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BARBABLÙ,STORIA HORROR DEL 1400
nota mia:è una storia vera!
Barbablù. Una storia horror del XV secolo. La cronaca vera di una vicenda truce a tal punto da apparire incredibile. Un episodio mostruoso che si concluse nel mattino di mercoledì 26 ottobre 1440 quando, alle nove in punto, i battenti della Cattedrale di Nantes si aprivano per lasciar uscire un solenne corteo, guidato dal Vescovo Malestroit, la mitra dorata sul capo, il pastorale in pugno, le mani guantate di bianco. Dietro di lui venivano i canonici del capitolo, i sacerdoti, i novizi, i chierichetti e poi la folla dei popolani. C'era insomma tutto l'apparato di ogni processione solenne, con cui una città festeggia la fine di una pestilenza o rende grazie per un miracolo. Ma questa volta l'occasione era ben diversa: la processione si dirigeva fuori della città e aveva come meta i prati dell'isola di Biesse: là era pronta la forca per giustiziare un uomo che si era macchiato di crimini abominevoli: Gilles de Rais, erede di una fortuna colossale, eroe nazionale alla presa di Orléans, compagno d'armi di Giovanna d'Arco, maresciallo di Francia a soli venticinque anni. E ispiratore, secondo i più, del personaggio di Barbablù. Gilles de Rais saliva sul patibolo a soli trentasei anni: ma in un periodo cosi breve aveva vissuto con un'intensità frenetica la sua avventura, provando ad essere di tutto e il contrario di tutto: eroe militare, munifico nobiluomo, cattolico fervente, ingenuo evocatore di demoni e mostro: tra il 1432 e il 1440 alcune centinaia di fanciulli e ragazzi vennero uccisi o fatti uccidere da Barbablù, il più delle volte dopo essere stati oggetto di abusi sessuali. Ogni sera, dopo i sontuosi banchetti che si tenevano nel castello di Tiffauges, o in quello di Champtocé, o in un'altra delle residenze dove conduceva la sua vita errabonda, il sire di Rais si ritirava, seguito da una corte di pochi intimi, succubi e profittatori, tra i quali non mancavano mai i due servi, Henriet e Poitou, che seguiranno il loro signore fin sul patibolo. Nelle stanze del signore venivano introdotte le vittime: giovinetti del popolo, in genere attratti al castello col miraggio di entrare nella corte come paggi o servitori, di poter quindi avere abiti buoni e cibo quotidiano. E per questi infelici si spalancavano invece le porte di un abisso di sofferenze. Oggetti di abusi sessuali, prima o dopo esser torturati, venivano infine uccisi quando la furia del loro "signore" si era finalmente acquietata. I poveri resti venivano poi bruciati o gettati nelle cantine più profonde. Si é parlato di "qualche centinaio" : la cifra é necessariamente approssimativa perché, nonostante I'accurata istruttoria condotta dai giudici e nonostante la piena confessione dell' imputato, la macabra contabilità non poté mai essere completata, data la frenetica attività di Gilles de Rais.
L'impiccagione concluse la carriera del mostro: ma non si deve pensare che la pubblica esecuzione fosse stata accompagnata dalla soddisfazione della folla, come spesso accade quando viene giustiziato chi si é macchiato di crimini particolarmente abietti e come, a maggior ragione, doveva avvenire quando il criminale apparteneva alla nobiltà, alla casta quasi sempre intoccabile. Al contrario: le cronache dell'epoca ci parlano di una giornata di "edificazione" perché Gilles de Rais aveva saputo, anche in punto di morte, essere protagonista. Reo confesso dei suoi crimini, si era calato cosi efficacemente nella parte del pentito, da giungere a commuovere i giudici e la folla. E le sue ultime parole, davanti al boia, furono di affidamento alla Divina Provvidenza. Nessuno può dire quanto ci fu di sincero in questo pentimento e quanto fu invece
La storia di
Barbablù é molto
antica e faceva
parte della
tradizione orale
espressione della malattia mentale che rodeva il sire di Rais. Di sicuro anche in tribunale e anche sul patibolo aveva saputo (o voluto) essere un personaggio inclassificabile, centrifugo, unico.
Sul finire del secolo scorso un religioso francese, l'abate Eugène Brossard, si recò a Nantes per prendere conoscenza dei documenti e perlustrare i luoghi storici in cui era vissuto Gilles de Rais. Intenzionato a scriverne la biografia, l'abate visitò meticolosamente le terre che furono un tempo il dominio del sire di Rais. Si andava dal sud della Bretagna, a cavallo dell'estuario della Loira a Nantes, al Poitou e all'Anjou. In questi vasti domini, dove restavano e restano tuttora le rovine dei castelli di Tiffauges, Champtocé, Pouzauges, Machecoul, l'abate fece una scoperta: nella fantasia popolare il ricordo di Gilles de Rais si era confuso e poi sovrapposto con quello del Barbablù di Perrault. La storia del conte sadico uxoricida é molto antica e faceva parte della tradizione orale ben prima che Perrault, due secoli dopo i misfatti di Gilles de Rais, scrivesse la sua nota fiaba. Gilles de Rais si sposò, una sola volta, e il suo matrimonio fu, come vedremo, un avvenimento del tutto marginale nella sua vita. La sua furia sadica é di tipo omosessuale, mentre il personaggio della fiaba rivolge alle mogli i suoi istinti omicidi (uccidendone sette, numero biblico che indica una gran quantità). Ma, come ci dice l'abate Brossard "...non esiste madre o balia che nei suoi racconti abbia esitazioni sui luoghi abitati da Barbablù: i castelli che furono di Gilles de Rais (...). Numerosi sono i vecchi che abbiamo interrogato in quei paesi, e i loro racconti sono unanimi...."
In particolare presso le rovine di Tiffauges si indicava addirittura la finestrella di una stanza: era li che Barbablù sgozzava le sue vittime. Cosi il mostro vero e quello della fiaba (che, più pudicamente, é mostro ma almeno non é omosessuale) si sono nei secoli mischiati e confusi. Chi fu, nella storia, Gilles de Rais? Un pazzo, senza dubbio. Un mostro, senza dubbio. Come altrimenti potremmo classificare I' artefice di una paurosa mattanza di giovinetti? Fu anche, senza dubbio, il sinistro prodotto di un'epoca di disfacimento. Se purtroppo personaggi come Gilles esistono e probabilmente sempre esisteranno, é pur vero che il momento storico in cui visse permise che i crimini durassero nove lunghi anni (anche se la vox populi ne parlava da molto tempo prima) e in un certo senso favori anche lo sviluppo della malattia.
Quando Gilles de Rais viene al mondo, nel 1404, la Francia é impegnata verso l'esterno nella Guerra dei Cento Anni con l' Inghilterra e al suo interno é scossa dalle convulsioni dell'agonia del sistema feudale. I duchi e i baroni sono impegnati nelle loro guerre reciproche o nelle loro contingenti alleanze contro il re, figura opaca di un potere centrale debole. La popolazione é stremata da uno stato di guerra praticamente infinito, di guerre sempre meno cavalleresche e sempre più apportatrici di carestie ed epidemie. La Chiesa, custode dell' ordine morale, é a sua volta infettata da vescovi tanto insipienti quanto feroci,
La Chiesa, custode
dell' ordine morale,
é infettata
da vescovi insipienti e feroci
occupati ad accumulare ricchezze a cui spesso si oppongono predicatori che, consci del disfacimento, predicano una religiosità sempre più cupa ed angosciosa, molto più vicina alla morte di Cristo che alla sua Resurrezione.
La guerra é pratica quotidiana, ma é difficile stabilire gli schieramenti in una guerra totale, che ha stimmate di furore cieco e gratuito. La guerra é anche e soprattutto un affare, una fonte di guadagni, per chi non ha mai saputo fare altro. E i capitani più capaci hanno ottenuto dai Ioro condottieri la ricompensa più ambita: oltre alla paga, hanno il diritto di duplice bottino, di cose e di uomini. Anche se la legge cristiana non consente più la schiavitù, il riscatto diviene una pratica lucrosa e corrente in cui l'unica regola comunemente accettata é che venga eseguito rispettando le divisioni di casta che, nello sfacelo generale, resistono e collaborano, con la loro intrinseca carica di sopraffazione, a deteriorare ancor di più il clima morale.
La peste e le carestie completano l'opera omicida dei mille eserciti, regolari e di sbandati. II Vescovo di Lisieux, Thomas Basin, calcola che nella sola Normandia "duecentomila anime siano state rapite in corto intervallo dalla fame e dalla peste".
In questo clima di violenza e di eccesso quotidiani nasce Gilles de Rais. Non si conosce la data esatta: sappiamo solo che la nascita avvenne nel castello di Champtocé, sulle rive della Loira, verso la fine dell'anno 1404. Il matrimonio dei genitori di Gilles era stato celebrato il 5 febbraio di quello stesso anno, al termine di lunghe trattative e contenziosi anche giudiziari fra tre ricchissime famiglie: quella del padre, un Laval-Montmorency; quella del nonno materno, Jean de Craon; e quella dei Rais, che si estinse nel 1407 nella persona di Jeanne Chabot, detta Jeanne la Sage. L'anziana signora, invecchiata senza eredi sulle terre disposte attorno all'estuario della Loira, presso Nantes, conosciute come "Pays de Rais", era oggetto delle attenzioni tutt'aitro che disinteressate del cugino Guy de Laval. Questi, con la scusa di perpetuare il nome dei Rais, era riuscito a farsi nominare erede universale da Jeanne Chabot. Un altro parente, Jean de Craon, riuscì a convincere l'anziana castellana che il Laval altro non era che un volgare cacciatore di patrimoni. Quali fossero i suoi argomenti, non lo sappiamo, né ci sembra da gentiluomini approfondire l'indagine. Sta di fatto che il testamento a favore del cugino Guy de Laval veniva annullato e sostituito da un nuovo testamento a favore dei Machecoul-Craon. La faccenda a questo punto fini in mano ai giudici che, prudentemente, tirarono le cose in lungo, preoccupati di non inimicarsi due famiglie ugualmente potenti. E fu un bene, perché le parti, sbollita l' ira iniziale, capirono che era meglio trovare un accordo e, attraverso un complicato intreccio di testamenti e di matrimoni di convenienza, Guy de Laval poteva fregiarsi delle insegne dei Rais, sposando una figlia dei Craon, Marie, la cui nonna, Marguerite de Machecoul, madre di Craon, diveniva erede universale di Jeanne Chabot, signora di Rais.
In breve: sarebbe difficile trovare una storia d'amore all'origine del matrimonio celebrato il 5 febbraio 1404 tra Guy de Laval-Montmorency e Marie de Machecoul-Craon. Se queste nozze fossero state celebrate al giorno d'oggi, avrebbero senza dubbio avuto il patrocinio di Mediobanca. Infatti si consolidava in questo matrimonio una fortuna immensa, nata dall'unione di tre dei piú ricchi casati di Francia.
Il giovane Gilles ebbe un'educazione non diversa da quella di tanti altri nobili rampolli. Due precettori ecclesiastici gli insegnarono a scrivere e leggere correntemente in latino. II giovinetto era un lettore entusiasta, in particolare di ciò che riguardava la romanità. La lettura della "Vita dei dodici Cesari" fu l'occasione per far la conoscenza con uno dei suoi primi "idoli": Caligola, il corrotto, I'incestuoso, il sadico, ma anche l'esteta, il prodigo, il malato di titanismo che riesce a sperperare miliardi di sesterzi risparmiati da Tiberio in quelle che al giorno d'oggi si chiamerebbero "opere pubbliche" che avevano il solo scopo di soddisfare le manie di grandezza. Nell'etica medievale era normale mostrare ciò che si
L'addestramento militare era
seguito con
entusiasmo
da de Rais
definiva "exemplum ad vitandum", capace di muovere alla virtù proprio per la sua eccezionale carica negativa. Gli "exempla" apparivano al giovane Gilles invece come un affascinante programma di vita: l'eccesso, il potere, la libertà da ogni forma di vincolo morale o giuridico erano la massima espressione dell'uomo superiore. L'addestramento militare, anch'esso normale in un giovane nobile e in un'epoca in cui la guerra faceva parte del quotidiano, era seguito con entusiasmo da Gilles, che apprese a uccidere scientificamente, a trovare i punti deboli delle armature, a distinguere i vari tipi di spade, pugnali, mazze, lance.
Se le letture gli avevano fornito i modelli a cui ispirarsi, la guerra gli avrebbe offerto il campo pratico di applicazione delle sue attitudini. Rimasto orfano a soli undici anni di entrambi i genitori, il giovane Gilles trovò nel nonno materno, Jean de Craon, il suo tutore "de facto". Il vecchio Craon, che aveva perso il figlio Amaury nella battaglia di Azincourt, riversò sul nipote una strana forma di affetto dispotico e cinico. Disposto a tutto per accrescere le sostanze e la potenza del giovane Gilles, Jean de Craon non disdegnava affatto il crimine e la violenza. Veder crescere il nipote crudele, senza scrupoli, corrispondeva ai suoi piani e alla sua personalità ambiziosa. Ma il sessantenne Craon era un uomo pratico: non esitava davanti al delitto, se il delitto aveva un fine pratico chiaro e monetizzabile. Invece il nipote era un istintivo, che si disinteressava di strategie e calcoli, la crudeltà, la sopraffazione, il sadismo erano per lui esercizi della sua personalità, della sua vis interiore, svincolati da ogni previsione su conseguenze, utili o dannose che fossero. Sedicenne, Gilles de Rais ebbe finalmente modo di essere coinvolto di persona in un fatto d'armi, seguito ai torbidi generati dall'uccisione del duca di Borgogna. Craon si schierò con i Monfort, titolari del ducato di Bretagna, contro i Penthiévre, fedeli ai Valois. Subì cosi la devastazione di alcuni feudi ad opera dei nemici, che poco dopo avrebbero amaramente ripagato le loro effimere vittorie, col trionfo dei Monfort. Le cronache ci dicono che in quest'occasione il giovane Gilles poté mostrare come aveva bene appreso gli insegnamenti dei suoi maestri d'armi, potendo finalmente uccidere e torturare legalmente. Nel frattempo il terribile nonno si stava preoccupando di trovar moglie al nipote, secondo la logica che gli era più consona: organizzare un matrimonio che servisse ad allargare ulteriormente le ricchezze e i possedimenti. La scelta cadde su Catherine de Thouars, figlia di Milet e di Béatrice de Montjean. La giovinetta, sedicenne come Gilles, portava in dote nientemeno che otto castelli. Ci volle un anno e mezzo per giungere alla celebrazione delle nozze. I due "fidanzati" erano cugini, e il vecchio Craon si appellò direttamente a Roma per vincere I' opposizione del vescovo di Angers. L'argomento di Jean de Craon era quello concreto di un uomo privo d i ogni moralità, ben accetto da una Chiesa che a sua volta era completamente immersa nel marasma dell'epoca : il danaro. Non si conosce I'entitá dell'oblazione che il messo di Craon portò a Roma; si sa però che fu così notevole da rimuovere ogni impedimento e da indurre anche il vescovo di Angers a mostrarsi più conciliante, fino a celebrare lui stesso le nozze già osteggiate, quando gli fu chiaro che anche per lui c'era posto nel banchetto. E il buon prelato era così disinteressato che I'ultimo ritardo alle nozze fu dovuto solo alle trattative sull'entità dell'offerta "spontanea" che Jeans de Craon avrebbe dovuto fare per "beneficiare i poveri" della diocesi di Angers. Il matrimonio comunque fu per Gilles de Rais un puro fatto formale, fondiario e finanziario. Una figlia, Marie, nacque dopo quasi dieci anni di matrimonio. Condannate ad un ruolo subalterno, moglie e figlia di Gilles de Rais restano ombre cancellate dalla storia, né si é mai potuto stabilire quanto la moglie fosse a conoscenza delle perversioni e dei crimini del marito.
Nel 1424, allo scoccare dei vent'anni, Gilles può assumere finalmente l'amministrazione diretta di tutto il suo immenso patrimonio, iniziando le manifestazioni di sfarzo decadente di cui amò circondarsi in tutta la sua breve ma fin troppo intensa avventura terrena. Arazzi, affreschi, profusione di vetri dipinti iniziarono a rendere meno cupi i castelli. Le eccezionali
A vent'anni
Gilles assume
l'amministrazione
diretta di tutto il
suo patrimonio
disponibilità finanziarie permisero anche al giovane sire di Rais di dare sfogo a manie di collezionismo di tutti i tipi, dagli oggetti antichi fino ai reliquiari, ai crocefissi, ai calici. A tavola si mangiava solo usando vasellame e posateria d'oro. E poiché la guerra continuava ad occupare buona parte del suo tempo, fece ornare con perle e smalti anche l'utensileria militare, e intarsiare d'oro i guanti d'acciaio delle armature. Gli abiti dovevano essere il più possibile spettacolari, più simili a travestimenti, e confezionati nelle migliori stoffe. Gilles de Rais divenne ben presto famoso per l'indifferenza assoluta con cui pagava cifre esorbitanti per togliersi ogni capriccio in materia di tessuti pregiati, o di oggetti rari, o comunque di ogni stravaganza che potesse sottolineare la sua grandezza e al tempo stesso la sua indifferenza.
Nel febbraio del 1425 Gilles fa per la prima volta la conoscenza con la corte del delfino Charles, personaggio mediocre, perennemente in crisi finanziaria. Subito l'ambiente gli appare insopportabile, penoso. Ne viene peraltro ripagato con odio e diffidenza: le sue manifestazioni di prodigalità, che giunsero fino ad imprestare considerevoli somme al re stesso, senza mai richiederle in restituzione, erano fatte con una tale distratta freddezza da attizzare i risentimenti degli stessi beneficiati.
Gilles si trovava più a suo agio sui campi di battaglia: e ben presto i rudi capitani, che diffidavano di questo giovane nobile che schierava cinque compagnie che si distinguevano per l'eleganza delle livree, dovettero accorgersi che il sire di Rais era nato per la guerra. Non solo era un ottimo comandante di uomini, ma mostrava anche un coraggio personale indiscutibile. Il nonno Jean de Craon aveva spinto il nipote alle rudezze della vita militare sperando di allontanarlo cosi dalle suggestioni "decadenti" alle quali il nipote sembrava inclinare: mai calcolo fu così sbagliato. Gilles de Rais trovò presto il suo spettacolo preferito: l'impiccagione dei collaborazionisti e di quanti operavano per gli inglesi. Assisteva personalmente ad ogni esecuzione, né si allontanava finchè la vittima non aveva esaurito tutto il tragico repertorio di spasimi, contrazioni e sussulti. II fascino della morte entrava sempre di più nell'animo del giovane signore, per il quale la guerra era l'occasione di scoprirsi una vocazione, di inventarsi una figura ed un ruolo, di tradurre in realtà le fantasie malate che si sviluppavano nel suo intimo. Non fu mai patriota, ma non fu mai spinto neanche da particolari desideri di potere o di ascesa politica. Gilles de Rais combatteva, uccideva e torturava, conducendo una guerra: la "sua" guerra. Tutto il resto, gli era semplicemente indifferente.
Nell'autunno del 1428 gli Inglesi pongono l'assedio a Orléans. E in questa contingenza, nella battaglia per liberare la città assediata, la vicenda di Gilles de Rais si intreccia con quella di un altro personaggio enigmatico: Giovanna d'Arco. La Pulzella, ispirata da Dio secondo alcuni, strumento di astuzie politiche secondo altri, era il contrario di Gilles ed era al contempo una delle poche persone che potessero intendersi con lui. Entrambi eccessivi, entrambi fanatici, l'una di fervore mistico, l'altro di freddo estetismo e di crudeltà, i due personaggi avevano molti punti in comune. A Gilles de Rais era stato affidato il comando della spedizione di soccorso alla città assediata: era l'uomo più adatto, perché all'indubbia bravura militare univa il più completo disinteresse per le trame politiche e di corte. Giovanna d'Arco scacciava le prostitute che normalmente costituivano il codazzo degli eserciti in marcia, obbligava truppa e capitani ai sacramenti, redarguiva i bestemmiatori. Gilles vedeva in Giovanna il soprannaturale portato all'abnorme e apprezzava lo sprezzo che la Pulzella manifestava con tutti, se il caso lo richiedeva. La conclusione vittoriosa delle armi francesi diede a Gilles de Rais il titolo di maresciallo di Francia e il diritto di fregiarsi delle insegne reali. Il 1° luglio 1429, quando partì il corteo reale, diretto a Reims per l'incoronazione di Charles VII a Re di Francia, il sire di Rais non aveva ancora compiuto venticinque anni: era uno degli uomini più potenti e famosi della Francia che faticosamente stava cercando l'unitá nazionale e la ricostituzione dell'autorità regia.
Sarebbe interessante, ma non é qui il luogo, ricostruire le varie fasi della battaglia per la
Il giovane conte,
non ancora
venticinquenne,
era tra gli uomini
più potenti di Francia
liberazione di Orléans. Ci preme però notare come la vicenda dell'assedio e la successiva battaglia contengano in sé tutti i protagonisti e gli elementi di un'epoca in cui più nulla sembra sicuro e stabile. Abbiamo un re imbelle, peraltro non ancora incoronato, capace solo di temporeggiare; abbiamo una ragazza di vent' anni, che la tradizione vuole figlia del popolo, che ha di sicuro in sé una carica carismatica senza pari, tale da smuovere il re stesso. Ma nei pregiudizi di un'epoca in cui ormai l'unica morale era solo quella apparente, la fanciulla deve sottostare anche ad un esame di un comitato ristretto di dame d'alto lignaggio, per verificarne la verginità. Se infatti fosse stata inviata dal diavolo, come dicevano alcuni suoi detrattori, non avrebbe potuto essere, come invece verificò il comitato, "né corrotta né violentata". E mentre Giovanna inizia la sua avventura militare invocando il nome di Dio quale suo mandante, i soccorsi alla città assediata vengono organizzati sulla base di complicati equilibri politici e possono prendere il via quando viene chiarito un particolare non indifferente: che la corte reale, perennemente in crisi finanziaria, aveva ricominciato a battere moneta, avendo ottenuto gli ennesimi prestiti. C'era quindi di che pagare il "soldo" ai militari.
