicità di interventi e di politiche che vadano al di là di una semplice serie di provvedimenti ad hoc.
Vediamo così che, a partire dalla metà del III secolo d.C., ed in maniera massiccia sotto il regno di Diocleziano, quasi tutte le frontiere dell'Impero, che d'altronde già poggiano in buona parte su ostacoli naturali, vengono rinforzate mediante fortificazioni la cui natura (forma a volte irregolare, atta a comunque a sfruttare al massimo le possibilità del terreno ed a ottimizzare lo spazio protetto dal punto di vista della lunghezza del circuito, mura più spesse, pochi cancelli fortemente protetti, torri aggettanti) è molto diversa da quella dell'età del Principato.
Tutte queste opere non hanno solo un chiaro intento difensivo, ma il governo Romano si premura anche di assicurare la facile proiezione delle proprie forze oltre il confine, mediante ad esempio avamposti, porti fluviali e ponti fortificati, strade militari ed altri accorgimenti tali da far si che la penetrazione in territorio nemico sia più facile per i Romani che per il nemico.
Il tutto viene integrato, nelle regioni di confine, con una serie di fortificazioni disposte in profondità, tese soprattutto a proteggere centri logistici e di comando e vie di comunicazione da e verso l'interno dell'Impero ed altri settori di confine, in modo da permettere spiegamenti di truppe, sia offensivi che difensivi, rapidi, sicuri e supportati da un'adeguata logistica, negando nel contempo ai nemici che avessero superato la prima linea di difesa l'uso di tali risorse.
Un studio accurato di queste fortificazioni è svolto in "The late roman army", di P. Southern e K.R. Dixon, edito da Batsford nel 1996.
Tutto questo quindi, non deve essere visto come un'unica, enorme e continua linea Maginot, o come un moderno sistema di "difesa in profondità", visto che con esso gli Imperiali vogliono nel contempo facilitare e proteggere frequenti operazioni in territorio nemico, ma piuttosto come un insieme di caposaldi e fortificazioni il cui scopo principale è di negare al nemico iniziativa, risorse e comunicazioni, a tutto vantaggio dell'esercito Romano.
A tali lavori alle frontiere si accompagna la riorganizzazione dell'esercito in una forza mobile o esercito campale (comitatenses), ed in una forza di difesa statica preposta alla difesa delle frontiere (limitanei).
L'esigenza di tale nuovo assetto nasce da una duplice esigenza: far fronte alle aumentate minacce provenienti dall'esterno assicurando nel contempo la stabilità del regime.
Lo stadio finale di tale riorganizzazione è descritto nella Notitia Dignitatum, documento che presumibilmente descrive la situazione dell'esercito Romano alla fine del IV secolo o nei primissimi anni del V secolo.
In effetti durante la crisi del III secolo era emersa la debolezza dello schieramento dell'esercito imperiale, interamente dispiegato lungo la frontiera: una volta che essa era stata superata, era necessario troppo tempo prima che altre truppe, dislocate solitamente in altri settori, potessero intervenire con efficacia, inoltre il ritiro di truppe da una parte del limes si traduceva solitamente nel materializzarsi di una minaccia esterna su quella parte di limes.
La creazione di un esercito campale, diviso in comandi regionali, permetteva di superare questa difficoltà: le truppe campali potevano intervenire, solitamente nei settori di loro competenza, e comunque il limes non veniva sguarnito dalle truppe di frontiera, che ne garantivano la difesa almeno dalla maggior parte delle minacce.
Nel contempo questo sistema permetteva all'Imperatore di avere sotto il suo diretto comando l'esercito campale, o almeno la maggior parte di esso, e cioè le uniche truppe capaci di operazioni offensive su vasta scala: il pericolo causato da sedizioni militari da parte dei vari eserciti regionali, così frequente nel III secolo, era grandemente ridimensionato.
Non voglio entrare nel merito della maggiore o minore efficacia di tale organizzazione, rimane il fatto che, nel periodo preso in esame, essa riuscì complessivamente ad assicurare la difesa dell'Impero dai nemici esterni.
Né si deve credere che l'Impero, in questo periodo, rinunziasse completamente all'offensiva: in questo periodo sono comuni operazioni offensive che variano dalla semplice incursione all'invasione in grande stile.
Sulle frontiere del Reno e del Danubio attacchi preventivi e spedizioni punitive, unite ad una forte difesa fanno si che i combattimenti non si sviluppino solo entro i confini dell'Impero, ma anche in territorio barbarico (barbari*****).