Lo stesso viaggio del corteo reale a Reims fu tutt'altro che una marcia trionfale; durante il tragitto, che durò per quindici giorni, le città di Auxerre, Troyes e Chalons furono convinte con sostanziosi argomenti a Iasciar passare iI regio corteo. L'incoronazione nella Cattedrale di Reims avvenne alla presenza di solo tre dei dodici pari di cui era stato richiesto l'intervento. Insomma, l'unzione solenne più che un punto di arrivo era una parentesi nel gioco politico tutt' altro che risolto che contrapponeva ancora il duca di Borgogna al re, nonché i gruppi di corte in lotta tra di loro, in una Francia in cui la presenza militare inglese era ancora pesante e fonte di tentazione per cambi di alleanze, sulla base delle convenienze di potere del momento. Non scordiamoci infatti che in un clima in cui il richiamo alla Fede era costante e quasi ossessivo, e in cui si potrebbe quindi pensare che gli stimoli ideali fossero comunque determinanti, era assolutamente normale (come avvenne per la stessa liberazione di Orléans che i nobili sottoscrivessero col re o con i suoi procuratori dei regolari contratti in cui venivano meticolosamente fissate le retribuzioni dei capitani e della truppa, il numero di armati che il nobile si impegnava a mettere in campo, i premi in caso di vittoria, e cosi via. Sicché la fedeltà alla corona, che si voleva legittimata da Iddio stesso, passava sempre attraverso lo studio del notaio e l'ufficio del tesoriere.
L'inattività seguita alla liberazione di Orléans e all' incoronazione del re mal si confacevano a Gilles de Rais e a Giovanna d' Arco, spinti entrambi, da diverse motivazioni, a continuare a combattere. Entrambi insistettero con il re per attaccare Parigi e il re li autorizzò. Ma segretamente, per poterli "scaricare" in caso di necessità. La spedizione si risolse in un nulla di fatto, il 13 settembre 1429, con un improvviso ordine regio di ripiegamento, dopo un sabotaggio ordito, secondo i più, dallo stesso cugino di Gilles de Rais, La Tremoille, potente e intrigante ministro del re.
Mentre a Giovanna d' Arco veniva concesso di sfogare le sue frenesie belliche con una sorta di piccola guerra contro la città di Saint-Pierre-le-Moustier (che non suscitava gli appetiti di alcuno e quindi poteva servire a togliersi di torno la sempre più ingombrante Pulzella), Gilles de Rais rientrava a Champtocé dove apprendeva, con la massima indifferenza, che la moglie Catherine aveva messo al mondo una bimba, cui fu dato il nome di Marie. Gilles era insoddisfatto e inquieto. Lo sfogo militare era, almeno temporaneamente, sospeso, e con esso anche lo sfarzo, l'esibizione di sé stesso che sempre accompagnava le sue imprese. Come molti reduci il sire di Rais faticava a riprendere i ritmi di una vita normale, con l'impossibilità di scaricare su oggetti adeguati il
Dopo la guerra
di Orléans il sire
di Rais faticava a
riprendere i ritmi
di una vita normale
gusto della violenza, contratto ormai come una malattia cronica. Inoltre per la prima volta Gilles si accorse che le sue casse languivano: il soldo ai capitani e alla truppa era stato superiore ai rimborsi regi. E fu sulla fine di quel 1429 che il sire di Rais mise in vendita il castello di Blaison: é il primo atto di una liquidazione di beni che qualche anno più tardi assumerà cadenze sempre più serrate e rovinose. Del resto Gilles neppure pensava di potersi privare dello sfarzo che doveva far da contraltare alla sua insoddisfazione: e riprese le spese folli per collezioni sempre più stravaganti, per un lusso maniacale nelle pretese di perfezionismo e per alimentare la piccola corte che lo seguiva ovunque, fatta di servi e profittatori, di adulatori laici e religiosi, di quella stessa varia umanità dalla quale trarrà poi i complici per i suoi crimini.
La situazione politica era però ancora in movimento. All'inizio del 1430 il reggente inglese, Bedford, cercò un'alleanza col duca di Borgogna contro il re Charles. Ne seguirono altri due anni di guerre e di torbidi (nel corso dei quali avvenne anche la cattura di Giovanna da parte del duca di Borgogna, che poi la vendette agli inglesi per lire diecimila) che s i conclusero con la battaglia di Lagny, nella bassa Marna, non lontano da Parigi. Qui l'esercito francese, ancora una volta sotto il comando di Gilles de Rais, schierò diecimila uomini, costrinse gli inglesi allo scontro aperto e li vinse. Eravamo alla fine del 1431.
Nell' autunno dell' anno successivo Jean de Craon si ammalava e moriva. Gilles aveva sempre subito l'autoritá del vecchio ribaldo che, solo al tramonto, incominciava ad intuire il mostro che stava maturando in quel nipote in cui aveva riposto tutte le sue speranze. Con un ultimo gesto patetico, il vecchio volle lasciare le sue armi al fratello minore di Gilles, René, quasi a dargli una tardiva investitura. Ma ormai per Gilles, con la morte del nonno, cadeva l'ultimo ostacolo alla totale ed esaltante libertà; ma nel contempo, nel suo animo di adolescente mai maturato, si apriva un enorme vuoto. Sopraggiunse un altro avvenimento pubblico a rinchiuderlo ancor più nel circolo privato delle sue ossessioni: la caduta di La Tremoille, suo protettore a corte, la cui carriera politica fu interrotta dalla regina Yolande con lo sbrigativo ed efficace sistema dell' accoltellamento. Fu per l'incapacitá dei sicari o, come dicono alcuni, per l'obesitá da tricheco del ministro, che l'attentato non fu mortale. Sta di fatto che, secondo lo spirito pratico dell'epoca, l'ex-potente fu convinto a ritirarsi dalla scena politica in cambio della vita, con l'aggiunta, che non guastava mai, di quattromila scudi d'oro. Ora Gilles era completamente solo. Solo con sé stesso, con le sue ossessioni. E per sua stessa confessione fu in quel periodo che iniziò la sua tremenda attività di mostro.
Il primo fanciullo che scomparve fu Jean Jeudon, dodicenne apprendista del pellaio di Machecoul, Guillaume Hilariet. Il buon artigiano non aveva alcun motivo di sospettare nulla quando nella sua bottega si presentò un personaggio altolocato, che faceva parte normalmente del seguito del sire di Rais, Gilles de Sillé. Questi gli chiese "in prestito" il ragazzo per mandare un messaggio urgente al castello. I1 ragazzo parti, emozionato dall' incarico e con la speranza di ricevere un premio. A sera non era ancora tornato e il pellaio, con l'umiltá dovuta per le differenze di rango, si permise di chiedere notizie. E iniziarono cosi le prime risposte vaghe, che sarebbero poi state ripetute per decine, centinaia di volte, con la signorile seccatura che un cavaliere doveva pur mostrare verso un popolano. Che ne era del ragazzo? Forse era stato mandato per una commissione in un villaggio vicino. Ma forse per la strada era stato rapito dai briganti. O forse, non si era sentito parlare di un fanciullo annegato nel fiume? Più volte si parlò anche di un misterioso cavaliere scozzese" che aveva reso con sé il fanciullo per farne un paggio. Che c' era dunque da preoccuparsi? Il ragazzo andava a star bene....
L'elenco delle nefandezze a cui erano sottoposti i fanciulli e, più raramente, le fanciulle, é francamente orrendo e si evince dagli atti processuali, che raccolgono la completa confessione di Gilles de Rais e dei due servi, Henriet e Poitou, che seguirono il loro
Il 14 settembre
1440 Gilles de Rais
viene arrestato su
ordine del vescovo
Malestroit
padrone in tutte le possibili crudeltà e bassezze e che lo seguiranno poi sulla forca. Ma bisogna dire che, se i due servi erano i "fedelissimi", le persone ammesse ad assistere, e talora a partecipare, agli infernali riti notturni erano ben di più. La variegata corte del sire di Rais non ignorava ciò che accadeva nelle stanze in cui le torce restavano accese fino a notte fonda: ma il processo colpi Gilles de Rais, troppo smisurato nel suo crimine, e i due servi, troppo umili per salvarsi. Le ragioni di convenienza lasciarono in libertà non pochi complici. Col tempo poi lo stesso atto sessuale contro natura venne a noia e i riti notturni erano dedicati, per lo più, all'uccisione, alla tortura, al sadismo più scatenati. Poi passava la notte, sorgeva di nuovo il sole e Gilles de Rais tornava ai suoi nuovi tormenti diurni: quelli mistici. In un incredibile miscuglio, Barbablù finanziava un gruppo di cantori della Cappella di Machecoul, che tenevano bellissimi concerti di musica sacra. Ma i cantori erano tutti giovinetti "graziosi, di modi gentili ed educati". Non mancava mai alla Messa, ma intanto si interessava all'alchimia ed alle evocazioni diaboliche, cadendo vittima di due profittatori, il prete corrotto Blanchet e un astuto furfante fiorentino, Francesco Prelati, che lo aveva convinto di essere in contatto con un diavolo, di nome Barron, dal quale Gilles sperava anche di trovare un rimedio alle situazione sempre più drammatica delle sue finanze.
Siamo nel 1437 quando le voci sul sire di Rais sono ormai troppo insistenti e costringono il vescovo di Nantes ad inviare investigatori nelle varie residenze di Gilles per accertare cosa ci sia di vero in racconti che paiono frutto di fantasie malate. Quel buon prelato condusse inizialmente l' inchiesta in modo un po' fiacco, anche perché era stato uno dei maggiori profittatori delle svendite che Gilles de Rais continuava a fare delle sue proprietà e pare fosse ancora debitore di saldi che l'interessato non si sognava neanche di chiedere, perso com'era nei suoi fantasmi. Ma l'inizio delle investigazioni costringe Gilles e i suoi fedelissimi ad una frenetica attività di occultamento dei cadaveri non bruciati. Non sono sufficientemente veloci: troppe erano le vittime e con troppa noncuranza erano state gettate nelle cantine o nelle latrine dei castelli prima di adottare prendere l' uso, più prudente, di bruciare quei poveri resti nei camini.
Iniziano i primi ritrovamenti di resti umani: le voci erano vere. E il 14 settembre 1440 il maresciallo di Francia Gilles de Rais viene arrestato su ordine del vescovo Malestroit, avendo commesso reati che erano di competenza dell'autorità ecclesiastica: eresia, orribili evocazioni (del demonio), sodomia. Restava di competenza dell'autorità civile il reato di omicidio. Ma già erano sufficienti le violazioni alla legge ecclesiastica per consegnare Gilles al boia.
E Gilles de Rais volle vivere il processo, ultimo atto di una vita smisurata, in modo smisurato. Da mostro esecrando divenne pentito acceso dalla fede. E infatti, ammettendo tutti i suoi crimini, si dilungò a raccomandare si genitori di esser vigilanti sui loro figli, perché crescessero nella Fede, senza indulgere alle mollezze e ai vizi. Una sola cosa chiese "in ginocchio, con umiltà e lacrime" ai suoi giudici: che gli venisse ritirata la scomunica, perché egli, nel suo vagare confuso tra alchimie ed evocazioni diaboliche, mai aveva perso nozione del fatto che la Salvezza é solo Nostro Signore e la Sua Chiesa. I giudici gli ritirarono la scomunica. Non solo. Quando il suo corpo si distese nell'immobilità, dopo i fremiti dell' mpiccagione, venne adagiato in una bara e "accudito da damigelle di alta condizione". Venne portato nella chiesa dei carmelitani, per l'ufficio religioso, e poi sepolto nella Chiesa di NotreDame des Carmes, a Nantes.
E i due servi, Henriet e Poitou? Troppo umili: fu concesso loro di pentirsi, ma i loro corpi furono poi dati alle fiamme e le ceneri disperse. Tre secoli e mezzo dopo, la Rivoluzione Francese suscitò anche a Nantes disordini e saccheggi e anche la chiesa di Notre-Dame des Carmes fu devastata. Le tombe furono scoperchiate e, in una sorta di postuma giustizia, i resti di Barbablù andarono a confondersi con la terra e col vento.
E gli orgogliosi castelli, per i quali il vecchio Jean de Craon tanto aveva brigato, con ogni mezzo lecito ed illecito? Subirono danni irreparabili nel corso delle ultime lotte feudali ed ancor oggi emergono nelle campagne, rovine abbandonate e neri monconi di torri sbrecciate. Tra quelle desolanti rovine il primo biografo di Gilles de Rais, l'abate Brossard, trovò ancora, nel secolo scorso, resti di ossa umane.
La Carica della Brigata Leggera
La carica della brigata leggera, svoltasi durante la guerra di Crimea, fu una mal congegnata carica di cavalleria, è ricordata soprattutto per il poema di Alfred, Lord Tennyson e per il suo effetto sull’immaginario collettivo.
E’ curioso che un evento come la carica della brigata leggera abbia segnato così tanto la mentalità inglese. Solo 673 uomini furono coinvolti e ci furono solo 157 morti su un totale di 20000 nell’intera guerra. Perchè gli inglesi hanno scelto di rendere una tragedia sentimentale un attacco inutile nato da ordini fraintesi?
La Battaglia
Half a league, half a league,
Half a league onward,
All in the valley of Death
Rode the six hundred.
"Forward, the Light Brigade!
Charge for the guns!" he said:
Into the valley of Death
Rode the six hundred.
La carica della brigata leggera
(in blu i francesi, in rosso gli inglesi, in verde i russi)
In poche situazioni è necessario comunicare bene come in guerra. Altrimenti capita quello che è successo a Balaclava.
Balaclava è un piccolo porto a sud di Sebastopoli, nella penisola di Crimea: l'esercito europeo corso in aiuto dei turchi ottomani attaccati dai russi, ha qui la sua base logistica.
Dalla sua piccola insenatura parte il cordone ombelicale che collega le forze assedianti Sebastopoli alla madrepatria.
Per tagliare quel cordone, il 25 ottobre del 1854 i russi sferrarono un deciso attacco contro le difese di Balaclava.
Gli alleati sono colti di sorpresa: la prima cerchia difensiva, un gruppo di ridotte poste sul crinale di una collina, è tenuta da poche truppe turche, e venne conquistata di slancio.
L'avanzata russa fu arrestata quando ormai era quasi alle porte di Balaclava da una "sottile linea rossa" formata dal 93mo reggimento Scozzese, che resistette saldamente agli attacchi nemici.
I russi, però, rinnovarono la minaccia lanciando nella mischia la loro cavalleria, che venne a sua volta fermata dalla Brigata della cavalleria pesante inglese, con gravi perdite.
Era il momento per lanciare una controffensiva e Lord Raglan, capo delle forze britanniche, ordinò al Duca di Lucan, comandante della Divisione di cavalleria, di "avanzare per recuperare le alture, con il sostegno della fanteria": questa decisione farà entrare nella storia la "Brigata leggera" con la famosa "Carica dei Seicento", uno degli eventi più eroici e futili della storia militare.
"Forward, the Light Brigade!"
Was there a man dismayed?
Not tho' the soldiers knew
Someone had blundered:
Theirs was not to make reply,
Theirs was not to reason why,
Theirs was but to do and die:
Into the valley of Death
Rode the six hundred.
Lucan, infatti, non potendo contare immediatamente sulla Brigata pesante, appena impegnata, spostò la Brigata di cavalleria leggera comandata da lord Cardigan: sarà questa a sostenere la parte più impegnativa dell'operazione, seguita a distanza dalla Brigata pesante.
Lucan prima di attaccare intendeva attendere l'arrivo della fanteria promessagli in supporto, ma per Cardigan questa attesa fu sufficiente a rivolgergli un'accusa di immobilismo, e fece pressione perchè si entrasse al più presto in azione. Una profonda inimicizia tra i due avrà non poca influenza sulle sorti della Brigata leggera.
Ma un altro elemento giocò un ruolo decisivo. Raglan aveva il suo posto di osservazione oltre 200 metri sopra il campo di battaglia: la sua visibilità è ottima, ma è ben diversa da quella di Lucan e Cardigan.
Raglan vide dalla sua posizione che i russi stanno portando via i cannoni dalle alture appena conquistate ai turchi, e non voleva permetterlo, perchè per consuetudine militare sottrarre i cannoni all'avversario significa averlo sconfitto. Affidò quindi al capitano Nolan - un militare di lontana origine italiana con un'ottima reputazione come cavallerizzo ma di pessimo carattere - un ordine 'verbale' urgentissimo e molto preciso: "La cavalleria avanzi rapidamente di fronte a sè e cerchi di evitare che il nemico porti via i cannoni".
Ma Lucan e Cardigan sono in posizione più bassa e gli unici cannoni che possono vedere "di fronte a sè" sono in fondo ad una lunga valle ad un paio di chilometri.
Nolan riportò a Lucan le parole di Raglan, stigmatizzandone in modo sprezzante l'immobilismo, ma il duca, forse per la scarsità delle sue informazioni, forse per reazione all'arroganza di Nolan, interpretò l'ordine in modo errato: anzichè leggerlo in congiunzione col precedente ("avanzare per recuperare le alture"), lo ritenne una sua modifica, e si comportò di conseguenza.
Così, Lucan incaricò Cardigan di attaccare i cannoni che si vedevano lontani al fondo della valle. Entrambi sapevano che le condizioni dell'attacco erano contrarie a qualsiasi logica militare: se il rapporto tra i due comandanti fosse stato più sereno, se avessero avuto un minimo di fiducia e di stima l'uno nell'altro avrebbero sicuramente analizzato la situazione e chiesto una conferma dell'ordine.
Invece nessuno dei due voleva sfigurare nei confronti dell'altro e apparire debole: "Certamente, Signore, - disse Cardigan sollevando la spada in atto di saluto - ma mi lasci puntualizzare che i russi hanno una batteria giusto di fronte a noi, e su ciascuno dei fianchi batterie e fucilieri". "Senza dubbio - convenne Lucan - ma Lord Raglan vuole quei cannoni e li avrà. Non abbiamo altra scelta che obbedire".
Cardigan schierò i suoi uomini su tre linee e quindi si mise alla loro testa, per guidarli in direzione dell'obiettivo. Erano le 11 del mattino.
Cannon to the right of them,
Cannon to the left of them,
Cannon in front of them
Volleyed and thunder'd;
Storm'd at with shot and shell,
Boldly they rode and well,
Into the jaws of Death,
Into the mouth of Hell,
Rode the six hundred.
Tutta la Brigata era avviata e già i russi iniziavano a tempestarla di colpi, quando il capitano Nolan, che si era aggiunto alla Brigata per partecipare alla carica, spronò il suo cavallo. Al galoppo pieno, forse accortosi che l'ordine di Raglan era stato male interpretato, tagliò la strada a Cardigan, urlandogli parole che il frastuono dei colpi rese inintelleggibili. Poi sollevò la sciabola e con ampi gesti indicò le alture dov'erano le ridotte e puntò deciso verso di esse come se volesse invitare la Brigata a seguirlo.
Prima che i suoi avvertimenti potessero essere compresi, uno spezzone di granata lo colpì in pieno petto, uccidendolo.
I cavalleggeri procedevano al passo: la distanza da percorrere era molta e non si poteva accelerare perchè i cavalli non dovevano essere sfiancati prima del momento della carica: così i russi ebbero tutto il tempo per falcidiarne comodamente i ranghi.
Nonstante la relativa lentezza della Brigata leggera, a Brigata pesante rimase distanziata e Lucan, di fronte alla carneficina annunciata, decise di fermarla, per impedirne la distruzione.
Flashed all their sabres bare,
Flashed as they turned in air,
Sab'ring the gunners there,
Charging an army, while
All the world wondered:
Plunging in the battery smoke,
Right through the line they broke;
Cossack and Russian
Reeled from the sabre-stroke
Shattered and sundered.
Then they rode back, but not--
Not the six hundred.
Quando arrivò il momento della carica solo 50 cavalleggeri sui 270 della prima linea riuscirono a raggiungere i cannoni.
Le batterie nemiche furono conquistate con cariche successive, ma dovettero anche essere abbandonate immediatamente, perchè dietro di esse erano schierati i cosacchi, che impegnarono gli inglesi in una mischia all'arma bianca.
Cannon to the right of them,
Cannon to the left of them,
Cannon in front of them
Volleyed and thundered;
Stormed at with shot and shell,
While horse and hero fell,
They that fought so well,
Came thro' the jaws of Death,
Back from the mouth of Hell,
All that was left of them,
Left of the six hundred.
Nonstante tutto, la Brigata leggera riuscì a districarsi da quell'inferno di ferro e di fuoco: un po' aiutandosi con mezzi propri, un po' per l'assistenza fornita dalla Brigata pesante e dalla cavalleria francese.
Tutto durò venti minuti: venti minuti di gloria e di coraggio, al termine dei quali la brigata leggera non esisteva più e 247 cavalieri giacevano uccisi sul terreno. Lord Cardigan fu il primo a piombare sui russi. Passò come un fulmine tra due cannoni e scomparve in una nuvola di fuoco e di fumo. Continuò la sua inutile corsa, inutile com'era stata la carica: adesso considerava il suo compito finito, aveva obbedito a un ordine folle di Lucan, che avrebbe sicuramente pesato per sempre sul suo rivale. Tornò indietro, senza curarsi né dei suoi uomini né dell'esito della carica.
Gli usseri e i dragoni rimasero affidati al comandante in seconda, Lord George Paget, il quale riuscì a ricondurli nelle posizioni inglesi. Paget era furibondo con il suo superiore e quando lo ritrovò gli chiese ironicamente se lui c'era. Da qui si diffuse la voce, mai completamente smentita, che in realtà Cardigan non avesse nemmeno preso parte alla carica.
Venti minuti di eroica, folle e inutile espressione di esaltazione militare, conclusasi con un macello senza giustificazioni e con una gloria senza motivazione. Il tutto dovuto a ordini sbagliati, male interpretati e ciecamente eseguiti, e allo straordinario coraggio dei cavalieri che ubbidirono caricando assurdamente contro i cannoni russi.
Ecco come Cecil Woodham-Smith descrive un momento della carica di Balaklava nel libro "La carica dei Seicento":
"...Erano passati otto minuti da quando la carica era cominciata e Lord Cardigan, con i superstiti della prima linea alle calcagna, galoppando a spron battuto, ma sempre in modo uniforme, era ormai a pochi metri dalla batteria, tanto che i soldati potevano vedere gli artiglieri in faccia. Scelse un punto tra due cannoni dove intendeva entrare e nella mente di tutti in quel momento ci fu un solo pensiero: erano quasi fuori finalmente, erano ormai vicini a quei maledetti cannoni.
Lord Cardigan, sempre rigido in sella e "calmo come una chiesa", faceva roteare la sciabola. A questo punto si udì un grande fragore, la terra tremò, apparvero enormi lingue di fuoco e il fumo divenne così denso che sembrò fosse calata la notte: gli artiglieri russi avevano sparato una salva dai loro dodici cannoni contro la prima linea della brigata leggera a una distanza di 70 metri. Di colpo la prima linea cessò di esistere e la seconda linea, che galoppava subito dietro, ebbe l'impressione che si fosse dissolta...Quando Lord Cardigan era entrato nella batteria, per miracolo era riuscito a passare incolume nello spazio tra due cannoni e in pochi secondi era già fuori dall'altra parte: era stato il primo a entrare e il primo a uscire".
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Il generale francese Bosquet, che aveva assistito alla carica, pose un celebre epitaffio al sacrificio della Brigata Leggera: "C'est magnifique, mais ce n'est pas la guerre".
When can their glory fade?
Oh, the wild charge they made!
All the world wondered.
Honor the charge they made!
Honor the Light Brigade,
Noble Six Hundred!
Gli effetti
Grazie soprattutto alla poesia di Tennyson la carica della Brigata Leggera ha avuto un posto non indifferente nell’immaginario collettivo. E’ un immagine tipicamente vittoriana di autosacrificio e dedizione al dovere. E’ stato anche un avvenimento che ha dimostrato che cavalleresche cariche di cavalleria ed ufficiali in alta uniforme scompaiono di fronte alla potenza di fuoco moderna.
La carica segna anche un punto di passaggio nel modo di intendere la guerra da parte dell’opinione pubblica. Nel 1916 durante la battaglia della Somma, gli inglesi, grazie a simili errori nella catena di comando, ebbero 60000 perdite e i poeti della Prima Guerra Mondiale non videro niente di eroico in tale perdita di vite.
Tennyson scrisse
"Their's not to reason why,
Their's but to do and die."
E Kipling replicò, riferendosi alla Prima Guerra mondiale.
"If any ask us why we died,
Tell them 'Because our fathers lied'."
CHURCHILL E L'INTERVENTO DELLE POTENZE OCCIDENTALI
NELLA RUSSIA POSTRIVOLUZIONARIA
Subito dopo la rivoluzione d'Ottobre del 1917 a Pietroburgo, la stampa inglese (The Times, Daily Mail, The Manchester Guardian, The Observer...) era convinta che il nuovo governo sarebbe rimasto in carica per pochissimo tempo. Churchill, che considerava quella rivoluzione una catastrofe mondiale, non era così ottimista.
Egli era terrorizzato dall'idea che quella rivoluzione potesse avere delle ripercussioni in Europa o soprattutto nella sua England, il cui status di "grande potenza" dipendeva direttamente dall'impero coloniale. Ecco perché, già a partire dall'11 dicembre 1917, a Bedford, egli accusò pubblicamente i bolscevichi d'aver prolungato il conflitto mondiale, abbandonando gli alleati (Inghilterra, Francia, USA, Giappone, Italia ecc.) al loro destino contro il blocco austro-tedesco (Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria, Turchia).
Il 14 dicembre, il War Cabinet britannico (organo collegiale presso il Ministero della guerra) prese la decisione di concedere a qualunque organizzazione antisovietica i fondi necessari per impedire che la Russia uscisse dalla sanguinosa guerra imperialista. Naturalmente i business circles e lo stesso Churchill avevano anche come obiettivo quello d'impadronirsi, con delle operazioni speculative, dell'immenso mercato russo, cercando anzitutto di approfittare della favorevole congiuntura per acquistare, a basso prezzo, i pacchetti d'azioni e di titoli delle maggiori banche russe.
I circoli dirigenti britannici cercavano ogni pretesto per intromettersi militarmente negli affari della Russia. Una buona occasione si presentò quando il corpo cecoslovacco, reclutato fra i prigionieri di guerra dell'esercito austro-ungarico, che doveva essere trasferito sulla transiberiana verso Vladivostok, e i volontari (russi d'etnia ceca) ancora sotto il vecchio potere russo e dipendenti dal Consiglio nazionale cecoslovacco residente a Parigi, ricevettero l'autorizzazione d'essere trasferiti in Europa occidentale passando per la Siberia. In tutto erano circa 60.000 militari.
Contando su un'eventuale fusione di tale corpo con le truppe interventiste nel nord della Russia, il governo inglese inviò, il 17 maggio 1918, una missione militare composta di 500 uomini, guidata dal generale F. Poole, con l'incarico di addestrare le truppe ceche. Ma il 25 maggio (prima ancora che vi fosse la fusione) i legionari del corpo cecoslovacco sollevarono una ribellione e appoggiarono Kolchak, governante di Omsk. Una sanguinosa battaglia si svolse nella regione del Volga, negli Urali e in Siberia.
Churchill chiese al War Cabinet di appoggiare con ogni mezzo tale rivolta, anche perché le divisioni ceche s'erano impadronite di vasti settori della ferrovia transiberiana. Sin dal 26 dicembre 1917 il War Cabinet aveva approvato l'accordo anglo-francese sull'organizzazione di un intervento armato in Russia. Il pretesto venne finalmente trovato grazie all'aiuto di Churchill, il quale s'inventò letteralmente la necessità d'inviare delle unità da sbarco inglesi per proteggere dai tedeschi, nelle città nord-russe di Arkhangelsk e di Murmansk, il materiale bellico, i depositi e tutti i beni ch'erano stati consegnati dall'Inghilterra alla Russia nel biennio 1916-17.
Il 3 marzo 1918 la Russia aveva firmato il trattato di pace di Brest-Litovsk con la Germania e uscì, di conseguenza, dalla guerra imperialista. Il 9 marzo il contingente da sbarco dell'incrociatore inglese "Gloria" occupò Murmansk. Nessuno minacciava più i beni inglesi, eppure a questo intervento parteciparono anche gli americani e i francesi. A Kem gli anglo-francesi fucilarono i dirigenti del soviet locale.
Churchill fece di tutto per convincere l'opinione pubblica (attraverso la stampa, la promozione di un "Libro bianco sulle atrocità dei bolscevichi", una stretta alleanza con i controrivoluzionari russi) che, per risolvere l'anarchia regnante in Russia, occorreva l'intervento armato delle nazioni occidentali democratiche. Egli inoltre insisteva nell'affermare, pur sapendo benissimo che il governo sovietico non aveva stipulato alcun accordo militare con l'Intesa, che tale governo aveva tradito l'Intesa, uscendo dal conflitto mondiale,
Col supporto di Churchill, i rappresentanti dei controrivoluzionari russi e i sostenitori inglesi dell'intervento armato crearono, presso il Ministero britannico dell'Informazione e della propaganda, un comitato per delle azioni congiunte in materia di politica russa. In pratica s'era capito che senza l'appoggio dell'Intesa, i capitalisti russi e i grandi proprietari terrieri non sarebbero riusciti da soli a sconfiggere il potere sovietico.
Il 16 luglio 1918, il generale-maggiore A. Knox, membro attivo del comitato, ricevette l'ordine dal War Cabinet di recarsi a Vladivostok per tutelare gli interessi militari della corona. Gli imperialisti coprivano l'intervento armato col pretesto di aiutare il popolo russo nella lotta contro la Germania. Intanto in estremo oriente, nell'aprile 1918, giapponesi e inglesi occupavano Vladivostok, seguiti il 16 agosto dagli americani.
Il 22 luglio, allorché le truppe inglesi erano in procinto di sbarcare ad Arkhalgelsk e a Murmansk, una delegazione economica ufficiale, condotta da W. Clerk, arrivò a Mosca, chiedendo, fra lo stupore del governo sovietico, di poter stabilire delle relazioni commerciali normali!
Nell'estate e nell'autunno del 1918, i 3/4 del territorio della Russia sovietica erano stati occupati dagli interventisti stranieri e dai controrivoluzionari interni. La Quadruplice Alleanza controllava ancora gli stretti del Mar Nero.
Nel luglio 1918 un aereo proveniente da Arkhangelsk atterrò nella città di Yaroslavl, dove stava per scoppiare una rivolta contro il potere sovietico. L'aviatore inglese consegnò una lettera ai leaders della sommossa, con la quale li esortava a dirigersi ad Arkhangelsk, verso nord, promettendo loro cibo, vestiario ed equipaggiamento.
Un mese prima, l'intelligence inglese aveva organizzato una ribellione antisovietica in Asia Centrale, dopodiché s'era formato un governo controrivoluzionario ad Ashkabad, il quale permise alle truppe inglesi di penetrare nel Turkestan (l'allora territorio centroasiatico popolato da etnie turche).
Il 1° agosto la flotta interventista comparve davanti ad Arkhangelsk. Il 4 gli interventisti sbarcarono a Baku: i controrivoluzionari avevano permesso loro d'attraversare l'Iran e il Mar Caspio. Nello stesso mese gli organi di sicurezza sovietici scoprirono un complotto eversivo diretto da R. Lockhart, capo della missione diplomatica inglese a Mosca. Secondo lo storico americano R. Ullman, egli ebbe come collaboratori l'ambasciatore francese in Russia, Noulens, l'ambasciatore americano, Francis, il console generale americano Poole e altri diplomatici inglesi, americani e francesi. La rete spionistica e sovversiva creata da Lockhart era molto importante, poiché prevedeva anche un piano d'occupazione del Cremlino e l'arresto del governo sovietico. Il capitano Cromie, addetto navale inglese, fu ucciso nella sparatoria che seguì all'arresto dei partecipanti al complotto.
Churchill andò su tutte le furie. Il 4 settembre 1918 il War Cabinet spedì un telegramma a Mosca, minacciando rappresaglie contro Lenin e gli altri leaders governativi. Il 20 settembre, su ordine degli inglesi, furono deportati nel deserto d'Asia centrale, 26 rivoluzionari transcaucasici e qui fucilati.
Gli interventisti inglesi bruciarono interi villaggi, fucilando i loro abitanti, crearono lager per i prigionieri, sfruttarono le immense riserve forestali e le materie prime locali: minerali di manganese, resina, lino, canapa ecc. Nell'insieme essi esportarono merci per un valore superiore ai 100 milioni di rubli oro. Un abitante su sei, dei 400.000 che abitavano il territorio settentrionale occupato dalle truppe inglesi, era finito o in prigione o nei campi di concentramento.
Nell'estate del 1918 i 3/4 del territorio russo era nelle mani degli occupanti stranieri e degli avversari interni: 14 paesi l'avevano occupato. Nella primavera del 1919 le forze antisovietiche, interne ed esterne, ammontavano a circa un milione di unità.
Il 14 novembre 1918 il War Cabinet approvò il programma d'intervento militare britannico in Russia, ovvero l'ulteriore occupazione del territorio adiacente a Murmansk e Arkhangelsk. Il governo controrivoluzionario installato nella città siberiana di Omsk fu ufficialmente riconosciuto. Dopo aver rafforzato le truppe inglesi stanziate in Siberia, gli inglesi concessero aiuto militare alle forze eversive nel sud del Paese e a quelle operanti nell'area baltica. Nello stesso mese reparti francesi e greci, sotto la protezione della marina britannica e francese, sbarcano a Odessa.
Intanto Churchill era diventato, all'inizio del 1919, nel nuovo governo di Lloyd George, Ministro della guerra: il che gli permetteva di esercitare una grande influenza su tutte le decisioni del governo. A differenza dei lavoratori inglesi, Churchill voleva la prosecuzione della guerra. Viceversa, il prudente Lloyd George temeva che, in caso di sconfitta militare, il "virus rivoluzionario" avrebbe contagiato anche il suo Paese. In effetti, la maggioranza dei membri del Cabinet sostenne lui e non Churchill.
Quest'ultimo, tuttavia, per nulla rassegnato, cominciò a preparare la campagna militare dell'ammiraglio della flotta zarista Kolchak contro la Russia sovietica, che avrebbe dovuto iniziare nella primavera del 1919, partendo dalla Siberia. Fin dall'autunno del 1918, Kolchak, aiutato dagli interventisti, era diventato il dittatore militare della Siberia.
Churchill riuscì ad ottenere dal Premier britannico che non si opponesse all'invio di nuovi rinforzi verso il nord della Russia. Il 3 aprile Lloyd George gli assicurò addirittura che non avrebbe più interferito con le disposizioni emanate dal Ministero della guerra sui movimenti delle truppe britanniche in quella zona operativa. Churchill ne arguì d'essere stato investito di poteri straordinari, per la qual cosa si sentì indotto a promuovere un reclutamento supplementare di volontari, per un periodo di nove mesi e con un "bonus" di £ 30 sterline, oltre alla paga regolare. Tuttavia, non fu facile trovare i volontari, né in Britain né in altri Paesi.
Il generale Harington suggerì di dotare le unità inglesi di gas asfissianti, già sperimentati verso la fine della I guerra mondiale, ma mai usati sugli uomini. Churchill esitò solo perché gli sembrava azzardato svelare al mondo intero un segreto così grande per un'operazione militare di modesta entità. Harington però era appoggiato dagli esperti del Ministero della guerra, che avevano già acconsentito ad inviare, alla prima occasione, 24 ufficiali specializzati in questo tipo di arma. Churchill approvò l'uso dei gas verso i primi di maggio.
Senonché le truppe inglesi stanziate in Russia, a causa dei grandi disagi sofferti, cominciavano a dar segni d'insubordinazione e a pretendere che fossero rimpatriate il più presto possibile. In questo erano pienamente appoggiate dal movimento di protesta popolare che nell'England lottava contro l'intervento armato. Churchill rispose ai soldati con il messaggio dell'aprile 1919, facendo chiaramente capire che la possibilità del rimpatrio dipendeva solo dal livello di disciplina, abnegazione ed eroismo dimostrati.
Nell'aprile 1919 il Tesoro britannico chiese al governo di togliere i viveri alla missione militare controrivoluzionaria russa a Londra. Churchill non solo era contrario a questa politica miope del mondo finanziario, ma addirittura chiedeva al Ministro delle Finanze, Austen Chamberlain, di considerare quella missione come la rappresentante di un governo che, entro un anno al massimo, agirà in nome della Russia riunificata.
In effetti, le truppe di Kolchak, che già avevano oltrepassato gli Urali, si preparavano ad impadronirsi delle città del Volga. Con l'apertura della navigazione nei mari del Nord, diventava possibile trasportare una grande quantità di munizioni e di equipaggiamenti bellici dall'Inghilterra ad Arkhangelsk. Il 9 maggio 1919 contingenti di volontari inglesi s'erano imbarcati su navigli diretti ad Arkhangelsk.
Tuttavia, verso la fine dell'estate il War Cabinet aveva deciso di ritirare dalla Russia tutte le truppe britanniche. Churchill invece sperava ancora che i suoi 35.000 volontari (in luogo dei 250.000 previsti) avrebbero potuto aiutare Kolchak, capo delle forze eversive a est del Paese e in Siberia, a ricongiungersi col fianco sinistro del fronte nord di Arkhangelsk, dove operavano gli inglesi.
Nel maggio 1919 la Conferenza di pace a Parigi, sotto le pressioni di D. Lloyd George, decise di riconoscere Kolchak come "governatore supremo di tutte le Russie". Senonché l'offensiva di Kolchak franò nello stesso mese e battè in ritirata. Gli occupanti inglesi furono immobilizzati nel nord della Russia, al punto che agli inizi di luglio alcune unità dell'Armata Rossa poterono impadronirsi della flottiglia britannica. Churchill fu costretto ad ammettere che, nonostante l'inferiorità tecnica, l'Armata Rossa aveva il morale assai superiore a quello degli avversari. Il generale americano W. Graves ebbe a dire nel suo libro America's Siberian Adventure che le atrocità commesse dalle truppe di Kolchak erano state così grandi che non sarebbero bastati 50 anni per dimenticarle.
Il 28 luglio 1918 il Daily Express affermò che alcune unità militari antisovietiche del fronte Nord erano passate nelle fila dell'Armata Rossa e, siccome la Gran Bretagna non aveva alcuna intenzione di scatenare una guerra vera e propria contro la Russia, sarebbe stato meglio por fine all'avventurismo bellicista di Churchill e rimpatriare i soldati inglesi. Churchill dovette pubblicamente ammettere che il suo piano era fallito, ma non si dimise dal suo incarico.
Nell'estate 1919 gli interventisti cominciarono a ritirarsi dal Nord. Nell'Ottobre non restava che l'esercito dell'anziano generale zarista, E. Miller (circa 25.000 uomini), che però venne sconfitto in breve tempo. Dopo quattro mesi Arkhangelsk e Murmansk erano ridiventate sovietiche.
Sotto l'impatto energico di Churchill, che non voleva rassegnarsi, la decisione di evacuare il Nord della Russia fu accompagnata da un rafforzamento delle ingerenze britanniche nel Sud del Paese. Churchill chiedeva di prestare assistenza al generale dell'esercito zarista, A. Denikin, che, dopo aver occupato vasti territori meridionali, aveva deciso, nell'estate 1919, di muovere verso Mosca.
Churchill fece di tutto perché, contemporaneamente all'avanzata di Denikin, l'esercito controrivoluzionario del Nord-Ovest, comandato dal generale zarista N. Yudenich, attaccasse Pietroburgo. Egli addirittura sperava che questa azione fosse appoggiata dalle truppe tedesche dislocate nei Paesi Baltici. Aveva bisogno di credere in questo, anche a motivo del fatto che in Inghilterra erano sempre più numerose le proteste contro l'ingerenza negli affari sovietici e le enormi spese che si dovevano sostenere per garantirle (in un solo anno il governo spese più di 100 milioni di sterline).
Di fronte alle crescenti proteste, Churchill reagì cercando:
1. di coinvolgere maggiormente gli USA nelle fornitura dell'equipaggiamento necessario alle truppe controrivoluzionarie;
2. di creare per la Gran Bretagna condizioni creditizie e commerciali quanto mai favorevoli negli immensi territori che i bolscevichi non potevano controllare;
3. di istituire, con l'aiuto del generale Yudenich, una banca anglo-russa che monopolizzasse le operazioni monetarie (e questo a Pietroburgo, che ancora non era stata presa!). In ottobre, il War Cabinet concesse a Denikin 3 milioni di sterline, poi ancora 14,5 milioni per coprire le spese degli equipaggiamenti.
Kolchak in Siberia era affiancato dal generale Knox. Denikin dal generale Holman, Il 47° squadrone dell'aviazione inglese partecipava all'offensiva contro Mosca. I marines inglesi sbarcati sulle coste del golfo di Finlandia, appoggiavano l'offensiva di Yudenich contro Pietroburgo. I consiglieri militari e gli ufficiali inglesi agivano su tutti e tre i fronti. Ci si apprestava a inviare il generale R. Haking per l'ingresso trionfale a Pietroburgo.
Di fronte a questo grande pericolo, l'Armata Rossa reagì con maggiore risolutezza: le truppe di Yudenich vennero pesantemente sconfitte. Dopo poco tempo fu la volta di quelle di Denikin. I bolscevichi occuparono le importanti città di Orel e Voronez. Nell'ottobre venne sconfitto anche Kolchak. Il 27 dicembre Denikin implora, in un telegramma, l'aiuto del Ministero della guerra inglese, affermando, a chiare lettere, ch'egli combatteva anche per la causa inglese.
Churchill finalmente si rese conto che la disfatta era stata completa. Il governo inglese decise d'inviare delle navi da trasporto a Novorossisk (nel mar Nero) per evacuare la missione militare inglese e i rappresentanti della controrivoluzione interna. L'emissario inviato nel sud della Russia fu H. MacKinder. Il 9 gennaio 1920 il governo Usa dichiara pubblicamente che le truppe americane sarebbero state ritirate in pochi mesi (l'ultimo gruppo se ne andrà nel novembre del 1922).