All'est la minaccia Sassanide, potenzialmente più pericolosa, ma più suscettibile di essere trattata con i mezzi diplomatici, viene fatto fronte con la difesa imperniata sulle città fortificate della Mesopotamia e con la diplomazia, anche se sotto Galerio e sotto Giuliano sono effettuate vere e proprie invasioni.
Da quanto sopra detto si può arrivare alla conclusione che il governo Romano del IV secolo vede l'Impero stesso come un'unica entità politica e persegue una politica coerente, basata su una difesa attiva, ma che non rinunzia all'offensiva ogni qual volta che le circostanze lo permettano, e si da un organizzazione militare coerente a tale politica.
E questo, ripeto, senza tirare in ballo concetti teorici squisitamente moderni, elaborati in Occidente a partire dal XIX secolo (e sulla base di un tipo di guerra molto differente dalla guerra nel mondo classico), da cui, forse, la pragmatica cultura Romana avrebbe rifuggito.
Strategie e campagne
Anche nella scelta delle strategie con cui vengono affrontate sul campo (il "livello operativo") le minacce portate dai barbari e dai Persiani, i due più grandi pericoli che minacciano la sicurezza delle frontiere del Dominato, ritroviamo una certa sistematicità.
Parliamo prima dei barbari.
Innanzi tutto le piccole incursioni sono affrontate con efficacia dalle truppe di frontiera, che si specializzano nella guerriglia di frontiera contro i barbari; tali operazioni devono essere le più frequenti, visto che i barbari preferiscono evitare lo scontro campale aperto, data la superiorità tattica, di addestramento e di equipaggiamento dell'esercito imperiale, e che moltissime incursioni dei barbari avvengono con effettivi di poche centinaia di uomini..
Ad esempio Zosimo (Historia Nova III 7,1) ci descrive le operazioni di guerriglia condotte nel 358 d. C.da Charietto, un capo Franco al servizio dei Romani, contro i Franchi Salii, mentre Ammiano Marcellino (Res Gestae XXXI, 11, 2 - 4), ci descrive le operazioni "a bassa intensità" condotte tra il 378 ed il 380 d.C. da Sebastiano e Modares contro i Goti.
A sottolineare l'importanza di tali operazioni, dalla Notitia Dignitatum ci vengono tramandati nomi pittoreschi di unità quali i Superventores, i Praeventores e gli Insidiatores.
Le incursioni su larga scala, o addirittura le invasioni, sono affrontate in maniera differente, sfruttando al meglio le difficoltà logistiche dei barbari, che sono posti di fronte a due alternative: disperdersi, potendo così saccheggiare un più ampio territorio ed ottenere maggiori rifornimenti, ma esponendosi ai contrattacchi concentrati dei Romani, o concentrarsi, potendo così meglio far fronte agli Imperiali ma soffrendo però difficoltà di approvvigionamento.
Soprattutto i barbari si trovano in difficoltà quando devono assaltare centri logistici fortificati, quali città o depositi: per tali operazioni occorre concentrarsi, e le difficoltà sono aggravate dall'ignoranza dei barbari in materia di poliorcetica.
I Romani, invece, potendo contare su linee di rifornimento e di comunicazioni sicure, e su un sistema di punti di osservazione fortificati, possono concentrare a piacimento le loro forze contro un nemico disperso, o indebolire un nemico concentrato impedendogli l'approvvigionamento.
D'altronde gli Imperiali possono anche variare a piacimento la concentrazione delle loro forze: poiché, normalmente, un contingente Romano può facilmente affrontare in campo aperto un numero di barbari anche superiore, e data la superiorità di controllo e di comando, a volte può convenire disperdere le truppe Imperiali per poter distruggere più facilmente le piccole bande di barbari dediti al saccheggio o che si ritirano, carichi di bottino.
Vegezio, per esempio, è ben conscio di tali strategie, e ce ne parla nella sua Epitome Rei Militari (III. 3 e III.9), esse sono applicate, ad esempio, contro gli Alamanni da Jovino, magister militum per Gallias, nella sua campagna nel 365 - 366 d. C. (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,1, 2), e dal Comes Teodosio nel 367 -369 d. C. contro i barbari in Britannia (Ammiano Marcellino Res Gestae XXXVII, 8); un approccio simile è usato da Stilicone sia contro Alarico che contro Radagaiso.