Secondo i dati ufficiali pubblicati a Londra, dei 2000 militari inglesi operativi nel sud della Russia, solo sei vennero uccisi nei combattimenti; altri 194 vennero uccisi nel nord, e 129 nella regione del Baltico, per un totale di 329 soldati su tutti i teatri della guerra civile tra il 1918 e il 1920.
I danni causati all'economia nazionale russa, in seguito all'intervento straniero e alla guerra civile, ammontarono a circa 50 miliardi di rubli-oro. La produzione industriale scese al 4-20% del livello pre-rivoluzionario. Quella agricola si ridusse della metà. I settori riguardanti i combustibili, la metallurgia, le costruzioni meccaniche e i trasporti erano disastrati. Le perdite totali della popolazione, dovute alla fame, alle malattie, al terrore degli anticomunisti interni ed esterni, furono di circa 8 milioni di persone. L'Armata Rossa perse circa un milione di soldati.
I rapporti tra URSS e Gran Bretagna ebbero una svolta positiva solo quando, nel 1920, apparvero i primi gravi segni della crisi economica del mondo occidentale. I business circles inglesi cominciarono ad interessarsi del mercato russo. Lloyd George s'impegnò per ristabilire delle relazioni commerciali con l'URSS. Churchill si sentiva tagliato fuori. Nonostante ciò egli continuò a fare quanto era in suo potere per appoggiare l'ultimo generale zarista, il barone baltico Wrangel, successore di Denikin. Churchill addirittura si rifiutò di richiamare in patria la missione militare britannica stanziata in Crimea, dove si erano trincerate le truppe di Wrangel, e ordinò alle proprie navi da guerra al largo della Crimea di assisterlo con ogni mezzo.
Nella primavera, l'esercito della Polonia borghese e feudale attaccò l'URSS nella speranza di annettersi la Bielorussia, l'Ucraina, la Lituania e altri territori. L'Armata Rossa dovette ritirarsi.
Churchill pretendeva di differire al massimo la conclusione dell'accordo commerciale con l'URSS. Il cargo "Jolly George" era pronto a lasciare il porto di Londra per rifornire di armi e vettovaglie le truppe polacche. I portuali però si rifiutarono di farlo partire.
Quando l'Armata Rossa passò al contrattacco, Churchill chiese l'intervento militare immediato del suo governo e di quello tedesco, ma invano. I lavoratori inglesi erano ostili a qualunque intervento armato. Nell'agosto 1920 la Conferenza operaia nazionale minacciò lo sciopero generale se il governo non avesse riconosciuto l'URSS e non avesse stabilito nuove relazioni commerciali. Lloyd George fu costretto a cedere.
Orami il prestigio dell'URSS era così cresciuto in Europa occidentale, che si manifestava persino tra i parenti di Churchill. Infatti, sua cugina Clara Sheridan, scultrice, s'era recata, nell'autunno 1920, a Mosca per fare il busto di Lenin.
Il 16 novembre 1920 le ultime navi inglesi lasciarono il porto di Sebastopoli, indirizzando le ultime truppe controrivoluzionarie verso la Turchia. Il giorno dopo il governo inglese decise di aprirsi al commercio con i sovietici. Churchill protestò energicamente, ma senza successo. Solo vent'anni dopo riuscirà a comprendere che per vincere il pericolo nazifascista, l'Inghilterra aveva bisogno d'allearsi non solo con gli USA ma anche con l'URSS. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale segnerà l'apogeo del trionfo di Churchill come statista.
Purtroppo il suo avventurismo politico si manifestò di nuovo a Fulton, negli USA, quando il 5 marzo 1946 egli lanciò l'idea di un'altra crociata contro l'URSS, tristemente conosciuta sotto il nome di "guerra fredda". Solo oggi abbiamo capito che occorre bandire l'uso della forza dalla politica internazionale, anche quando si è convinti d'essere nel giusto; che si deve garantire la possibilità di rapporti pacifici fra Stati a diverso regime sociale, mettendo da parte le questioni di carattere ideologico; che occorrono strumenti internazionale di diritto, rappresentativi della volontà politica di ogni Stato, cui ogni Stato si debba sentire vincolato. Il crollo del cosiddetto "socialismo reale" è, in tal senso, la diretta testimonianza che quando in un Paese la democrazia non esiste, sono quegli stessi cittadini che ne soffrono la mancanza a pretenderla, presto o tardi.
Invasione nipponica
Nel maggio 1918 iniziò un'aggressione da parte delle potenze occidentali (Inghilterra, interessata soprattutto al Caucaso, e Usa, interessata alla Siberia, ma anche Francia, interessata alla Crimea, e Italia) contro la Russia sovietica col pretesto di aiutare il popolo russo nella lotta contro la Germania. Il contingente fu aiutato da militari cecoslovacchi.
Anche il Giappone fece la sua parte. Il pretesto dell'intervento fu quello di difendere i sudditi dell'impero nipponico: alcune migliaia di piccoli commercianti, bottegai, proprietari di ristoranti e di piccoli laboratori che costituivano circa lo 0,5% della popolazione locale della zona del litorale estremorientale e che non erano minacciati da nulla.
Le prime avvisaglie dell'intervento si verificarono nel gennaio 1918, allorché la corazzata Iwami e l'incrociatore Asahi gettarono l'ancora nella rada di Vladivostok. L'intenzione del governo nipponico era inizialmente quella di smembrare la Russia per avere dei piccoli Stati da gestire in proprio. Ma successivamente si pensò di occupare tutto il territorio russo a est del lago Bajkal.
Le prime truppe nipponiche sbarcarono il 5 aprile 1918 a Vladivostok con un contingente di circa 72.000 uomini, appoggiando subito i controrivoluzionari, effettuando saccheggi, bruciando villaggi (p.es. quello di Sokhatino) e uccidendo cittadini sovietici (p. es. nel villaggio di Ivanovka). Il 4-5 aprile 1920 furono uccisi oltre 400 partigiani sovietici e molti dirigenti bolscevichi, tra cui l'eroe Serghei Lazò.
La difesa dell'Urss non si fece attendere. Al suo fianco ebbe anche l'aiuto di partigiani coreani e cinesi. Nello stesso Giappone le rivolte del riso del 1918, che coinvolsero circa 10 milioni di persone, per quanto represse nel sangue, furono di ostacolo alla diffusione della guerra in Russia.
Il 24 ottobre 1922 i nipponici furono costretti a firmare l'armistizio di Vladivostok, mentre fino al maggio 1925 continuarono ad occupare la parte settentrionale dell'isola di Sahalin.
Invasione statunitense
Si cominciò a discutere della possibilità di un'invasione americana in Russia già nel dicembre del 1917. Particolarmente favorevole era il segretario di stato Robert Lancing, che convinse il presidente W. Wilson ad appoggiare i controrivoluzionari in una riunione segreta del 6 luglio 1918. In quello stesso giorno a Mosca fu assassinato l'ambasciatore tedesco Mirbach e scoppiò la rivolta dei socialisti rivoluzionari di sinistra.
Il Congresso Usa non dichiarò guerra all'Urss e l''amministrazione di Wilson non fece alcuna dichiarazione circa la rottura dei rapporti diplomatici, eppure il governo Usa sotto il pretesto di un aiuto da dare (che la Russia non gli richiese) al corpo cecoslovacco nel trasferimento sul transiberiana verso Vladivostok e per proteggere alcuni propri depositi militari, decise d'intervenire.
La prima unità di marines sbarcò a Vladivostok il 16 agosto 1918. Il grosso delle forze, ai comandi del maggior generale W. Graves, vi giunse il 1° settembre a bordo della nave Thomas.
Subirono però si resero conto che rischiavano di diventare complici delle stragi controrivoluzionarie dei vari atamani Semionov e Kalmykov compiute nella Siberia orientale, e di quelle di Rosanov e Annenkov compiute nella Siberia occidentale, ma a Washington erano convinti che appoggiando Kolchak, governatore di Omsk, e i legionari cecoslovacchi avrebbero avuto ragione nel giovane governo sovietico.
Il governo di Omsk non ricevette in realtà alcun appoggio da parte della popolazione locale (Kolchak era salito al potere grazie a un golpe organizzato dal generale inglese Knox). Sicché quando le truppe di Kolchak furono abbattute dai soldati e partigiani sovietici, il governo Usa (9 gennaio 1920) dichiarò ufficialmente che avrebbe ritirato le proprie truppe in pochi mesi. L'ultimo gruppo lasciò la Russia nel novembre 1922.
se non sbaglio in inghilterra c'è ancora la commemorazione di quel massacro!
davvero belli questi articoli!
CON LA PRIMA REPUBBLICA ECCO LA COSTITUZIONE. E NASCE LA TERZA ITALIA
Da qualche tempo il dibattito sulle riforme costituzionali è al centro dell’attenzione dei mass media. Ciò è pienamente giustificato dall’importanza e dallo spessore che stanno assumendo i lavori della Commissione Bicamerale istituita per deliberare un progetto di revisione costituzionale da sottoporre alle aule parlamentari. Vi è la sensazione che su queste tematiche per la prima volta ci sia la possibilità di passare da una sfera quasi esclusivamente accademica ad una concreta ipotesi riformatrice. In presenza di tale contesto quindi non è fuori luogo ripercorrere, anche in modo necessariamente sintetico, gli eventi che portarono dalla caduta del Fascismo alla formazione di un nuovo Patto costituzionale fra i cittadini italiani, anche per meglio capire in quale direzione è opportuno che vadano le riforme e soprattutto quali contenuti è bene che vengano preservati.
La ricostruzione può partire ricordando l’organo politico attorno quale ruoterà la vita politica ed istituzionale del Paese negli anni della resistenza: il C.L.N. Il Comitato di Liberazione Nazionale, costituito all’indomani dell’8 settembre 1943, comprendeva al proprio interno tutti gli orientamenti antifascisti: dai comunisti ai liberali, dai socialisti agli azionisti ai cattolici democratici. Questa unitarietà delle forze antifasciste, fu uno degli elementi fondamentali del passaggio dalla dittatura alla democrazia e caratterizzerà, come vedremo, tutta la fase costituente. Quasi subito si venne a creare un contrasto tra il C.L.N. e la Monarchia su una questione costituzionale di primaria importanza.
Materia del contendere era stabilire se la futura trasformazione dello Stato, a guerra finita, avrebbe dovuto essere affidata agli organi previsti dallo Statuto Albertino, Carta costituzionale in quel momento ancora in vigore, oppure sarebbe stato necessario indire una apposita assemblea con poteri costituenti, cioè per scrivere una Carta Costituzionale "ex novo". Questo, lungi dall’essere un problema eminentemente giuridico, era una questione politica molto seria. La Real Casa temeva infatti, ed a ragione, che la discontinuità rispetto alla Legge Fondamentale che, sia pure talvolta solo formalmente, aveva retto il Regno fin dai tempi dell’Unità d’Italia, avrebbe potuto comportare anche la fine dell’istituzione monarchica. Il conflitto si risolse nella primavera del 1944 con la cosiddetta "tregua istituzionale".
GRANDE SVOLTA: DIRITTO DI VOTO PER TUTTI In virtù di questo compromesso istituzionale, il Governo Badoglio, formato subito dopo il Colpo di Stato del 25 luglio 1943, lasciava il posto ad un Esecutivo presieduto da Ivanoe Bonomi, espressione di tutte le forze facenti parte del C.L.N.. Di lì a poco Vittorio Emanuele III, pur non abdicando formalmente, si ritirò a vita privata nominando il figlio Umberto I "Luogotenente generale del Re". Inoltre, un decreto-legge del 25 giugno 1994 sancì l’indizione di una Assemblea Costituente che avrebbe deliberato "la nuova Costituzione dello Stato", disponendo al contempo che "i ministri ... giurano sul loro onore...di non compiere, fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente, atti che comunque pregiudichino la soluzione della questione istituzionale". Successivamente il conflitto si spostò su quale dovesse essere l’organo deputato a scegliere tra Monarchia e Repubblica: l’Assemblea Costituente o il Corpo elettorale.
Dopo molti contrasti, un decreto del marzo 1946 stabilì che la scelta sarebbe stata compiuta dal voto popolare a suffragio universale. Una decisione di portata epocale. Per la prima volta nella storia ciascun cittadino maggiorenne avrebbe potuto incidere sull’assetto istituzionale e politico dello Stato italiano, e questo a soli tre anni dalla fine della dittatura e ad un anno dalla fine della seconda guerra mondiale. Il 9 maggio 1944, a pochi giorni dal voto, Vittorio Emanuele III tentò un colpo di scena finale: l’abdicazione in favore del figlio Umberto, che così da "Luogotenente del regno" divenne Re, appunto il "Re di maggio" come verrà poi per sempre ricordato. L’estremo tentativo di Vittorio Emanuele può essere agevolmente spiegabile. Al suo aiutante di campo, generale Puntoni, che gli faceva osservare come tale comportamento avrebbe potuto ingenerare nell’opinione pubblica la convinzione di una fuga del sovrano davanti al voto popolare, il vecchio monarca rispose con voce aspra e tagliente: "Con l’abdicazione la posizione di mio figlio e della dinastia risulteranno consolidate. Ciò che pensa l’opinione pubblica non mi importa affatto...".
REFERENDUM: LA MONARCHIA E’ FINITA Ma il 2 giugno 1946 i cittadini, chiamati alle urne per il referendum istituzionale e per l’elezione dei membri dell’Assemblea Costituente, si espressero a favore della Repubblica, ponendo definitivamente la parola "fine" su di una istituzione e un Casato che, fra luci (Risorgimento ed Unità nazionale) ed ombre (accondiscendenza nei confronti del Fascismo ed ignominiosa fuga a Brindisi), aveva caratterizzato circa un secolo di Storia italiana. I risultati del voto furono proclamati dalla Cassazione un paio di settimane più tardi: la Repubblica aveva vinto con circa due milioni di voti di scarto. L’esito della consultazione popolare sortì due effetti.
Da una parte confermò i timori nutriti dalle forze favorevoli alla Repubblica, in particolare Comunisti, Socialisti e Azionisti, che il voto meridionale e femminile andasse in prevalenza alla Monarchia; tanto che queste forze spinsero fortemente affinché anche questa scelta fosse compiuta dalla Costituente; dall’altra, viceversa, la consultazione popolare aveva sancito e consacrato in modo definitivo l’opzione repubblicana.
Il 13 giugno 1946, dopo alcuni giorni di forte tensione politica, Umberto II lasciò l’Italia. I risultati delle elezioni per l’Assemblea Costituente, tenutesi con metodo proporzionale, avevano disegnato un quadro politico abbastanza preciso. Erano stati premiati soprattutto i grandi partiti di massa: D.C., P.S.I. e P.C.I.. Ma ciò che più contava, al di là delle configurazioni delle singole forze politiche, era la contemporanea presenza nell’Assemblea dei tre principali filoni politico-culturali del Paese, e cioè la cultura cattolica, quella marxista e quella liberale con tutte le diverse articolazioni ed orientamenti.
La nuova Assemblea si insediò il 25 giugno 1946 e, come primo atto, elesse Giuseppe Saragat suo Presidente, e pochi giorni dopo Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato. Furono eletti membri della Costituente tutti i più importanti nomi del mondo politico, giuridico e culturale dell’epoca: da Croce a Einaudi, da Togliatti a Nenni, da Mortati a De Gasperi , da Calamandrei a Dossetti. Per accelerare e snellire i lavori, il 19 luglio 1946 fu affidato ad una apposita "Commissione per la Costituzione" il compito di redigere il testo base, da sottoporre poi all’intera Assemblea. Questa commissione era composta di 75 membri, scelti proporzionalmente fra le varie componenti della Costituente.
LA COSTITUENTE COMINCIA IL LAVORO A sua volta si divise poi in tre Sottocommissioni. Una si sarebbe occupata della parte del progetto relativa ai "diritti e doveri dei cittadini", un’altra dell’ordinamento costituzionale della repubblica" e la terza dei diritti e doveri economico-sociali (talvolta sovrapponendosi alla prima). Al termine dei lavori delle Sottocommissioni, fu affidato il compito di coordinarne i risulatti ad un "Comitato di redazione" composto di 18 membri, in buona parte giuristi.
La Commmissione dei 75 recepì gran parte del lavoro compiuto dal "Comitato di redazione", e presentò al "plenum" dell’Assemblea un progetto definitivo il 31 gennaio 1947. L’approvazione finale del testo definitivo avvenne il 22 dicembre 1947; il 27 la Carta fu promulgata dal Capo provvisorio dello Stato ed il 1 gennaio 1948 entrò in vigore, come espressamente stabilito dalla XVIII disposizione transitoria.
I lunghi mesi del ‘46-’47 furono caratterizzati da due elementi fondamentali. Da una parte il cosiddetto "spirito costituente", e cioè l’idea che, pur nelle diverse impostazioni ideologiche, le forze politiche dovessero trovare un accordo che costituisse la "casa comune" di tutti gli italiani, dall’altra la netta distinzione fra il lavoro della Costituente e l’attività di Governo. Sotto il primo aspetto, era comune a tutti i raggruppamenti politici la ricerca di un accordo che consentisse al nostro Paese di entrare in una fase nuova della propria storia e al tempo stesso lo preservasse dal pericolo di un ritorno al regime dittatoriale. In quest’ottica era chiaro a tutti che si dovesse in primo luogo porre l’attenzione sui punti cardine del nuovo Patto costituzionale e che questi principi fossero accettati e condivisi dallo schieramento più ampio possibile. Lo spirito dei costituenti (una classe politica ed intellettuale infinitamente di livello più alto rispetto a quelle successive) fu quindi quello di lavorare, pur non dimenticando gli specifici orientamenti di ciascuno, alla realizzazione di un assetto istituzionale che consentisse il più ampio sviluppo democratico. In questo quadro si inserisce la separazione fra l’attività politica e di governo e i lavori dell’Assemblea.
LE SINISTRE ESPULSE DAL GOVERNO La prova più lampante di ciò fu costituita dalla cosiddetta "svolta" del maggio 1947, consistente nella estromissione dall’Esecutivo dei rappresentanti delle sinistre a seguito del mutamento di quadro politico venutosi a creare sia internamente che all’estero. In quei giorni De Gasperi formò un Governo monocolore, cioè composto esclusivamente da democristiani, con l’inclusione, in qualità di "tecnici", del liberale Einaudi al Bilancio e alla Vicepresidenza del Consiglio, del repubblicano Sforza e dell’indipendente Merzagora.
Con il mutamento di linea a seguito della decisione degasperiana, cambiò l’indirizzo politico-economico italiano. Quello che sarebbe poi diventato il nuovo Capo dello Stato si battè per una strenua difesa della lira attuando una severa politica creditizia; dal canto suo Merzagora al Commercio Estero, aumentò le imporatzioni di derrate alimentari, dando un duro colpo al mercato nero. Pochi giorni prima della promulgazione della Costituzione, entrarono a far parte del Governo liberali, repubblicani e socialdemocratici, sancendo quindi in modo formale il mutamento di linea politica dell’Esecutivo.
Si può dire che queste vicende chiusero definitivamente il periodo caratterizzato dalla comune responsabilità di governo da parte di tutte le forze che avevano fatto parte del C.L.N. e quindi della resistenza. Le prospettive aperte con la "svolta" di maggio erano ormai diventate concreta direttiva politica. Le elezioni del 18 aprile 1948 avrebbero confermato questa nuova linea di tendenza. Tuttavia, nonostante questo rilevante terremoto politico, i lavori dell’Assemblea Costituente non ne risentirono in modo marcato, ma anzi si fece via via strada l’idea che fosse ancor più necessario arrivare in tempi ragionevoli ad un accordo sui valori e le regole costituzionali che avrebbero nei decenni successivi presieduto al libero gioco democratico. Ma quali furono i valori sulla base dei quali venne stipulato il Patto costituzionale? Va innanzitutto sgomberato il campo da un equivoco circa il suo carattere "compromissorio". Nell’accezione che siamo oggi abituati a dargli, questo termine evoca qualcosa di bassamente spartitorio, in qualche modo collegato ad una concezione molto meschina della politica. Viceversa per le vicende che stiamo esaminando questo termine può essere utilizzato ed inteso unicamente in un senso "alto e nobile".
I DIRITTI INVIOLABILI DELL’UOMO Se la forza delle Costituzioni contemporanee, non facendo più parte di quelle cosiddette ottriate (cioè concesse dal sovrano), va ricercata nell’ampio consenso che le contraddistingue, allora il concetto di "compromesso", stando a significare l’accordo su molteplici principi ed istituti giuridici fra le varie forze politiche dell’epoca, ne costituisce un punto non certo di debolezza bensì di forza. I valori sui quali si realizzò il Patto costituzionale, sia pure dopo estenuanti discussioni e notevoli contrasti, furono innanzitutto il rispetto e la tutela dei diritti inviolabili dell’Uomo, l’acquisizione del principio democratico universale, la libertà e l’uguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini.
Questi valori si tradussero, in termini giuridici, con la fissazione di alcuni principi fondamentali, la maggior parte dei quali contenuti nella prima parte della nostra Carta e che la stessa Corte Costituzionale ha avuto più volte modo di ribadirne l’immodificabilità, anche in presenza di una forte stagione riformatrice della Carta stessa.