Ma l'esercito Imperiale non attua solo strategie difensive: anche se molti degli scontri avvengono in territorio Romano, appena se ne presenta l'occasione, l'offensiva viene portata in territorio barbarico, per mezzo di attacchi preventivi o di spedizioni punitive; esse sono frequenti anche dopo la morte di Costantino il Grande, sotto cui sono condotte estese campagne oltre il Reno (ad esempio nel 306 d.C. contro i Bructeri) ed oltre il Danubio (numerose campagne tra il 325 ed il 334 d.C.).
Nel 357 d.C. Giuliano l'Apostata passa il Reno su un ponte all'altezza di Magonza ed attacca con successo gli Alemanni (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,1, 2), l'anno successivo Costanzo II passa il Danubio e semina la distruzione tra Sarmati e Quadi (Ammiano Marcellino Res Gestae XXVII,12, 4-21), Valentiniano I nel 374 e nel 375 d.C. conduce campagne contro gli Alemanni, oltre il Reno (Ammiano Marcellino Res Gestae XXX,3, 1), e contro Quadi e Sarmati oltre il Danubio (Ammiano Marcellino Res Gestae XXX,5, 13); ancora alla fine del IV secolo, tra il 388 ed il 392 d.C. il Comes Arbogaste, lui stesso di origine Franca, conduce una serie di efficaci operazioni contro i Franchi Ripuari.
Abbiamo quindi visto come, contro i barbari, l'esercito Romano abbia a disposizione un'ampia serie di opzioni, che vanno dalla guerriglia di frontiera a delle vere e proprie campagne articolate, come quella che porta alla vittoria di Strasburgo conseguita da Giuliano l'Apostata contro gli Alemanni (357 d.C.), o quella, disastrosa, che si conclude con la sconfitta di Adrianopoli (378 d.C.), passando per una serie di operazioni di intensità intermedia, effettuate sia in territorio Romano che barbarico.
Contro i Persiani Sassanidi, più sofisticati ed evoluti, la strategia è invece prettamente difensiva, ed appoggiata al limes, fortemente fortificato, che dall'alto Tigri arriva fino al fiume Khabur passando per il medio Eufrate e che comprende città fortificate quali Singara, Bezabde, Nisibi ed Amida.
In caso di invasione Persiana, il nemico deve ridurre tali fortificazioni, affidate alle truppe di frontiera, e ciò, nonostante i Sassanidi abbiano valide conoscenze nel campo della poliorcetica, costa loro uomini, tempo e risorse preziosi, consentendo l'azione controffensiva dell'esercito campale Romano, che a sua volta fa perno proprio sulle fortificazioni ancora in mano Imperiale.
Alla fine, nella maggior parte dei casi, è possibile arrivare ad una composizione diplomatica coi Persiani.
Tipiche di tale strategia sono le campagne condotte durante il regno di Costanzo II contro i Sassanidi; tre assedi vengono condotti senza successo da Shapur II contro Nisibi, ma Costanzo II riesce a non cedere territorio ai Persiani (Ammiano Marcellino Res Gestae XXV,9,3), e, quando, nel 359 d.C. cade Amida, le perdite persiane sono tali da concludere, per quell'anno, la loro campagna di conquista.
Per il 360 d.C. Costanzo II programma la riconquista del terreno perduto l'anno precedente, ma muore in quello stesso anno.
Il suo programma è ripreso, con ben maggiori ambizioni, da Giuliano l'Apostata, ma finisce con il fallimento della spedizione e la morte dell'Imperatore (per la descrizione di questa campagna, cfr. Ammiano Marcellino Res Gestae, libri XXIII, XXIV e XXV); anche se Giuliano commette alcuni errori fatali nella conduzione della campagna, ciò non toglie che l'obiettivo strategico perseguito, ovvero la neutralizzazione definitiva della minaccia persiana in modo da porre fine ad uno stato permanente di guerra su due fronti, troppo dispendioso per le risorse romane, è ben scelto e di possibile realizzazione, visto che i Persiani, ove definitivamente sconfitti, sono più disponibili dei barbari ad accordi diplomatici duraturi.
D'altronde il tentativo di Giuliano l'Apostata sarà per molto tempo unico nel suo genere: per assistere ad un ritorno offensivo dei Romani nel settore bisognerà attendere il VI secolo.