2 - Dopo lo scontro con Stalin il dittatore jugoslavo accetta la "corte" degli americani
TITO MUOVE GLI USA E DÀ SCACCO ALL’URSS
Lo scisma non trova imitatori nei Paesi del blocco sovietico. Almeno in quegli anni
Per comprendere l’atteggiamento che assunsero gli Occidentali, e soprattutto gli Americani, di fronte alla crisi dei rapporti tra URSS e Jugoslavia, è necessario comprendere il contesto internazionale in cui tale crisi prese forma. Il mondo, uscito dalla tragedia bellica, cambiava improvvisamente volto. In breve tempo la logica degli opposti blocchi, del loro equilibrio e reciproco contenimento, avrebbe condizionato le strategie politiche e militari di quasi tutte le nazioni, nonché la vita di milioni di persone dall’una e dall’altra parte. Nasceva la Guerra Fredda. Fin dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, gli Occidentali avevano sempre considerato l’Unione Sovietica, benché alleata, come una potenziale minaccia alla propria sicurezza. Le ragioni di questa diffidenza erano militari e politiche: da una parte, le gerarchie militari occidentali vedevano nella strategia del colosso sovietico la continuazione delle mire imperialiste della Russia zarista, dall’altra, le più alte sfere politiche temevano il ruolo di Patria del socialismo reale che l’U.r.s.s. rappresentava per tutti i comunisti nel mondo. Uomini come Winston Churchill ed Ernest Bevin in Gran Bretagna, e come Truman, Marshall, Kennan negli Stati Uniti, erano di ferma convinzione anti-comunista e dedicarono ogni loro sforzo politico nella lotta all’U.r.s.s. e alla sua politica di influenza nel mondo.
LITIGIOSE CONFERENZE DI PACE Durante i primi anni del dopoguerra si rafforzò la percezione che non avrebbe mai potuto esservi una convivenza pacifica tra i due sistemi occidentale e comunista. Alle conferenze di pace che si susseguirono dal 1945 al 1947, gli Occidentali si scontrarono subito contro il muro dell’intransigenza sovietica in ogni questione internazionale (non dimentichiamo che la politica estera del Cremlino era in quegli anni incarnata nella figura di Molotov).Oltre a ciò, le truppe dell’Armata Rossa tardavano a ritirarsi dalla zone occupate nell’Europa orientale e in Medio Oriente.
Se a tutto questo si aggiunge che in tutti i Paesi dell’Est le coalizioni dominate dai comunisti stavano egemonizzando la scena politica per poi prendere il potere definitivamente con l’appoggio di Mosca, si può ben comprendere quale dovesse essere l’atmosfera e l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Sovietica negli ambienti governativi e diplomatici occidentali, soprattutto a Londra e Washington. Già nel primi mesi del 1946 Stati Uniti e Gran Bretagna cominciano a porre le basi di quella che diverrà la politica del Contenimento. Sono rispettivamente del febbraio e del marzo del 1946, infatti, il famoso "Long Telegram" dell’incaricato d’affari a Mosca George Kennan ed il discorso di Winston Churchill all’Università di Fulton in Missouri, prime essenziali prese di coscienza della nascita di un vero e proprio conflitto - la "Guerra Fredda" - tra Ovest ed Est.
CALA LA CORTINA DI FERRO Se Churchill esprimeva, nel suo celeberrimo discorso, la constatazione di un dato di fatto (la calata di una "cortina di ferro" da Stettino a Trieste e l’asservimento dei Paesi dell’Est al dominio stalinista), l’analisi di Kennan - che avrebbe molto influenzato la condotta politica generale dell’Amministrazione Truman - si spingeva più in là, formulando le basi di una grande strategia attiva contro Mosca. "Dovunque sia considerato appropriato - scriveva Kennan - saranno condotti sforzi per limitare il potere sovietico." Un anno dopo l’enunciazione del "Long Telegram" George Kennan divenne il Direttore del Policy Planning Staff all’interno del Dipartimento di Stato americano.
Pochi giorni dopo - il 2 aprile del 1946 - Christopher Warner, eminente figura del Foreign Office (Ministero degli Esteri britannico), scrisse un memorandum dal titolo "La Campagna Sovietica Contro Questo Paese" in cui sostenne che "l’Unione Sovietica ha annunciato al mondo il proposito di svolgere un ruolo politico aggressivo [...] Saremmo molto poco saggi a non prendere i Russi in parola, proprio come avremmo dovuto essere saggi nel non sottovalutare il Mein Kampf " La nascita nel settembre 1947 del Cominform; le affermazioni in seno alla conferenza di inaugurazione che ormai esistevano due campi contrapposti, uno socialista, l’altro "imperialista"; infine il colpo di stato in Cecoslovacchia nel febbraio dell’anno seguente, e il Blocco di Berlino ad opera dei Sovietici in giugno, convinsero definitivamente i governi occidentali della necessità di combattere con ogni mezzo il blocco centro-orientale.
"SICUREZZA USA" A RISCHIO Questa presa di coscienza era emersa con chiarezza nel marzo 1948, in un significativo commento del National Security Council (NSC) americano in cui si affermava che "l’U.r.s.s. ha coinvolto gli Stati Uniti in una lotta per il potere, o "guerra fredda", in cui la nostra sicurezza è in pericolo e da cui non possiamo ritirarci a meno di un eventuale suicidio nazionale. […] L’obbiettivo ultimo del comunismo diretto dall’Unione Sovietica è la dominazione del mondo." Se l’interpretazione del governo americano era questa, è facile immaginare quale poteva essere l’atteggiamento nei confronti della Jugoslavia, considerata in quel momento ( e non a torto) il paese più fedele all’esempio sovietico. A tutto ciò va aggiunto inoltre il rilevante problema politico-strategico ( troppo complesso per essere affrontato in questa sede) della Questione di Trieste e della Venezia Giulia, che coinvolse Occidente e Jugoslavia per molti anni e che ebbe dal 1945 al 1948 il suo momento più caldo. All’interno di questa più ampia questione non va dimenticata la famosa crisi dell’abbattimento degli aerei americani ad opera degli Jugoslavi nell’agosto del 1946, un evento - questo - che ebbe delle forti ripercussioni emotive nell’opinione pubblica occidentale e americana in particolare.
DIMOSTRAZIONE DI FORZA La convinzione che la politica attuata a Trieste dagli Jugoslavi fosse una diretta emanazione di quella sovietica indusse gli Americani a ricercare una dimostrazione di forza nella zona di confine tra Jugoslavia, Italia ed Austria. Gli aerei statunitensi cominciarono a sorvolare il territorio Jugoslavo sul tratto che doveva condurli da Udine a Vienna, e viceversa. Tra il 16 luglio e l’ 8 agosto 1946, non meno di 172 fra caccia e bombardieri avevano violato lo spazio aereo iugoslavo. Il 9 agosto aerei Jugoslavi costrinsero un C-47 americano ad atterrare vicino a Lubiana. Il 19 ed il 21 dello stesso mese altri due aerei vennero intercettati nei cieli Jugoslavi. L’esito di questo ennesimo confronto fu tragico, dal momento che gli apparecchi vennero abbattuti. "L’America intera esplose in un urlo di furore - scrive Pirjevic ne "Il Gran Rifiuto - Guerra Fredda e Calda tra Tito, Stalin e l’Occidente" - . La sensazione generale fu che dietro l’intero incidente ci fosse l’Unione Sovietica, interessata a mantenere uno stato di tensione nella vita politica internazionale, e che pertanto la reazione degli Stati Uniti dovesse essere immediata, netta e decisa. Il governo americano proibì infatti ai suoi cittadini di entrare in Jugoslavia, e rivolse a Tito una protesta diplomatica, che aveva quasi il carattere di un ultimatum. In verità, i Sovietici non approvavano affatto il colpo di testa Jugoslavo poiché si rendevano conto che atti simili potevano avere delle conseguenze gravi e imprevedibili."
PROTESTE DEGLI JUGOSLAVI Ciò nonostante, le violazioni aere americane continuarono per tutto il mese di agosto, a dispetto delle continue proteste formali del governo Jugoslavo. Il 30 agosto l’incaricato Jugoslavo Makiedo inviava al Segretario di Stato f.f. Acheson una secca nota di protesta per le continue violazioni dei cieli Jugoslavi e affermava il rifiuto di ogni responsabilità da parte della Repubblica Federale Jugoslava per quanto riguardava l’abbattimento degli aerei statunitensi. Washington rispondeva, tramite la propria ambasciata a Belgrado, con una formale richiesta al Maresciallo Tito affinché il governo Jugoslavo si scusasse per l’abbattimento degli aerei. Lo stesso giorno Tito affermava di essere disposto al passo, ma ribadendo le ragioni Jugoslave.
Fino al 1948 nulla sembrò cambiare nei rapporti tra il comunista Tito e l’Occidente. Il fatto che Jugoslavia e U.r.s.s. fossero indissolubilmente legate appariva agli occhi di tutti gli osservatori occidentali una verità incontrovertibile. Il comunismo, nelle parole di Kennan, "appariva una struttura monolitica, che raggiungeva, attraverso una rete di partiti comunisti fortemente disciplinati, praticamente ogni paese del mondo. In queste circostanze, qualsiasi successo di un PC locale, ovunque, doveva essere ritenuto come un’estensione dell’orbita politica del Cremlino, o almeno un’estensione della sua influenza dominante. Proprio perché Stalin manteneva un controllo così geloso, così umiliante sui comunisti degli altri paesi quest’ultimi, nella loro totalità, andavano considerati, in quel tempo, come il veicolo del suo volere, e non del proprio. Stalin era l’unico centro di potere nel mondo comunista."
I SEGNI DELLO STRAPPO Perché proprio Tito e la Jugoslavia avrebbero dovuto sfuggire a questa regola ? L’impatto dello scisma sulla politica occidentale: gli occhi dell’Occidente su Tito. I governi occidentali impiegarono molto tempo per comprendere che qualcosa stava accadendo dietro le quinte del rapporto tra Mosca e Belgrado. Entrambi i paesi comunisti riuscirono per molti mesi a celare la progressiva crisi dei loro rapporti, e solo alcuni piccoli episodi iniziavano a colpire l’attenzione degli osservatori americani, britannici e francesi. Ad esempio, la rimozione del ritratto di Tito dagli edifici pubblici in Romania, o il mancato tradizionale messaggio d’augurio da parte di Stalin sulla stampa Jugoslava in occasione del compleanno di Tito (25 maggio).
L’incapacità, da parte degli Occidentali, di comprendere la reale portata di ciò che stava succedendo è messa bene in risalto da Pirjevic quando scrive: "Il mistero che circondava i reali rapporti tra Mosca e Belgrado restò praticamente impenetrabile; e ciò, grazie anche alla cecità degli Occidentali: nessuno si accorse, per esempio, del ritiro dei consiglieri sovietici, o gli diede il giusto peso. sebbene già a marzo circolassero voci di una massiccia partenza dei Russi."
IL DISSIDIO ALLO SCOPERTO L’occasione che permise agli Occidentali di percepire per la prima volta in modo chiaro l’esistenza di una "crepa" nel muro della "fratellanza" russo-Jugoslava avvenne quando fu comunicato dai Sovietici che la Conferenza Danubiana (durante la quale si sarebbe dovuto discutere del controllo internazionale del fiume Danubio) non si sarebbe svolta - come deciso precedentemente - a Belgrado. Tale annuncio fu fatto senza avvertire le autorità Jugoslave, con l’evidente intento di commettere un affronto dalle valenze simboliche. I due diplomatici americano e britannico - Robert Reams e Sir Charles Peake - osservarono i tentativi Jugoslavi, dall’esito infruttuoso, di annullare la decisione di Mosca. Lo stesso ministro britannico assistette ad uno sfogo del viceministro degli Esteri Jugoslavo Bebler, il quale giudicava un "affronto" la decisione sovietica.
Fu comunque il consigliere americano Robert Reams (che reggeva l’ambasciata statunitense in assenza di Cavendish Cannon) colui che per primo afferrò la portata del dissidio e le sue possibili implicazioni future. In un lungo telegramma del 18 giugno 1948 il diplomatico scrisse allo State Department che, a suo avviso, la reazione di sdegno Jugoslava nei confronti dei Sovietici poteva essere considerata la prima, aperta sfida di un paese satellite verso Mosca. "L’ambasciata ha la sensazione - queste le parole di Reams -che la risposta Jugoslava sia la prima diretta e irrevocabile sfida compiuta da un satellite nei confronti dell’autorità del Cremlino. […] Per la prima volta nella storia l’Unione Sovietica ha a che fare con un regime comunista al potere all’esterno dei propri confini, e che vuole rischiare per la propria indipendenza […]"
DIPLOMATICI ALL’ERTA L’analisi di Reams era però basata sul presupposto che i dissidi tra Tito e Stalin avessero una natura meramente strategico-politica (legata cioè alla rivalità nella regione balcanica). Il diplomatico escludeva qualsiasi implicazione ideologica nel confronto tra i due paesi comunisti. Il telegramma terminava infine con un auspicio e un consiglio: l’auspico era quello che Tito costituisse un esempio per gli altri paesi comunisti, il consiglio era rivolto al governo americano, e cioè " un immediato sfruttamento di qualsiasi occasione atta a intensificare i dissidi sovietico-Jugoslavi, così come nel caso della Conferenza Danubiana."
La reale portata della crisi dei rapporti sovietico-Jugoslavi apparve in tutta la sua importanza il 28 giugno 1948, quando il Cominform annunciò ufficialmente l’espulsione del Pc Jugoslavo "per aver perseguito una politica ostile all’Unione Sovietica e per aver violato i principi pratici e teorici del marxismo." Nonostante questo fatto, gli Jugoslavi per più di un anno assunsero a livello ufficiale un atteggiamento di aperta lealtà nei confronti dell’U.r.s.s. Fu questo, oltre all’usuale difficoltà di interpretare i reali rapporti all’interno del blocco comunista, che ostacolò un’immediata presa di coscienza di quanto stava accadendo da parte degli Occidentali.
PRUDENZA IN OCCIDENTE Alla Conferenza Danubiana, ad esempio (che alla fine si tenne comunque a Belgrado) gli Jugoslavi votarono su ogni questione in assoluta sintonia con i Sovietici e contro gli interessi occidentali. In ogni caso, pur ostentando prudenza (contrariamente ai propri rappresentanti diplomatici a Belgrado propensi a lanciarsi subito in aiuto di Tito), i governi occidentali cominciarono ad interrogarsi su quale atteggiamento assumere relativamente alla storica disputa. Il 30 giugno - dietro richieste dei propri diplomatici su come comportarsi nel nuovo inaspettato frangente - il Policy Planning Staff americano (l’ufficio politico da poco creato a Washington) rispose stilando un documento molto importante dal titolo "L’atteggiamento di questo governo verso gli eventi in Jugoslavia", nel quale venivano emanate le direttive comportamentali che qualsiasi rappresentante americano avrebbe dovuto assumere nei confronti dei colleghi Jugoslavi. In questo lungo documento venivano espresse considerazioni rivelatesi in seguito lungimiranti.
1) Innanzitutto non andava dimenticato che la Jugoslavia restava un paese comunista: ostile all’Ovest e rappresentante di una dittatura totalitaria. "Sarebbe di conseguenza da parte nostra un superficiale errore - sosteneva il documento - ritenere che, poiché Tito è caduto in disgrazia con Stalin, egli possa ora essere considerato nostro amico".
2) Il Cremlino perdeva la propria monolitica immagine e "poteva essere sfidato, e con successo, da uno dei suoi satelliti.
SCHIAFFO AL CREMLINO In seguito a questo evento, l’aura di mistica onnipotenza e infallibilità che ha sempre aleggiato sul Cremlino è stata intaccata." (Da questa considerazione gli Americani auspicavano sforzi da parte di tutti gli Occidentali per allargare la frattura tra Tito e Stalin, esprimendo la speranza che "questo esempio venga notato da altri comunisti ovunque". Una speranza che sarebbe andata delusa a breve termine poiché - come scrive Pirjevic - " per più di dodici anni dalla fine della guerra, i Pc dell’Europa dell’Est e dell’Asia rimassero così sospettosi nei confronti dell’Ovest, che sentirono il bisogno dell’appoggio sovietico contro l’ostilità delle potenze ‘imperialiste’. L’interferenza da parte di mosca fu decisamente il male minore, se paragonato all’interferenza occidentale, il cui scopo […] era la sostituzione dei governi totalitari comunisti con governi democratici eletti liberamente.")
3) La rottura avrebbe "imbarazzato e umiliato" gli stessi contendenti, che avrebbero fatto di tutto per minimizzarla prima, e ripararla poi.
Di conseguenza, l’Occidente doveva riuscire in una attentissima politica di contrappesi. Un aperto sostegno a Tito - infatti - lo avrebbe isolato all’interno del mondo comunista come "amico dell’imperialismo borghese"; d’altro canto, snobbare Tito avrebbe significato ridicolizzare la sua impresa e parimenti isolarlo in campo internazionale (fatto che avrebbe portato alla sua inevitabile caduta, poiché avrebbe dimostrato che "chi andava contro Mosca è perduto").
MOLTI DILEMMI SU TITO La rottura tra Tito e Stalin, evento inaspettato e insperato, pose le Potenze occidentali di fronte ad una serie di dilemmi: come volgere a proprio favore la frattura? Si trattava forse di una cospirazione comunista per confondere l’Ovest, o, più semplicemente, per ottenere gli aiuti Marshall in modo indiretto ? La caduta di Tito avrebbe giovato all’Occidente, o piuttosto lo avrebbe fatto un suo mantenimento al potere, in funzione anti-sovietica ? I Sovietici si sarebbero limitati alle rappresaglie diplomatiche o si profilava all’orizzonte un intervento militare dell’Armata Rossa ?
Il rovesciamento violento di Tito avrebbe avuto positive ripercussioni sull’opinione pubblica mondiale, soprattutto in un Occidente già colpito dal golpe cecoslovacco del febbraio 1948, e nei cui vertici politici-militari si stava già delineando l’idea dell’Alleanza Atlantica.
A lungo termine, però, la resistenza di un Tito ben saldo al potere avrebbe arrecato maggiori vantaggi, diventando la Jugoslavia una sorta di stato cuscinetto tra i due blocchi. "Perfino nel caso il maresciallo [Tito, ndr] avesse dovuto fare ammenda - scrive Pirjevic - e fosse stato costretto a tornare nel gregge, sarebbe stato auspicabile che restasse al potere: era meglio infatti avere a Belgrado un Tito umiliato, che delle marionette sovietiche sotto l’egida dell’Armata Rossa."
Tutta questa serie di dilemmi indussero l’Occidente ad adottare un atteggiamento ondivago nei confronti della Jugoslavia.
TRE "OPZIONI POLITICHE" Le opzioni politiche erano essenzialmente tre:
1) puntare ad un rovesciamento di Tito e del partito comunista Jugoslavo, nel momento in cui erano più vulnerabili, per sostituirli con un governo filo-occidentale;
2) mantenere una posizione di distacco, assistendo agli sviluppi della vicenda;
3) sostenere economicamente e psicologicamente Tito.
Naturalmente qualsiasi passo doveva essere consequenziale alla comprensione del principale dilemma: poteva esser un complotto? Questa tesi veniva sostenuta con più convinzione dai Britannici. Due erano le pessimistiche possibilità, secondo eminenti personalità diplomatiche di Londra: o Tito cercava un tornaconto personale ( ottenere i contributi del Piano Marshall per il proprio Piano Quinquennale) o agiva per conto di Mosca.
Gli Americani, invece, sposavano la teoria della genuinità della sfida Stalin-Tito, e riuscirono ad imporre questo punto di vista. Già il 7 luglio, con l’analisi ad opera di Reams inviata al Dipartimento di stato americano si ha l’ufficializzazione dell’effettiva constatazione che la crisi tra Mosca e Belgrado era reale. "La tesi del complotto viene respinta dall’ambasciata - scrive Reams - […] Una reale breccia esiste tra i leaders Jugoslavi e il Cominform e tra il PC Jugoslavo e quello dell’Unione Sovietica[…]." Da questo momento in poi, Washington e Londra punteranno ad una politica di attesa, detta del "watchful waiting" (guardinga attesa).
SI METTE IN MOTO LA CIA Ciò nonostante, fu compiuto un tentativo di esecuzione della prima opzione strategica nei confronti di Tito. Il fatto grave fu che questa via fu cercata dalla CIA all’insaputa e contro le direttive ormai chiare del governo americano. Il disegno politico che puntava al rovesciamento violento di Tito e l’inclusione della Jugoslavia nella sfera occidentale trascurava in maniera sorprendentemente superficiale la più che probabile reazione sovietica. Mosca infatti avrebbe avuto buon gioco nel sostenere la legittimità e necessità di un intervento al "paese amico". Nonostante le più alte sfere del governo americano avessero deciso di imboccare la strada dell’attesa nei confronti di Tito, il servizio segreto americano decise di tentare la carta "aggressiva".
La CIA iniziò ad infiltrare in Jugoslavia gruppi di esiliati di destra, che in passato avevano combattuto contro i partigiani di Tito. con l’intento di rovesciare il regime comunista. L’ambasciata francese venne a conoscenza della trama e comunicò tempestivamente le proprie perplessità all’ambasciata americana. L’ambasciatore Cannon, ovviamente all’insaputa di tutta l’operazione CIA rimase, come scrive Heuser nel suo "Western Containment Policies in the Cold War - The Jugoslav Case 1948-53", "inorridito".
"UN TENTATIVO STUPIDO" Cannon, temendo di essere stato tenuto in disparte dal proprio governo riguardo all’operazione, di concerto con il Foreign Office britannico (che giudicò il tentativo CIA, una volta informato dei fatti, "inconcepibilmente stupido"), sollecitò il Dipartimento di Stato americano a mutare rotta strategica. La richiesta di spiegazioni inviata a Washington dal Ministro degli Esteri britannico Bevin servì a smascherare l’intera operazione del servizio segreto americano.