Le tattiche sul campo
In battaglia le truppe Romane sono di solito disposte con la fanteria pesante al centro e la cavalleria su entrambe le ali, essendo la cavalleria leggera disposta sulla parte esterna di esse; la fanteria leggera può invece essere disposta in avanti, a formare una linea di schermagliatori, o può anche essere dispersa tra le linee successive della fanteria pesante, o anche dietro di essa.
La cavalleria più pesante (cataphractarii o clibanarii) viene solitamente posta su di un lato della fanteria pesante.
La fanteria pesante viene schierata su più linee ed esiste di solito una riserva di truppe appiedate e/o montate pronta ad intervenire, posta agli ordini del comandante sul campo.
Dietro lo schieramento vi è il campo, di solito fortificato, con il bagaglio dell'esercito, opportunamente guardato; questo campo è un elemento importante dello schieramento, in quanto può servire anche da punto di raccolta in caso di ritirata o peggio.
Le unità, montate o appiedate, combattono in formazione lineare, anche se, a volte, viene impiegata una formazione a cuneo (cuneus o caput porci); altra formazione in uso è la famosa testudo, usata per proteggersi dal tiro nemico.
La fanteria pesante viene schierata in ordine chiuso su più ranghi: ad esempio Vegezio, nel suo Epitome Rei Militaris II, 15, ne raccomanda sei, ma chiaramente il numero di ranghi può variare a seconda della situazione tattica e del numero e della qualità delle truppe disponibili, come, nel VI secolo consiglierà Maurizio nel suo Strategikon (Strategikon XIIB 8, 9).
Questo schieramento base, lineare, ha poi le sue variazioni.
Ad esempio a Strasburgo, Giuliano L'Apostata schiera la cavalleria sul fianco destro, assieme alle sue unità di elite, e la fanteria, su tre linee, al centro e sulla sinistra (Ammiano Marcellino Res Gestae XVI,12,21), e sembra rifiutare l'ala sinistra.
Ammiano ricorda poi disposizioni a mezzaluna, con il centro rifiutato, usate da Giuliano l'Apostata contro Alamanni e Persiani (Ammiano Marcellino Res Gestae XVI, 2, 13 e XXV, 1, 16) e circolare, usata dal comes Teodosio (Ammiano Marcellino Res Gestae XXIX, 5, 41); in altre occasioni si usano anche fortificazioni campali, usate, ad esempio, da Costanzo II a Mursa e da Eugenio al Frigidus.
A volte si distaccano delle forze per marce sul fianco dell'avversario; un esempio tratto da Ammiano (Res Gestae XXVII, 10, 9-15) è quello della battaglia di Solicinium, in cui Valentiniano I manda un distaccamento ad intercettare gli Alemanni in ritirata, mentre Orosio ricorda un attacco simile, condotto da Arbitio, un comandante di Eugenio ed Arbogaste al Frigidus (Historiarum adversus paganos libri septem 7, 35, 16), che però finisce per disertare.
Nel periodo di riferimento, a differenza di quello che a volte è avvenuto durante il Principato, l'artiglieria non è usata nelle battaglie campali.
Lo schieramento dell'esercito è fondamentale, poiché durante la battaglia è poi molto difficile modificarlo, anche se i Romani possedono un sistema di comando abbastanza efficace, fondato su mezzi acustici e segnali visivi.
Da qui l'importanza di una riserva, sottoposta direttamente al comandante, per fronteggiare eventuali sfondamenti o per sfruttare dei successi.
Importantissimo preliminare alla battaglia vera e propria è poi il passaggio dall'ordine di marcia, basato su colonne, a quello di battaglia, lineare; questo delicato movimento viene in genere coperto dagli schermagliatori, e forse una delle cause della sconfitta di Adrianopoli è che la battaglia è iniziata prima che lo schieramento Romano fosse completato.
La battaglia si apre solitamente con l'azione della fanteria leggera, in ordine aperto, che bersaglia il nemico con armi a distanza o come preparazione all'attacco vero e proprio o per disordinare o rallentare l'impeto dell'avversario che attacca; la fanteria leggera è in grado di fronteggiare le truppe leggere, montate o meno del nemico, e di agire contro gli elefanti; nel momento in cui la battaglia vera e propria è impegnata essa si ritira dietro la fanteria pesante.
Immediatamente prima dell'urto vero e proprio la fanteria Romana lancia le varie armi da getto di cui è dotata, sia per ammorbidire l'impatto stesso, sia per rendere inutilizzabili gli scudi della fanteria avversaria
Non sempre i Romani prendono l'iniziativa dell'attacco: a volte essa è lasciata al nemico, come a Strasburgo, e viene invece lanciato un contrattacco al momento opportuno, contro un nemico già indebolito.
Solitamente la fanteria pesante Romana è più addestrata, disciplinata ed equipaggiata, ed è in grado di prevalere sia sulle bande di barbari, una volta che il loro primo impeto si sia esaurito, sia sulla fanteria Persiana.
Le cariche della cavalleria nemica, sia Persiana che barbara, sono di solito fermate; problemi possono verificarsi solo quando la fanteria pesante Romana sia stata indebolita dal tiro degli arcieri Persiani, o in caso di attacchi sui fianchi, come ad Adrianopoli.
Proprio per fronteggiare eventuali sfondamenti comunque l'esercito Romano viene schierato su almeno due linee, e comunque restano disponibili le riserve.
Una volta che la fanteria pesante Romana sia riuscita ad avere la meglio, è solo questione di tempo prima che il nemico si ritiri, subendo nel contempo le perdite più gravi, se la ritirata, come spessissimo accade, si tramuta in una rotta disordinata, a cui fa seguito l'inseguimento dei Romani, guidato dalla cavalleria e dalla fanteria leggera.
Quest'ultima è una fase critica, in quanto un inseguimento ben condotto può effettivamente distruggere completamente le forze nemiche, mentre un nemico sconfitto che si riesce a disperdere potrà sempre tornare a radunarsi, come succede specialmente coi barbari.
Il ruolo della fanteria e della cavalleria
Nel periodo di riferimento la fanteria rimane ancora la "regina del campo di battaglia"; ciò è evidente sia dalle descrizioni degli scontri che ci fa Ammiano Marcellino, sia da quanto ci dice Vegezio: "intellegitur magis reipublicae necessarios pedites" (Epitome Rei Militaris III, 9) e "sciendumque in peditibus vel maxime consistere robur exercitus".
Essa occupa normalmente il centro dello schieramento, ed è in grado di affrontare con confidenza sia la fanteria che la cavalleria (o addirittura gli elefanti usati dai Persiani).
Il suo equipaggiamento è concettualmente simile a quello del Principato: elmo, armatura metallica in maglia o a squame, scudo, giavellotto e spada.
Certo lo scudo è adesso ovale, il gladius è stato rimpiazzato dalla spatha, ed il pilum, ora alleggerito e chiamato spiculum è stato integrato con la lancea che può essere usata sia come arma da il lancio che da mischia, e con giavellotti più leggeri, come il verrutum o la plumbata, ma questi cambiamenti riflettono un certo grado di specializzazione nel combattere le truppe barbariche, solitamente poco protette, ed una maggior preoccupazione per la mobilità e la semplificazione dell'equipaggiamento.
Ma che il ruolo della fanteria si stia evolvendo è innegabile.
L'importanza dell'armatura si sta riducendo, e Vegezio attesta che già dal regno di Graziano (367 -383 d.C.), le truppe cominciano a non utilizzarla più: è questo l'inizio di un trend che porterà, nel V secolo d.C., e specialmente in Occidente, ad un abbandono più o meno generalizzato dell'armatura.
Si vanno affermando unità di fanteria leggera dotate di armi da tiro, come i sagittarii, dotati di archi, e sono sempre più in uso, oltre agli archi stessi, fionde, fionde su staffa e balestre.
Nelle stesse formazioni di fanteria pesante parte degli uomini è addestrata al tiro con archi o fionde.
Si afferma l'uso degli auxilia palatina che, pur potendo fungere sul campo, come a Strasburgo, da fanteria pesante, sono anche adatti all'impiego come fanteria leggera, e quindi intrinsecamente più flessibili e più adatti ai tipi di scontri a "bassa intensità" coi barbari.
Insomma si ha una tendenza verso una maggiore specializzazione, diversificazione e flessibilità della fanteria; parallelamente, però si manifesta la tendenza ad assegnare ad essa compiti sempre più di difesa statica, privilegiando la cavalleria per l'offesa; d'altronde questa tendenza arriverà a pieno completamento solo con gli eserciti di Belisario e Narsete, la cui arma offensiva principale sarà la cavalleria.