Il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti intervenne immediatamente e la trama CIA venne cancellata.
La politica che Washington e Londra perseguirono per un certo periodo (almeno fino ai chiari approcci Jugoslavi verso l’Ovest del mesi di agosto) fu quindi di prudente attesa, e osservazione di ciò che stava accadendo tra i due regimi comunisti.
Soprattutto i Britannici mostravano di credere fermamente in questa strategia. A metà del 1948 l’ambasciatore britannico a Belgrado Sir Charles Peake ribadiva questo punto di vista e si dimostrava scettico sulla possibilità di avvantaggiarsi della frattura tra Tito e Stalin. Il diplomatico raccomandava, di conseguenza, l’adozione di una politica che passò sotto il nome di "abile inattività" ( "masterly inactivity" ).
La posizione americana, invece, andava lentamente mutando a favore di un moderato sostegno a Tito. Nei continui approcci con gli Alleati europei, gli Americani non mancavano di esaltare la portata storica dello scontro tra Mosca e Belgrado, sostenendo l’opportunità di approfittarne.
USA, POLITICA DISTESA Soprattutto uomini come Reams, e Harriman (rappresentante speciale degli U.S.A. in Europa), si impegnarono affinché Washington cercasse di realizzare timidi approcci verso Tito. L’attività di Reams fu incessante nel convincere il Dipartimento di Stato: in diversi dispacci a cavallo dei mesi di agosto e settembre 1948, il diplomatico americano mise in risalto l’assoluta importanza di mantenere Tito "neutrale" nel confronto tra i blocchi, e invitò il proprio governo a dimostrarsi amichevole verso Tito. Qualche timido avvicinamento in realtà era già avvenuto: il 19 luglio, ad esempio, era stato firmato l’accordo fra Belgrado e Washington riguardante i beni americani nazionalizzati ed il risarcimento dei danni per gli aerei abbattuti nell’agosto del 1946. Come conseguenza di questi gesti distensivi Jugoslavi, gli Stati Uniti avevano proceduto allo scongelamento dell’oro Jugoslavo (47 milioni di dollari) depositato nelle banche americane prima dello scoppio della guerra. Infine, U.S.A. e Gran Bretagna avevano accettato di vendere 60.000 tonnellate di greggio, del quale la Jugoslavia aveva notevolmente bisogno.
Lo svolgimento della Conferenza Danubiana (31 luglio-18 agosto 1948) fu un’ occasione che gli Occidentali ritenevano propizia per osservare gli sviluppi dei rapporti tra Sovietici e Jugoslavi. I diplomatici occidentali accorsero a Belgrado convinti di assistere a nuovi sviluppi dello scontro tra Tito e Stalin, ma restarono delusi.
LA LITURGIA COMUNISTA Secondo la classica liturgia comunista, Jugoslavi e Sovietici evitarono in ogni modo di palesare i propri insanabili dissidi, professando in diverse occasioni la propria fede rivoluzionaria. Qualche sfumatura la si poteva comunque cogliere: lo Jugoslavo Bebler, ad esempio, per rivolgersi all’assemblea ricorse alla lingua francese e non, come di consueto, al russo, con evidente irritazione della delegazione sovietica. Il 20 agosto, due giorni dopo la chiusura della conferenza, la macchina propagandistica del Cominform ricominciò a funzionare a pieno ritmo. Si rese noto che alcuni alti ufficiali filo-cominformisti Jugoslavi avevano tentato la fuga ed erano stati incarcerati, e si accusava la leadership titoista di comportarsi "con metodi hitleriani" nei confronti dei dissidenti (il che era vero , ma detto dal Cremlino...).
Nel mese di agosto la situazione precipitò e le relazioni tra Mosca e Belgrado divennero - attraverso manifesti atti simbolici da entrambe le parti (citati nella prima parte: il Discorso di Tito alla Prima Divisone Proletaria, il violento attacco della Pravda del 27 agosto, ecc.) - irreparabilmente compromesse. Il Mondo, a questo punto, poteva sapere. Fu la Jugoslavia a muovere i primi passi, e nel senso di un avvicinamento all’Occidente. Il ministro degli esteri Jugoslavo Bebler, tra agosto e settembre, non mancò di lanciare messaggi ai colleghi occidentali e al loro mondo diplomatico.
STALIN SCATENA LE "PURGHE" Esisteva un caso Jugoslavo che contrapponeva la propria validità al monolitismo staliniano. In un approccio con l’ambasciatore britannico Peake, Bebler pose in risalto l’importanza del discorso di Tito alla Prima Divisione Proletaria e le sue implicazioni per la futura politica Jugoslava. Intanto, dietro le quinte del blocco comunista stava scatenandosi una serrata "caccia alle streghe". Reciproca. La repressione stalinista eliminò in media uno ogni quattro membri di ciascun PC dell’Est tra il 1948 e il 1953 (anno in cui Stalin morì).
Alti funzionari come il polacco Gomulka, l’albanese Xoxe, il bulgaro Dimitrov, l’ungherese Rajk, il cecoslovacco Slansky, nel migliore dei casi furono umiliati ed allontanati dal potere, nel peggiore eliminati fisicamente. Lo stesso avveniva in Jugoslavia nei confronti di chi cercava di rimanere fedele a Stalin e al Cominform: l’OZNA (Polizia segreta di Stato) si scatenava riempiendo le carceri ( e le fosse) di dissidenti.Questa repressione convinse ovviamente (ma erroneamente) gli Occidentali che una forma di "titoismo" si era sviluppata oltre-cortina, ma che era stata stroncata sul nascere. L’illusione che una certa forma di "titoismo" fosse esportabile negli altri paesi satelliti sarebbe morta presto. Già nello stesso mese di agosto il Russia Committee britannico (ufficio all’interno del ministero degli Esteri dedicato ai rapporti con la Russia) ammetteva - doppo uno studio sulle potenzialità del "titoismo" - che la gran parte dei PC non erano minimamente interessati alla sfida Jugoslava.
IL "COMUNISMO NAZIONALE" Tuttavia, le indagini del Russia Committee provarono che lo scisma tra Unione Sovietica e Jugoslavia poteva essere interpretato come il primo sintomo di una realtà che andava sviluppandosi, e che venne definita "comunismo nazionale", un comunismo cioè in antitesi con quello stalinista. "Questo implicò - scrive Heuser - la considerazione che non era il comunismo in sé il peggior nemico del ‘Mondo Libero’ (benché restasse un male), ma il Comunismo come mezzo dell’imperialismo russo".
Le considerazioni del Russia Committee britannico erano pienamente condivise dal consigliere americano Reams che si adoperò incessantemente nel convincere il Dipartimento di stato ad assumere una nuova politica verso Tito: quella di moderati ma chiari appoggi a Tito. Nei dispacci del 31 agosto, del 15 settembre e del 27 dello stesso mese, il diplomatico statunitense metteva in risalto l’assoluta importanza del ruolo di neutralità tra i blocchi che la Jugoslavia stava per assumere. Tito - questa la tesi di Reams - era ben saldo al potere, e Mosca non avrebbe potuto eliminarlo con facilità. Troppo rischioso per due motivi essenziali: innanzitutto, un intervento militare sovietico avrebbe compromesso definitivamente l’immagine del Cremlino agli occhi dell’opinione pubblica; in secondo luogo, il rischio di un’occupazione territoriale della Jugoslavia avrebbe avuto costi altissimo (l’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale stava a dimostrarlo).
I DUBBI SU TITO La conclusione dell’esperto americano era quella di dimostrare un aperto riconoscimento della serietà della sfida titoista, soprattutto dal punto di vista ideologico. Gli U.S.A. dovevano cioè riconoscere, almeno apparentemente, la "via Jugoslava al socialismo". Anche se le speranze a lungo termine andavano verso un mutamento del regime titoista. Gli effetti positivi a breve termine per l’Occidente - affermava Reams - sarebbero andati in direzione di una diminuzione della tensione in zone come la Venezia Giulia e la Grecia.
Rimanevano comunque diffidenze e incertezze, nei massimi vertici americani, riguardo alla reale natura della neutralità Jugoslava. In uno scontro tra i blocchi - questo ci si chiedeva a Washington - Tito sarebbe rimasto neutrale, o avrebbe alla fine subito il "richiamo della foresta" ( e cioè la sirena comunista sovietica) ?
Gli ultimi dubbi furono fugati tra ottobre e novembre. Il 5 ottobre il membro della delegazione Jugoslava all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite Bebler ebbe un colloquio con un importante rappresentante del Ministero degli esteri britannico, il Ministro di Stato Hector Mac Neil. In questa occasione Bebler si lamentò della condizione di isolamento in cui versava il proprio paese. Le condizioni economiche in Jugoslavia erano critiche e il Piano Quinquennale si avviava al fallimento. Per questi motivi, offerte di aiuto economico (da qualsiasi parte provenissero) sarebbero state accolte benevolmente a Belgrado.
SOS BELGRADO-LONDRA Il messaggio era già chiarissimo, ma Bebler lo rafforzò chiedendo apertamente aiuti a Londra. Il diplomatico Jugoslavo , però, asseriva che era necessario mantenere un certo distacco politico tra Tito e i governanti occidentali, affinché la sua posizione non venisse indebolita, soprattutto all’interno (i filo-moscoviti, seppur perseguitati, erano ancora molti in Jugoslavia). Negli stessi giorni un altro importante avvenimento nacque da un contatto apparentemente irrilevante. Tito incontrò un rappresentante cinematografico americano di nome Eric Johnston, giunto a Belgrado per vendere film americani in Jugoslavia. Anche se questo fatto poteva sembrare già di per sé significativo, il discorso che Tito fece si rivelò una bomba.
Tito - pienamente cosciente dei contatti tra Johnston e alcuni politici americani, soprattutto del Partito Repubblicano e sapendo dove sarebbero giunte le sue parole - affermò chiaramente un concetto: egli sarebbe morto da comunista, ma pretendeva di esercitare il proprio potere "in casa sua". Il dissenso con Mosca nasceva dalle pretese imperialiste del fratello maggiore sovietico. Per questo motivo la Jugoslavia aveva bisogno dell’aiuto occidentale, ma non doveva aspettarsi concessioni politiche per lui pericolose. A precise domande dell’americano Tito rispose addirittura che la Jugoslavia sarebbe rimasta molto probabilmente neutrale in uno scontro tra i blocchi causato dall’aggressività sovietica.
L’INIZIO DEI COMPROMESSI Questi due eventi, unitamente ai progressivi deterioramenti tra Mosca e Belgrado negli ultimissimi mesi del 1948 convinsero senza alcun timore l’Occidente a giocare la carta-Tito. Naturalmente il mantenimento di buoni rapporti con la Jugoslavia (che cominciarono definitivamente con il 1949 e proseguirono per tutta la durata del regime titino) implicava considerevoli compromessi. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia - nazioni- madri della democrazia occidentale - avrebbero aiutato e sostenuto un Paese totalitario in cui le libertà fondamentali non erano minimamente rispettate. Per calcolo politico, gli Occidentali chiusero più di un occhio su quanto succedeva entro i confini Jugoslavi (e l’atteggiamento oggi tenuto verso la Cina, nonostante Tien An Men e il Tibet, fanno pensare che poco sia cambiato negli equilibri e nelle priorità della politica internazionale).
Paradossalmente, venne tenuto un atteggiamento molto più amichevole nei confronti della Jugoslavia comunista che nei confronti dell’Italia, la cui scelta era stata nel campo democratico. Una figura come quella di Tito, in quegli anni, incontrava all’interno delle maggiori opinioni pubbliche occidentali e tra gli intellettuali (non solo di sinistra) molto più favore dei meno "eroici" personaggi della classe politica italiana. A dispetto delle sue contraddizioni e delle indubbie "macchie" dittatoriali, Tito esercitò - fino alla sua morte - un indiscusso fascino su chi osservò, incredulo, la sua sfida storica all’onnipotente Compagno Stalin.
DOMANDA CONCLUSIVA In conclusione, lo scisma di Tito servì all’Occidente ? Dando per scontata l’estrema importanza storica dello scisma tra Tito e Stalin, resta d’altra parte da valutare fino a che punto questo evento sia stato determinante, all’interno del conflitto della guerra fredda, per la vittoria dell’Occidente che sarebbe sopraggiunta quarant’anni dopo. A posteriori - come abbiamo già scritto - si può ben considerare la sfida indipendentista di Tito nei confronti di Stalin e del Cremlino come la prima "crepa" nel monolite sovietico.
Da lì nacque la speranza che Mosca poteva essere sfidata e che si poteva sopravvivere alla proclamazione di tale sfida. Da lì nacque, almeno a livello ideale, la convinzione che potesse esistere un socialismo diverso da quello imposto e diretto da Mosca. Certamente, gli sforzi indipendentisti che si realizzarono anni dopo, prima a Budapest e poi a Praga, avevano caratteristiche democratiche che il tiranno Tito non si sognava di porre in essere nel proprio paese; ma il passo di Tito fu comunque fondamentale e servì da esempio. Assumendo un metro di giudizio a lungo termine, quindi, la sfida di Tito può ben essere considerata una delle moltissime e graduali tappe della guerra fredda che portarono alla vittoria del blocco occidentale. Se invece questa sfida la si pone sotto una luce contingente relativa ai primi anni della guerra fredda, allora il giudizio cambia.
SCISMA UTILE MA NON TANTO La rottura tra Tito e Stalin illuse, inevitabilmente, molti osservatori occidentali sull’effetto che essa avrebbe potuto avere sui partiti comunisti dei Paesi satelliti e dell’Ovest. La scomunica di Tito ad opera del Cominform stava ad indicare quale fosse il destino di chiunque, comunista, osasse assumere un atteggiamento anche solo minimamente indipendente dalle direttive di Mosca. Nonostante ciò, però, il fatto che Tito stesse resistendo doveva dimostrare agli occhi dei comunisti (soprattutto occidentali) che sfidare il Cremlino era possibile. Così almeno era l’ottimistica considerazione di Americani e Britannici. Le aspettative occidentali andarono però presto deluse. A parte qualche defezione irrilevante, le fila comuniste rimasero compatte attorno alla Grande Chiesa di Stalin. I due più importanti PC dell’Ovest - quello francese e quello italiano - si schierarono decisamente contro la Jugoslavia e a favore di Mosca. La gran parte degli intellettuali "organici" europei (e non solo quelli) condannarono Tito e la sua "eresia".
Mosca, quindi, poteva contare, nella sua campagna propagandistica contro Tito, di numerosi e alquanto zelanti vassalli. L’effetto della rottura tra Belgrado e Mosca portò, ad esempio in Francia, alla nascita di una limitata ultrasinistra opposta allo stalinismo del PCF. Addirittura - secondo la Heuser - "l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform potrebbe persino aver ritardato lo sviluppo di tendenze più indipendenti nei PC occidentali, come ad esempio in Italia".
E VENNE UN UOMO CHE DISTRUSSE L’IMPERO USANDO GLI ERRORI DELLO ZAR NICOLA
"Sua Maestà è un monarca assoluto, e non è obbligato a rispondere delle proprie azioni a nessuno al mondo, ma ha il potere e l’autorità di governare i propri stati e territori come un sovrano cristiano, secondo il suo desiderio e la sua benevolenza."
"Ai cittadini della Russia! Il governo provvisorio è stato abbattuto. Il potere statale è passato nelle mani dell’organo del Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario […] La causa per cui il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico, questa causa è assicurata. Viva la rivoluzione degli operai, dei soldati e dei contadini !" Le prime sono parole tratte dal Regolamento militare (cap. 3, art. 20) di Pietro il Grande del 1716, ancora perfettamente valide agli inizi del 1900 sotto il potere di Nicola II Romanov. Le seconde appartengono a Lenin, e costituiscono la dichiarazione del 25 ottobre 1917, con la quale il Soviet prendeva il potere, strappandolo a Kerenskij e al governo provvisorio.
Tra l’effettiva autorità di queste due enunciazioni - così vicine nella retorica e solennità, eppure così distanti nel loro significato storico-filosofico - c’è un lasso di tempo di soli diciassette anni. Questo può fare ben comprendere come la storia della Russia e della sua gente abbia subito in pochissimo tempo uno sconvolgimento che non ha eguali nella storia dell’umanità.
LA RUSSIA ZARISTA AGLI INIZI DEL ‘900 L’impero zarista, fondato su di una società straordinariamente arcaica e anacronistica, ancorato ai valori apparentemente inattaccabili della religione e delle tradizioni contadine, si sbriciolava con una velocità ed una rassegnazione tali da lasciare ammutolito il mondo. Sulle sue rovine nasceva quello che si sarebbe tramutato in un nuovo e opposto impero, questa volta dell’ateismo, dell’Utopia progressista, della creazione dell’Uomo Nuovo. Un impero che sarebbe crollato - paradossalmente - con la stessa straordinaria facilità e rassegnazione, dopo settant’anni di socialismo reale.
Un impero al di fuori del tempo. La Russia di Nicola II costituiva uno Stato assolutamente a sé nel panorama dei paesi così detti occidentali di inizio secolo. Anzi, la stessa definizione di "occidentale" difficilmente si accorderebbe con quello che era, piuttosto, un Impero al di fuori del tempo e dello spazio, a metà tra Medioevo e modernità, tra Occidente e Oriente. Nulla delle esperienze monarchiche europee - nemmeno l’autoritaria corona del Kaiser tedesco - poteva lontanamente avvicinarsi al dominio esercitato dall’Imperatore russo. La società russa, a stragrande maggioranza contadina, viveva nel culto - imposto, ma accettato con estremo fatalismo - della figura dello Zar. Semidio, padrone di qualsiasi uomo o possedimento che alloggiasse sull’immenso territorio "di tutte le Russie", lo Zar godeva di un potere assai simile a quello dei signori medioevali. La caratteristica essenziale dello zarismo era il potere autocratico, del quale il monarca si sentiva incaricato per volere di Dio.
TUTTO APPARTENEVA ALLO ZAR Questa forma di potere assoluto trovava la sua giustificazione e il suo presupposto culturale nella totale mancanza di riconoscimento istituzionale del concetto di proprietà privata. Tale concetto rimase sconosciuto ai russi fino all’avvento di Caterina II (seconda metà del XVIII secolo), peraltro di origine tedesca. Fu solo il valore della proprietà privata, nella storia europea, a costituire il punto di partenza per la limitazione del potere reale. Lo stesso contadino russo accettava come legge ineluttabile l’autorità zarista, e per di più non aspirava minimamente a liberarsene o ad ottenere diritti civili e politici. Nella mentalità del mugik russo, la corona veniva ad assumere un identità perfetta con lo Stato, la sua autorità poliziesca e la sua unità indissolubile. Questo valeva anche per le numerosissime etnie che popolavano l’immenso territorio dell’Impero. Alla base del potere monarchico zarista, e a sua difesa, stavano cinque istituzioni: la burocrazia statale, la polizia, la nobiltà, l’esercito e la Chiesa ortodossa.
Agli inizi del secolo la popolazione contadina costituiva i quattro quinti di quella totale russa. Nonostante l’industria si stesse espandendo a velocità considerevole, l’agricoltura restava la principale fonte di ricchezza del paese. Le tradizionali tesi storiche rappresentano la Russia agli albori delle rivoluzioni (1905, Febbraio e Ottobre) come una paese in cui il potere della corona, della chiesa e della minoranza aristocratica si estendeva sulla grande maggioranza della terra disponibile. L’ingiusta ripartizione della terra, quindi, è sempre stata considerata una delle cause principali della Rivoluzione. Studi più recenti, come ad esempio quello monumentale di Richard Pipes, hanno messo in evidenza come in Russia predominassero i piccoli coltivatori diretti, e il latifondo costituisse una minoranza nelle zone di confine con Polonia e Svezia. Dopo l’abolizione del servaggio della gleba (1861), scrive Pipes "gli ex servi ricevettero circa metà della terra che prima coltivavano. […] Nel 1905 i coltivatori diretti possedevano, come comunità o personalmente, il 61,8% della terra russa in proprietà privata. […]".
LA RUSSIA CONTADINA "Nel 1916 i coltivatori diretti possedevano i nove decimi della terra coltivabile." Il problema delle terra, in realtà, era un altro, ed era legato al tasso di sovrappopolazione. I Paesi occidentali, sin dalla fine del Settecento, avevano trovato nell’industrializzazione, ma soprattutto nell’emigrazione oltreoceano, la soluzione al proprio incremento demografico delle campagne. Per diversi motivi sociologici e culturali, la Russia non poté giovare di questa valvola di sfogo: il contadino russo, legato fortemente alla propria terra, e cosciente di vivere in un impero dal territorio immenso, preferiva puntare a colonizzare il proprio paese. Oltre a ciò, le forti convinzioni religiose inibivano i contadini dall’intraprendere un’avventura in terre dove sarebbero venuti a contatto con uomini di fede differente.
Un gran numero di contadini "in esubero" finì così ad ingrossare le città, dove si recavano a cercare lavoro temporaneamente. A differenza dei casi europei, i contadini russi non si integravano nel nuovo contesto sociale. Come scrive Pipes "i contadini, privi di solidi legami, senza un lavoro stabile, e in mancanza delle famiglie, che di solito erano lasciate a casa, rappresentavano un elemento inassimilabile e potenzialmente dirompente. In sostanza era questo il ‘problema della terra’."
La stessa classe operaia, che andava formandosi negli ultimi decenni, era fortemente derivata da quella contadina. Moltissimi operai impiegati nelle industrie di città continuavano a risiedere o ad avere forti legami con la campagna, mantenendo di conseguenza una forma mentis conseguente a quel mondo. All’inizio del secolo questa massa di operai-contadini, soprattutto in città come Mosca e Pietroburgo erano per la quasi totalità analfabeti, estremamente vulnerabili alla propaganda delle organizzazioni radicali.