Il ruolo della cavalleria
Per quanto riguarda la cavalleria, il suo ruolo comincia a crescere di importanza almeno fin dalla metà del III secolo d.C., e nel nostro periodo di riferimento essa, anche numericamente, assume un peso sempre maggiore, rappresentando circa il 25% delle forze combattenti, mentre, alla fine del II secolo d.C. non arrivava al 20%.
Un'altra indicazione della crescente importanza attribuita alla cavalleria, è il fatto che le vexillationes palatinae e comitatenses hanno status superiore alle loro controparti appiedate, anche se il magister peditum (comandante della fanteria) ha rango superiore al magister equitum (comandante della cavalleria).
L'aumento dell'importanza della cavalleria è dovuto al fatto che molti popoli che premono alle frontiere, come Alani, Sarmati, Persiani, Goti, dispongono abitualmente di un numero significativo di cavalieri; anche i popoli Germanici sul Reno, possono disporre ora di forze di cavalleria sicuramente maggiori di quelle schierate durante l'epoca del Principato.
La fanteria pesante Romana è di limitato uso offensivo contro tali forze, e così viene integrata da un numero crescente di cavalieri, operativamente più mobili e flessibili dei fanti.
Le ragioni strategiche per l'aumento delle forze di cavalleria sono più limitate, perché la velocità di marcia della cavalleria è maggiore di quella della fanteria, ma non in modo decisivo, e l'arma montata richiede risorse logistiche maggiori.
Una parte importante della cavalleria romana è costituita da cavalleria leggera: i reggimenti regolari di Mauri e Dalmatae esistono già dal III secolo d.C., ed ad essi se ne aggiungono altri nel corso del IV:
La cavalleria leggera è incaricata della ricognizione, protegge l'esercito in marcia, mentre in marcia protegge i fianchi dello schieramento Romano e schermaglia con il nemico, tempestandolo di frecce o giavellotti, per preparare l'attacco della cavalleria o della fanteria pesante , o per disorganizzare l'attacco nemico.
Una volta che il nemico è sconfitto è vitale per l'inseguimento, ma fornisce anche copertura all'esercito in ritirata.
Un altro compito importante della cavalleria leggera, specie contro barbari non a loro volta dotati di cavalleria leggera, è di disturbare la loro marcia mediante schermaglie ed imboscate.
Per quanto riguarda la cavalleria pesante, essa è uno strumento versatile, capace sia di azione d'urto contro altra cavalleria o fanteria media o leggera, sia di schermagliare, usando i giavellotti o le corte lance di cui è dotata, contro nemici più pesanti o resistenti.
La tendenza, nel V e VI secolo d.C. sarà quella di avere cavalieri equipaggiati ed addestrati sia con l'arco che con la lancia, atti sia all'urto che al tiro, ma nel IV secolo solo poche unità sono forse dotate di arco.
Esiste poi una cavalleria super pesante, composta di cataphractarii e clibanari, dotati non solo di armatura più estesa per il cavaliere, ma anche di bardatura per il cavallo, e chiaramente orientata all'azione d'urto mediante l'uso della lancia in carica sia contro cavalleria che contro fanteria.
Al di là della non chiara differenza tra l'equipaggiamento dei cataphractarii e clibanari, è chiaro che loro ruolo sul campo di battaglia è offensivo.
Mentre, nel periodo di riferimento, la superiorità della fanteria pesante Romana sul nemico, sia barbaro che Persiano, è evidente, la cavalleria pesante e super pesante Romana non è altrettanto efficace (cfr ad esempio Ammiano Marcellino, Res Gestae, XVI, 12, 37-41; XVIII, 8, 2-3; XXIV, 5, 10; XXV, 1, 7-9) mentre la cavalleria leggera è in generale all'altezza del suo compito.
Dai resoconti di Ammiano vediamo che la cavalleria Romana soffre molto quella Persiana, ed il peso del combattimento ricade quindi sulla fanteria, anche le performance della cavalleria super pesante sono spesso lontani dall'essere accettabili.
In effetti il passaggio da una esercito basato essenzialmente sulla fanteria pesante, ad un esercito in cui il ruolo della cavalleria è preponderante si compirà solo con gli eserciti di Giustiniano, nel VI secolo d.C.; tale trasformazione, iniziata lentamente nel III secolo d.C., continua nel IV e soprattutto, a ritmo più veloce, nel V per poi arrivare a completa maturazione nel VI e VII secolo secolo d.C., con gli eserciti dei Romani d’Oriente.