NASCE LA "INTELLIGHENZIA" Presso la popolazione rurale, invece, le teorie rivoluzionarie non trovavano il minimo credito. Lo stesso Zar - ritenevano i contadini - avrebbe compreso il problema della terra. e l’avrebbe distribuita non appena fosse venuto a conoscenza dei termini reali della crisi. Questo mito fu duro a morire nelle campagne, e anno dopo anno, zar dopo zar, i contadini aspettavano la figura che avrebbe "messo le cose a posto". Parliamo ora dell’intellighenzia. Il termine "intellighenzia" esordì in Russia tra il 1830 e il 1850, e stava ad indicare quel ceto di cittadini istruiti e tendenzialmente progressisti che, pur potendo disporre, come detto, di una preparazione superiore non solo (ovviamente) alla maggioranza della popolazione, ma alla stessa casta del potere aristocratico e burocratico, restava, come si suol dire, al di fuori della "stanza dei bottoni".
L’intellighenzia cominciò a fiorire intorno al 1860 in occasione della "grande riforma" di Alessandro II che, dopo la sconfitta della guerra di Crimea, aveva deciso di estendere a nuovi strati di popolazione una parziale partecipazione alla vita pubblica. La diminuzione della censura portò così ad un fiorire di giornali e periodici che analizzavano la vita politica e sociale russa. All’inizio del secolo, quindi, quasi tutti i giornali sostenevano idee progressiste e di opposizione alla corona. L’organizzazione dei zemstvo (organi di autogoverno) permisero poi agli intellettuali di accedere al pubblico impiego. Con lo sviluppo dell’intellighenzia venne anche a crearsi un clima favorevole ad idee positiviste, laiche e materialiste, fatto che avrebbe da subito creato un contrasto con il tradizionalismo religioso dello Zar e della Chiesa ortodossa. Gli intellettuali cercarono immediatamente di "far prendere coscienza" alle masse contadine ma, una volta constatato il fallimento di un simile tentativo, cominciarono a radicalizzarsi in alcune frange estremiste.
UNA REALTA’ A DUE FACCE Venne così a crearsi una sorta di "doppio canale" all’interno del mondo intellettuale: una realtà legale e moderata ed una sotterranea e sovversiva, che arrivava a teorizzare l’uso del terrorismo per cambiare l’assetto sociale del Paese. Già nel 1879 operava la prima organizzazione terroristica che si ricordi al mondo, e cioè "Volontà del Popolo" (cui fece parte anche il fratello di Lenin). Questi radicali disillusi non cercavano solidarietà o appoggio nella società, ma realizzavano incursioni terroristiche per spingere la Russia alla rivoluzione, nonostante il popolo (il suo nome quindi suona tragicamente paradossale). Questo modo di pensare fu alla base della nascita di tutte le elites radicali che seguirono. All’inizio del 1900, infatti, non esistevano i presupposti perché si realizzasse in pochi anni lo sconvolgimento epocale che poi accadde. Se lo zarismo cadde, senza entrare in una fase di monarchia costituzionale come era avvenuto altrove in Europa, fu a causa dell’instancabile opera di propaganda, opposizione e terrorismo dei partiti radicali che seppero trasformare una ribellione - quella della guarnigione militare di Pietroburgo - in una rivoluzione che contagiò tutta la Russia. Dall’intellighenzia nacquero i partiti politici, che si organizzarono in Russia non prima della fine del secolo scorso.
Il Partito socialdemocratico nacque durante un congresso clandestino a Minsk nel 1898. La sua nascita ufficiale avvenne cinque anni dopo in Belgio e in Inghilterra. Consideravano lo sviluppo capitalistico come un passo inevitabile - e quindi progressista - verso la rivoluzione. Criticavano il terrorismo. Il partito socialista rivoluzionario era il più estremista. Nato nel 1902 dalle costole di "Volontà del Popolo", faceva dell’anarchismo e del sindacalismo le proprie bandiere, e ricorse fin da subito a pratiche terroriste.
UN OCCHIO ALLA BORGHESIA Reputavano transitorio il successo e lo sviluppo del capitalismo in Russia e guardavano alla "borghesia" come ad un elemento utile per il processo rivoluzionario, ma comunque legato alle tradizioni monarchiche. I Liberali si dividevano in liberalradicali, più orientati a sinistra, e liberalconservatori, più moderati e di destra. Prevalevano sicuramente i primi, tra i quali spiccavano i cadetti (o costituzionaldemocratici). I valori erano quelli classici liberali del tempo: suffragio democratico, governo parlamentare, libertà e uguaglianza per tutti i cittadini.
A differenza dei corrispettivi europei, i liberali russi erano collocati maggiormente a sinistra. Le condizioni della Russia assolutista sono il motivo maggiore di questa posizione. Inoltre, i liberali dovevano competere con i partiti più radicali. Atteggiamento principale di questa fazione era lo sfruttamento della minaccia rivoluzionaria dei radicali per ottenere riforme e cambiamenti e concessioni da parte dello Zar.
Questa era quindi la Russia di inizio secolo, un entità apparentemente immutabile ma nei cui sotterranei stava montando una fermento sociale, economico e rivoluzionario inarrestabile. Gli anni che precedettero la Rivoluzione del 1905 furono caratterizzati da due figure governative principali, diametralmente opposte eppure complementari nel creare i presupposti perché si realizzassero gli eventi rivoluzionari: i due Ministri degli Interni Viaceslav Pleve e P.D. Mirskij. Il primo esercitò il proprio potere dall’aprile 1902 - quando il predecessore Sipjagin venne assassinato da uno studente radicale - fino al luglio 1904, quando saltò in aria nella propria carrozza per mano di un attentatore rivoluzionario. Sotto Pleve - scrive Pipes - "la Russia rischiò di diventare uno stato di Polizia totalitario, nel senso moderno del termine."
LA RIVOLUZIONE DEL 1905 L’atteggiamento di Pleve, assolutamente intransigente nei confronti di ogni opposizione liberale o radicale che fosse, portò come conseguenza alla nascita del fronte unito negli anni 1904-5 che andò sotto il nome di Movimento di liberazione e che sarebbe riuscito ad ottenere importanti concessioni istituzionali. Negli anni di Pleve si tentò, e con successo, l’organizzazione dei sindacati diretti dalla polizia. Questo tentativo di strappare gli operai alle suggestioni rivoluzionarie ebbe un certo successo, ma si rivelò in futuro per quello che era, e cioè un arma dell’autocrazia zarista per "dare una regia" alle stesse richieste dei lavoratori.
A Pleve successe Mirskij, uomo di carattere liberale che cercò di alleviare le tensioni sociali. Durante il suo incarico diminuì il potere poliziesco e la censura, e venne concessa una certa autonomia ai zemstvo (organi di autogoverno locale nati nel secolo precedente).
In questa atmosfera si ebbe così il grande Congresso dei zemstvo a Pietroburgo nel novembre 1904, un avvenimento che diversi storici non esitano a paragonare alla famosa conferenza francese degli Stati Generali del 1789. In occasione del congresso nacque per la prima volta la richiesta di un organo legislativo elettivo (Duma), una sorta di parlamento che potesse esercitare funzioni di controllo sul bilancio e sulla pubblica amministrazione. Il 1904 si chiudeva quindi con un’atmosfera di fermento politico e di speranza. Cambiò tutto sin dal mese di gennaio, quando si realizzò quella che sarebbe passata alla storia come la "Domenica di sangue". Fu essa a scatenare nel Paese la prima ondata rivoluzionaria. Dopo il 1905 l’immobilismo autocratico zarista non avrebbe più conosciuto pace. Per domenica 9 gennaio Georgij Gapon - giovane prete ortodosso e capo di un sindacato su cui vigeva la "supervisione" dalla polizia (!) - organizzò un corteo operaio che avrebbe dovuto raggiungere il Palazzo d’Inverno.
LA "DOMENICA DI SANGUE" Motivo del corteo era la trasmissione di una petizione nella quale si avanzavano richieste di mutamento politico. La manifestazione era assolutamente pacifica e "tradizionalista": nelle sue file spiccavano icone religiose e ritratti dello Zar. Naturalmente le richieste non erano indifferenti: si chiedeva un miglioramento nei salari e nelle condizioni di lavoro, un alleggerimento delle tasse.
La sanguinosa repressione militare di Pietroburgo nel dicembre 1905
A tutto ciò lo Zar rispose con un atteggiamento di assoluta incomprensione. Trasferitosi per sicurezza nella residenza di Carskoe Selo, ordinò a Fullon, responsabile della sicurezza della città, di collocare truppe armate nei punti principali di Pietroburgo.
Prima di raggiungere il Palazzo d’Inverno dimostranti e forze dell’ordine vennero a contatto e fu il massacro: la polizia sparò sui civili inermi e disarmati. Centinaia di morti e migliaia di feriti: fu questo il bilancio di un "disordine" che si rivelò come il primo autentico momento di rottura nel rapporto "fiduciario" che legava l’istituzione zarista al suo popolo. Morirono, quel giorno sulle strade di Pietroburgo, le ultime illusioni di poter preservare una monarchia in Russia.
La notizia della "Domenica di sangue" si diffuse per tutto l’Impero e ad essa seguì un’ondata di scioperi senza precedenti. Solo nel mese di gennaio incrociarono le braccia più di quattrocentomila operai , le università entrarono in agitazione, il governo - un tempo perfettamente "poliziesco" - perdeva il controllo della situazione. Anche nelle campagne, i contadini ne approfittarono per scatenare pogrom contro gli ebrei e saccheggi nelle grandi proprietà. Riprese il terrorismo, con l’assassinio dello zio dello Zar, granduca Sergej Aleksandrovic, e si ebbe il famosissimo ammutinamento dell’incrociatore Potemkin della flotta del Mar Nero.
UN ESERCITO ANTIZARISTA Fu, questo, il primo sintomo di ciò che sarebbe avvenuto in futuro: uno dei pilastri dell’autorità zarista, l’esercito, prima o poi le avrebbe girato le spalle. Contemporaneamente gli scioperi causarono una flessione nella produzione industriale e si ebbe una crisi economica e sociale gravissima. Se a tutto ciò si aggiunge la concomitanza di un evento per nulla irrilevante come la guerra con il Giappone, che arrecava continue sconfitte all’esercito russo, si può ben comprendere come la Russia fosse sull’orlo di un baratro.
Già nel mese di febbraio lo Zar si vedeva costretto a muovere le prime concessioni. Il giorno 18, su consiglio del lungimirante primo ministro conte Vitte, l’Imperatore firmava un documento dove si auspicava di "coinvolgere gli uomini migliori, eletti dal popolo e investiti della fiducia del paese, per la preliminare elaborazione e valutazione dei disegni di legge". Era la Duma tanto invocata, una prima forma di parlamento, una nuova istituzione nascente accanto all’ancora salda autorità autocratica.
In questa fase storica le forze che seppero meglio approfittare della situazione ed organizzarsi per ottenere una consistente rappresentanza nella Duma furono i liberali moderati, e non i rivoluzionari radicali. Il partito socialdemocratico, scisso in quell’anno nelle due correnti bolscevica e menscevica, non ricopriva ancora un ruolo determinante. I socialisti rivoluzionari rimanevano apertamente legati alle pratiche illegali e mal si adattavano all’atmosfera "istituzionale". Ad opera dei liberali nacque così la Lega delle Leghe (che includeva la vecchia Lega per la Liberazione), che ottenne un considerevole successo all’interno della Duma. Tutto il 1905 fu segnato da continui scontri tra lo zar e le opposizioni a proposito del ruolo che il nuovo organo elettivo avrebbe dovuto svolgere.
LO ZAR ALLE STRETTE Liberali e socialisti chiedevano una Duma eletta con suffragio universale, diretto e segreto, mentre la Corona interpretava la Duma come un assemblea dai poteri formali e consultivi. Le incomprensioni sfociarono nel grande sciopero generale di ottobre durante il quale a mosca e Pietroburgo diverse categorie di lavoratori incrociarono le braccia. Fu in questi giorni che nacque il famoso Soviet degli operai di Pietroburgo. Questa struttura doveva avere il compito immediato di gestire lo sciopero, ma in futuro sarebbe diventato lo strumento ideale in mano ai bolscevichi per impadronirsi del potere assoluto. Da esso nacquero soviet simili in tutta la Russia. Fu in quest’atmosfera che lo Zar, sempre consigliato dalla figura di Vitte, fece un passo fondamentale: accettò almeno formalmente i termini di una monarchia costituzionale attraverso la firma di quello che sarebbe passato alla storia come il "Manifesto di Ottobre". Il testo accettava di garantire i diritti elementari individuali, la libertà di espressione, le elezioni della Duma a suffragio universale, il riconoscimento alla Duma di alcuni poteri legislativi e di controllo sul bilancio. Il Manifesto non contribuì in ogni caso ad attenuare le tensioni sociali e politiche. Né lo Zar né l’opposizione accettarono una pacifica convivenza secondo le nuove regole del gioco istituzionale. In ogni caso con la novità del manifesto si chiuse il 1905, un anno che aveva visto predominare nell’opposizione le forze liberali. In seguito non sarebbe più stato così: i radicali socialisti avrebbero preso in mano le redini del gioco rivoluzionario, per non mollarle più.
Gli anni seguenti furono caratterizzati da continui bracci di ferro tra Corona e opposizione sul tema dell’assemblea costituente, che lo zar non aveva la minima intenzione di accettare. In un atmosfera politica irreale la prima Duma durò pochi mesi, dal maggio 1906 al luglio dello stesso anno. La seconda, Duma, che vide la luce nel febbraio 1907, durò solo quattro mesi.
LA MICCIA DELLA RIVOLUZIONE Nonostante la scena politica fosse dominata da un nuovo primo ministro della Corona ben disposto verso le opposizioni, Petr Stolypin, questa seconda assemblea si rivelò molto più radicale della prima, con i socialisti in un numero doppio rispetto alla destra. Come una fenice, la terza Duma risorse dalle ceneri il 1° novembre 1907: fu l’unica a resistere per cinque anni, anche perché finalmente rispondeva ai desideri zaristi, con una maggioranza di moderati "ottobristi" (i sostenitori del manifesto di ottobre). La quarta durò fino al 1917. Scrive Pipes che, se i governati russi avessero pensato al 1905 (una guerra, col Giappone, seguita da una rivoluzione) avrebbero cercato di evitare l’intervento armato nel conflitto mondiale. La guerra appariva comunque inevitabile per l’Impero russo, da sempre nelle mire del Kaiser. Dapprima il paese si strinse attorno allo Zar in un inevitabile fermento patriottico, e anche la Duma appoggiò il governo. La guerra sembrava aprire anche nuove opportunità economiche per l’industria e il miraggio di nuove conquiste portava con sé anche quello di nuovi mercati.
Dopo due anni di guerra di stallo la situazione mutò, e il conflitto mondiale si rivelò per quello che era: un mortale mina messa sotto le fondamenta della società russa. 15 milioni di uomini lasciarono industria e agricoltura per finire al fronte, e fu la crisi. Nel primo anno di guerra si chiusero 573 fabbriche e opifici. Nel 1916 più di un quinto degli altiforni indispensabili all’industria del ferro e dell’acciaio chiusero, il combustibile divenne irreperibile, il sistema dei trasporti era devastato, così come quello finanziario, mentre le campagne rimanevano vittime delle requisizioni militari. La carestia incombeva. Il 1915 e il 1916 furono anni di grandi scioperi e tumulti. L’opposizione borghese, organizzata nel "Blocco progressista" dall’agosto 1915, chiedevano a gran voce un governo che avesse piena fiducia popolare, e quindi eletto dal popolo e non espressione della Corona.
A CORTE LO STREGONE RASPUTIN Sono i mesi in cui si mettono in luce uomini come Lvov, Godnev e Kerenskij, che sarebbero divenuti membri del governo provvisorio. Paradossalmente, e nonostante la gravità della situazione, in questo periodo lo Zar si chiuse a strenua difesa dei propri privilegi, in questo spinto dall’instabile figura della moglie Alessandra e dall’inquietante figura del monaco contadino Rasputin, che in quegli anni alloggiava a corte difeso dalla zarina. Quest’uomo, che per caso era venuto a contatto con la Famiglia imperiale e per un caso ancora più fortuito era riuscito a curare l’emofilia del figlio di Nicola e Alessandra, l’amato Alessio, si era guadagnato l’eterna riconoscenza della zarina. Con il tempo questo eccentrico e dissoluto "profeta" divenne autentico punto di riferimento per la Corte, intervenendo nelle decisioni politiche e militari.
Agli occhi dello zar e della zarina veniva ad assumere i connotati romantici della figura del contadino tradizionale della vecchia Russia, religioso, conservatore e soprattutto rispettoso della figura imperiale. Tutt’altro che gli odiati intellettuali dell’opposizione borghese e socialista. Nel dicembre 1916 Rasputin era ormai una figura pericolosa e odiata sia dai radicali di sinistra che dai conservatori e monarchici, che rabbrividivano nel vedere lo zar in mano ad un fanatico. Fu un complotto monarchico organizzato dal principe Jusupov a porre fine alla sua vita. A dispetto delle speranze di molti, la morte di Rasputin fece sprofondare la corona in un maggiore isolamento, spingendo lo zar ad assumere un atteggiamento ancora più intransigente. Alla fine del 1916 un’ondata di scioperi mise in ginocchio il Paese. Il fronte antimonarchico era ormai la maggioranza e la soluzione politica più popolare risultava essere la destituzione dello zarismo.
1917: IL GOLPE DI OTTOBRE Sono i mesi in cui i radicali socialisti, soprattutto la fazione dei bolscevichi, comincia ad organizzarsi e ad assumere il ruolo di avanguardia rivoluzionaria. Le forze borghesi, strette tra lo zar e il terrore di una rivoluzione "rossa", cercarono - senza successo - di preparare la destituzione di Nicola II, spingendolo verso l’abdicazione. Il 1917 nacque sotto terribili auspici. Innanzitutto un durissimo inverno (la temperatura media fu di -12° C, rispetto ai +4° C dell’anno precedente !). I trasporti ne vennero irrimediabilmente colpiti, e con essi la distribuzione alimentare e di combustibile nelle città. La situazione politica era sempre più tesa, con continui scioperi e le tradizionali tensioni tra Duma e Corona. In una situazione così tesa apparve incredibile quando, non solo per ragioni di sicurezza, l’intera famiglia imperiale si trasferì lontano da Pietroburgo, a Mogilev.
Lo Zar restava distante dai problemi popolari e viveva ormai psicologicamente isolato dal proprio paese. Il giorno esatto seguente alla partita dello zar, il 23 febbraio, cominciarono i tumulti che si sarebbero placati soltanto con la sua definitiva caduta, una settimana dopo. In pochissimi giorni scioperi e tumulti si impossessarono di Pietroburgo e più di duecentomila operai entrarono in sciopero. Lo zar, dal suo ritiro, rispondeva con l’invito alla polizia di ricorrere alla forza. Già in passato il Governo aveva dovuto ricorrere a metodi violenti e con essi, insieme ad alcune concessioni, era riuscito a placare le rivolte. Solo che in questo caso di rivolte non si trattava; era una rivoluzione, e lo Zar dovette farsene una ragione quando avvenne l’incredibile: l’esercito, il fedele esercito pilastro della Corona, si era unito ai rivoltosi. Non solo i cosacchi mandati a sedare i rivoltosi avevano fraternizzato con loro, ma la stessa guarnigione di Pietroburgo si era ammutinata. Era il 26 febbraio e questo avvenimento fu lo spartiacque di un’epoca.
L’IMPERATORE ABDICA La Duma, riunita in sessione nel Palazzo di Tauride contro il volere dello Zar che ne aveva ordinato lo scioglimento, elesse un "comitato provvisorio" del blocco progressista, il cui compito era la restaurazione dell’ordine. Contemporaneamente tra le stesse mura nasceva Il Soviet dei deputati degli operai e soldati di Pietroburgo, rappresentante dei partiti socialisti. Una settimana dopo sulla scena politica dominavano queste due organismi.
Lo zar - per quanto non potesse crederci - era fuori dai giochi: firmò la propria abdicazione sul treno che stava cercando di riportarlo in extremis nella capitale. Il suo tentativo di trasferire i propri poteri nelle mani del fratello, granduca Michele, fallirono per la stessa rinuncia dell’interessato. Tragicomicamente terminava così la trisecolare monarchia Romanov. La rivolta in una sola città aveva portato ad un cambio di potere nel più esteso impero mondiale. A questo punto la Rivoluzione di Febbraio sembrava consegnare il potere nelle mani della Duma che, attraverso il comitato provvisorio, doveva solamente annunciare di assumersi le responsabilità di governo. Questo non avvenne immediatamente, e ciò costituì un gravissimo errore che gettò le basi per il fallimento del esperienza di febbraio e per la vittoria dell’ottobre rosso. I rappresentanti del comitato provvisorio, anziché sfidare l’autorità zarista e dichiararsi assemblea rivoluzionaria, attesero a lungo di ricevere l’incarico governativo dalle mani dello Zar o di chi per esso. Nel frattempo i socialisti si organizzavano: il Soviet estendeva la propria azione di propaganda tra operai e soldati ed elesse l’Ispolkom, una sorte di direzione del Soviet. L’Ispolkom divenne così l’alter-ego radicale del governo provvisorio.
IL GOVERNO PROVVISORIO Entrando in concorrenza con esso (venne deciso dai suoi membri di non partecipare al governo della Duma) e creando una situazione ambigua nella quale non era ben chiaro la definizione dei reciproci poteri, si realizzò una condizione di "doppio potere", o diarchia (dvoevlastie). Il Governo provvisorio, composto da borghesi moderati, assunse un atteggiamento rinunciatario nei confronti dell’Ispolkom e del Soviet, all’interno del quale i radicali, soprattutto i bolscevichi, agivano con estrema aggressività. Fu così che, mentre la Duma doveva sottoporre ad approvazione dell’Ispolkom il proprio programma e qualsiasi legge emessa, quest’ultimo non era tenuto a fare altrettanto. Esempio eclatante ne fu la famosa Ordinanza n° 1, con la quale il Soviet si impadroniva dell’esercito. Con essa venivano creati "comitati" di rappresentanza nelle file militari e l’autorità gerarchica veniva seriamente menomata.
Nei mesi immediatamente successivi l’Ispolkom estese il proprio potere ovunque, legiferando in ogni settore. Ordinò l’arresto della famiglia imperiale, reinstaurò la censura e la soppressioni delle pubblicazioni di destra e avviò un processo di burocratizzazione, basato soprattutto sulla figura dei "commissari". E’ da notare come l’Ispolkom rappresentasse una minoranza del paese: i contadini ne erano esclusi, anche perché possedevano la propria lega contadina, i borghesi pure. Il Soviet rappresentava non più del 10 % della popolazione russa, ed era guidato da alcuni intellettuali, nel cui numero i bolscevichi erano in netta minoranza. La difficile situazione della Russia - impegnata ancora in una guerra mondiale, afflitta da serissimi problemi economici e da carestie - esigeva un governo dotato di estrema autorità e capacità di azione. Quello che non fu il governo provvisorio. Le tre questioni principali - riforma agraria, assemblea costituente e pace - restavano al palo. A ciò va aggiunta la scientifica azione corrosiva dei rivoluzionari socialisti nei confronti del governo. Il Soviet chiedeva molto più di quanto il governo potesse concedere, soprattutto riguardo all’impegno bellico.
LA DEMAGOGIA DEI BOLSCEVICHI La Russia non poteva ritirarsi immediatamente dal conflitto, e anche i radicali lo sapevano bene, ma ciò non impedì loro (soprattutto i bolscevichi) di ricorrere alla demagogia per minare alla base il "potere borghese". "Tutto il potere ai Soviet", era questa la richiesta dei partiti socialisti e degli operai, in pratica il potere assoluto. La situazione politica in patria disorientava completamente le forze armate, già demoralizzate da continue sconfitte. Non sapendo i soldati se seguire il governo provvisorio o ammutinarsi e ubbidire al Soviet, l’anarchia cominciò a diffondersi tra le file dell’esercito. Contemporaneamente i membri del governo, Kerenskij in testa, si barcamenavano in una difficilissima politica che tentava di soddisfare le richieste dei socialisti, ma anche di una destra che temeva una possibile rivoluzione "rossa". Errore fondamentale di Kerenskij (originato soprattutto dalla sua convinzione di non accettare nemici a sinistra), fu quello di credere che un colpo di mano in quelle determinate contingenze potesse venire solo da destra, magari dalle alte gerarchie militari.
L’Affare Kornilov, uno dei più sconcertanti e tragici equivoci della Storia, fu la conseguenza di quanto appena detto. Fu anche uno dei pretesti che favorì la presa del potere da parte dei bolscevichi. Nella speranza di combattere l’anarchia dilagante Kerenskij si era rivolto a Kornilov, comandante supremo delle forze armate e figura militare di grande prestigio. Assolutamente antisocialista ma di convinzioni liberali, Kornilov riteneva che il governo dovesse prendere saldamente in pugno la situazione, emarginando i radicali. Nell’estate del 1917 il comandante ricevette da Kerenskij l’ordine di avvicinarsi in forze a Pietrogrado per intervenire in caso di rivolte. A questo punto entrò in gioco la figura di Vladimir Lvov, ex membro del governo provvisorio e uomo non troppo equilibrato.
L’OTTOBRE ROSSO Costui, assumendo il ruolo di intermediario tra Kerenskij e il generale, indusse entrambi all’equivoco e convinse Kerenskij (che aveva bisogno di ben poco per crederci) che Kornilov avrebbe mosso verso la capitale per assumere poteri dittatoriali. A quel punto Kerenskij esautorò il generale e ricorse all’Ispolkom e ai socialisti per scongiurare il "golpe di destra" mai nato. Un’occasione d’oro, questa, per i socialisti radicali, i bolscevichi in testa. Anche se la storiografia tradizionale parla di due rivoluzioni, quella di febbraio e quella di ottobre, è apparso recentemente sempre più chiaro come gli eventi che portarono al potere Lenin e i bolscevichi costituirono tutt’altro che una rivoluzione. Il Febbraio fu una autentica rivoluzione, nata spontaneamente nelle strade, in chiave anti-zarista, e che portò al potere un governo provvisorio universalmente accettato in tutto il paese. La vittoria dei bolscevichi e la caduta di Kerenskij non sorsero spontaneamente, ma furono la conseguenza di un’azione sovversiva attuata da agitatori professionisti, decisi ad ottenere il potere assoluto, benché pienamente coscienti di essere una minoranza.
Recenti analisi storiografiche e documenti del governo tedesco dimostrano come lo stesso Lenin poté tornare in Russia dall’esilio svizzero grazie all’intervento della Germania, che così sperava di indebolire il governo russo nemico favorendo il rientro in patria del capo carismatico di una fazione politica che chiedeva la pace a tutti i costi. Fino alla presa del potere Lenin poté contare anche su lauti finanziamenti tedeschi. Appare chiaro come i bolscevichi non disdegnassero qualsiasi espediente - anche il rischio di essere accusati di tradimento - pur di ottenere il potere. Lenin tentò il colpo di mano in tre occasioni, prima di ottenere il potere: in aprile, in giugno e nel luglio 1917.
LA BATTAGLIA ORATORIA DI LENIN In ognuno di questi casi i bolscevichi "stimolarono" e "usarono" dimostrazioni di piazza, rimanendo però in seconda fila e aspettando il momento propizio per assumere la guida della "rivoluzione". A tutto questo bisogna aggiungere l’incessante battaglia oratoria di Lenin, che aggredì in ogni modo il governo, esortando il popolo alla ribellione e l’esercito alla disobbedienza. Scrive Pipes che " come Mussolini e Hitler, suoi pupilli ed emulatori, Lenin conquistò il potere anzitutto piegando lo spirito di coloro che lo ostacolavano, convincendoli che erano condannati. Il trionfo bolscevico dell’ottobre fu dovuto per il 90 % a motivi psicologici." Il primo tentato "putsch" avvenne il 21 aprile, ma finì male per i bolscevichi. Osteggiati dalla maggioranza dei dimostranti, comunque fedeli al governo, i bolscevichi vennero isolati e quasi linciati, le loro insegne antigovernative vennero strappate e si ritirarono immediatamente. I moti di aprile contribuirono ad un rimpasto governativo che portò nel governo anche membri dell’Ispolkom. Le condizioni poste dai socialisti furono il tentativo di porre fine alla guerra, la redistribuzione di alcune terre, una maggiore "sovietizzazione" dell’esercito e, naturalmente, l’agognata e mai realizzata assemblea costituente. Finiva così il dvoevlastie, il doppio potere.
I bolscevichi, che si erano opposti veementemente alla partecipazione governativa, erano sempre più una minoranza. Nel giugno 1917, al 1° Congresso panrusso dei Soviet, la fazione di Lenin era un terzo rispetto a quella dei menscevichi o anche a quella dei socialisti rivoluzionari. "Tuttavia - scrive Pipes - il vantaggio maggiore dei bolscevichi sugli avversari era […] la loro totale indifferenza per la Russia" Per Lenin la Russia rappresentava solo il primo passo verso la rivoluzione mondiale, e la logica del "tanto peggio, tanto meglio" calzava a pennello con il loro programma rivoluzionario.
L’AIUTO DELLA GERMANIA Benché in difficoltà, quindi, i bolscevichi non cessarono la loro politica di propaganda e di attivismo, grazie anche ai finanziamenti tedeschi, rivelatisi indispensabili per la diffusione di pubblicazioni come la "Pravda". Nel 1917 i tedeschi donarono ai bolscevichi più di 50 milioni di marchi in oro. A giugno ci fu il secondo tentativo di "putsch". All’insaputa del soviet di Pietrogrado (che poi ne ordinò l’annullamento), venne organizzata una manifestazione che i bolscevichi cercarono di sfruttare. Solo all’ultimo momento, dopo aver constatato che nelle caserme e nei quartieri operai pochi li avrebbero seguiti, i bolscevichi si inchinarono al volere del Soviet. In quest’occasione ci fu chi - tra i partiti socialisti - parlò di tentato colpo di mano di Lenin e dei suoi uomini, ma nessuna azione punitiva fu mossa nei loro confronti. I bolscevichi restarono "compagni in errore", traditi dalla loro stessa esuberanza. Fu persa un’occasione d’oro: se i bolscevichi fossero stati dichiarati "fuori legge" e espulsi dal Soviet, non avrebbero potuto in futuro pretendere di agire in suo nome, quando presero il potere a loro uso esclusivo.
Il terzo tentativo di "putsch" - quello di luglio - fu catastrofico per i bolscevichi e costituì uno degli errori più clamorosi di Lenin. Politicamente equivalse al fallito putsch di Hitler del 1923. Solo un miracolo - gli errori di Kerenskij, l’equivoco Kornilov - poté risollevare i futuri padroni della Russia. Il governo aveva deciso di inviare al fronte unità della guarnigione di Pietrogrado. La cosa era voluta al fine di allontanare dalla capitale i soldati più indottrinati dai bolscevichi. Quest’ultimi cercarono a tutti i costi di scongiurare la minaccia di perdere uomini utili per un potenziale "putsch". Cercarono di spingere alla ribellione i soldati. Fu decisa una manifestazione armata , che doveva marciare verso il palazzo di Tauride e "chiedere" al Soviet di assumere tutti i poteri.
L’OFFENSIVA DEI BOLSCEVICHI Naturalmente i bolscevichi, guida dei rivoltosi, avrebbero giocato da una posizione di forza. Alla fine la manifestazione fallì, la folla si ritirò dal palazzo di Tauride e vennero addirittura fatte trapelare le notizie riguardanti i rapporti tra Lenin e i tedeschi, che confusero i soldati, sensibili all’accusa di tradimento. Il 6 luglio il governo ordinò l’arresto di Lenin e dei suoi complici, che fuggirono. Anche in questa occasione l’Ispolkom non si dimostrò duro verso i bolscevichi, difese informalmente Lenin e fece cadere le accuse. Lenin, comunque, rimase nel suo nascondiglio fino al 26 di ottobre, quando l’ultimo golpe fosse andato definitivamente a buon termine. A questo punto si inserisce l’affare Kornilov, che risollevò le fortune dei bolscevichi. L’unica organizzazione militare dell’Ispolkom, cui Kerenskij si era rivolto per arginare la "minaccia" del generale russo, era in mano ai bolscevichi, che quindi vennero ad assumere un notevole potere. Nello stesso periodo Trotzkij riuscì ad essere eletto presidente del Soviet di Pietrogrado e cominciò a renderlo uno strumento utile ai bolscevichi.
La notizia che il governo provvisorio aveva stabilito finalmente le elezioni per un’assemblea costituente per il 12 novembre preoccupò Lenin: il potere andava preso prima. Innanzitutto i bolscevichi dovevano ottenere l’egemonia all’interno del Soviet, e lo fecero convocando, contro il volere della maggioranza menscevica e socialista rivoluzionaria dell’Ispolkom, un Congresso dei soviet dove si aggiudicarono - violando le norme di rappresentatività - la maggioranza, convocando la quasi totalità di soviet filo-bolscevichi. In pratica ora i bolscevichi avevano molte posizioni di potere: avevano esautorato l’Ispolkom, guidavano l’organizzazione militare per difendere la città ed erano in maggioranza nel Soviet.
I NUOVI PADRONI DELLA RUSSIA Troppo tardi, dopo l’affare Kornilov, Kerenskij si accorse di essere finito in mano ai bolscevichi. Quando cercò di raccogliere a sé l’esercito per difendere il governo da un golpe che appariva imminente, si rese conto che le truppe fedeli erano pochissime. Nella notte tra il 24 e il 25 ottobre i bolscevichi - secondo la classica tecnica del colpo di stato - si impadronirono senza sparare un colpo di pistola degli obbiettivi strategici (stazioni, poste, telefoni, ponti e banche). Il governo, isolato nel Palazzo d’inverno, e difeso da pochi soldati resistette fino a tarda notte del 25 ottobre. Nonostante la retorica ufficiale, il palazzo non fu mai preso d’assalto. Fu invaso dalla folla una volta che gli ultimi soldati, stanchi, se ne erano andati. Ci furono cinque morti e diversi feriti, quasi tutti a causa di proiettili vaganti. Nei giorni seguenti i bolscevichi agirono chirurgicamente. Il congresso dei Soviet, che avevano convocato arbitrariamente e monopolizzato, nominò un nuovo Ispolkom sotto il loro dominio. In seguito cadde Mosca, con un solo scontro armato presso Pulkovo, un sobborgo in collina nei pressi della città.
La popolazione russa reagì con indifferenza al golpe bolscevico, e non mostrò di preoccuparsi per le sorti del governo provvisorio. Per i primi tempi i nuovi padroni della Russia non ricorsero ad un gergo socialista e mascherarono i loro reali intenti. Questo impedì nuove sommosse e fece pensare che nulla di realmente nuovo stesse accadendo. La Borsa di Pietrogrado restò indifferente. Nessuno capì.
CRONOLOGIA
1900 -1904
Aprile 1902 - Viaceslav Pleve viene nominato dallo Zar Ministro degli Interni. Sotto di lui la Russia diventa uno stato poliziesco.
Luglio 1904 - Pleve è assassinato nella sua carrozza da un rivoluzionario
Agosto 1904 - P.D. Mirskij diventa il nuovo Ministro degli Interni
1905
7-8 gennaio - Grande sciopero generale organizzato da Padre Gapon
9 Gennaio - "Domenica di Sangue"
18 gennaio - Destituzione di Mirskij dalla carica di Ministro degli Interni
18 febbraio - Prime concessioni dello Zar. Accettato il principio di una partecipazione di rappresentanti eletti dal popolo alla valutazione dei disegni di legge.
Maggio - Nasce la Lega delle Leghe
Giugno - Disordini e massacri ad Odessa; ammutinamento della corazzata Potemkin
Settembre - Gli studenti aprono le università agli operai; agitazioni di massa
13 ottobre - Nasce il Soviet di Pietroburgo, esempio per la nascita di tutti gli altri soviet russi
17 ottobre - Lo Zar firma il "Manifesto di Ottobre"
21 novembre - Nasce il Soviet di Mosca
6 Dicembre - Il Soviet di Pietroburgo indice uno sciopero generale.
1906 - 7
Aprile 1906 - Vitte rassegna le dimissioni dalla presidenza del Consiglio dei ministri e viene sostituito da Goremykin. Stolypin è il nuovo Ministro degli Interni.
Maggio 1906 - Apertura Prima Duma
Luglio 1906 - Scioglimento Prima Duma
Febbraio 1907 - Apertura Seconda Duma
Giugno 1907 - Scioglimento Seconda Duma
Novembre 1907 - Apertura Terza Duma. Manterrà tutta la legislatura (1912).
1912
Novembre - Apertura Quarta Duma. Rottura definitiva all’interno del partito socialdemocratico tra menscevichi e bolscevichi.
1914-16
19 Luglio - 1 agosto 1914 - Crisi rapporti russo-tedeschi e dichiarazione di guerra tedesca presentata alla Russia
Giugno - Agosto 1915- Continue crisi governative e sostituzioni di ministri; nasce il Blocco Progressista; i Russi cominciano la ritirata dalla Polonia. La Duma è riconvocata per sei settimane. Richieste a Nicola che la Duma possa eleggere i ministri.
22 agosto 1915 - Nicola assume personalmente il comando delle forze armate e lascia Pietroburgo, destinazione Mogilev.
Ottobre-dicembre 1916 - Ondata di scioperi nel Paese. I socialisti assumono le redini della spinta rivoluzionaria.
17 Dicembre 1916 - Rasputin viene assassinato in un complotto di nobili russi. Il Giorno seguente lo Zar va a Carskoe Selo.
Inverno 1916 - Un durissimo inverno mette in ginocchio l’agricoltura russa.
1917
14 febbraio - La Duma si riconvoca nonostante il parere contrario dello Zar
23 febbraio - Dimostrazioni nelle strade della capitale Pietrogrado in occasione della giornata internazionale della donna. Comincia la Rivoluzione di Febbraio.
25 febbraio - Le dimostrazioni diventano violente; lo Zar ordina l’uso della forza.
26 febbraio - La guarnigione di Pietrogrado si ammutina. Per la prima volta nella storia russa l’esercito volta le spalle alla Corona.
27 febbraio - Ampie zone della città sono in mano agli insorti
28 febbraio - Nicola cerca di raggiungere la capitale. La Duma si riunisce per eleggere un comitato provvisorio. Le fabbriche e i soldati eleggono rappresentanti per il Soviet. Nasce l’Ispolkom., direzione del Soviet.
Marzo - Nasce il Governo Provvisorio sotto la presidenza di G.E. L’vov; il fratello dello Zar rifiuta di ereditare la corona; Nicola viene arrestato e detenuto a Carskoe Selo; gli Stati Uniti riconoscono il governo provvisorio; la Gran Bretagna si rifiuta di concedere l’asilo alla Famiglia Imperiale
21 aprile - Dimostrazioni di piazza, tentato putsch bolscevico, la fola isola gli uomini di Lenin e li fa battere in ritirata.
1 Maggio - L’Ispolkom concede ai propri membri di partecipare ad un nuovo governo nato dalla crisi per le dimostrazioni di piazza
Giugno - I Bolscevichi cercano di organizzare un secondo putsch, ma vengono fermati in tempo dall’Ispolkom. Lenin scappa in Finlandia.
1 Luglio - Il Governo provvisorio ordina l’arresto dei dirigenti bolscevichi
2-3 luglio - Agitazioni nella guarnigione di Pietrogrado fomentate dai bolscevichi
4 Luglio - Terzo e catastrofico putsch tentato dai bolscevichi. La marcia verso il Palazzo di Tauride per ordinare al Soviet di assumere tutti i poteri fallisce miseramente. Lenin scappa e non tornerà a Pietrogrado fino al giorno del riuscito golpe, il 26 ottobre.
11 luglio - Kerenskij viene nominato Primo Ministro
Estate 1917 - Agitazioni a Pietrogrado, l’opposizione radicale tiene alle strette il governo; primi approcci tra Kerenskij e il Comandante supremo Kornilov per mantenere l’ordine nella capitale, nasce l’equivoco dell’affare Kornilov; il governo fissa le elezioni per l’assemblea Costituente per il giorno 12 novembre
27 agosto - Kornilov è dichiarato traditore, si ribella e alcuni soldati lo seguono.
30 agosto - Kerenskij si rivolge alla sinistra per sventare il "golpe di destra". I dirigenti bolscevichi incarcerati vengono liberati.
Settembre - I Bolscevichi decidono di organizzare arbitrariamente il 2° Congresso dei Soviet; i bolscevichi decidono di operare anche contro il volere del Soviet principale, si assicurano una maggioranza fittizia e Trockij è eletto Presidente del Soviet di Pietrogrado.
9 ottobre - L’Ispolkom decide la formazione di un’organizzazione militare per la difesa della capitale, che viene monopolizzata dai bolscevichi.
24-25 ottobre - Golpe bolscevico; gli uomini di Lenin occupano i punti nevralgici della capitale senza colpo ferire; Kerenskij abbandona il palazzo d’Inverno, poco dopo assediato dai rivoltosi, per andare a chiedere rinforzi al fronte.
26 ottobre - Il potere è nelle mani dei soviet, la difesa del palazzo d’Inverno cede e abbandona per il mancato arrivo delle truppe lealiste invocate da Kerenskij. I ministri vengono arrestati e incarcerati nella fortezza di S Pietro e Paolo.
30 ottobre - scontro a Pulkovo, presso Mosca, tra forze filo-governative e guardie rosse, che vincono.
Novembre - Resa di Mosca, l’Impero è rosso.
ZEMLJA I VOLJA
“Terra e libertà”
Nel frattempo i resti del movimento narodnik cercavano di raggruppare le proprie forze nelle città, sotto una nuova bandiera. Nel 1876 venne formata la Zemlja i Volja per opera dei Natanson, di Alexander Mikhailov e di Georgij Plekhanov. La nuova organizzazione era capeggiata da un Consiglio generale che eleggeva un Comitato esecutivo (o Centro amministrativo) più ristretto. Subordinati a questi organismi c’erano una sezione contadina, una sezione operaia, una sezione giovanile (studentesca) e, nuovo sviluppo, una “sezione disorganizzazione”, un’ala armata “per la protezione contro la condotta arbitraria dei funzionari”. Il programma della Zemlja i Volja si fondava su un’idea confusa di “socialismo contadino”: tutta la terra doveva passare ai contadini e si doveva garantire l’autodeterminazione a tutte le parti dell’impero russo. La Russia doveva essere governata sulla base dell’autogoverno delle comuni contadine. Tuttavia, tutto questo veniva subordinato all’obiettivo centrale dell’abbattimento rivoluzionario dell’autocrazia, che doveva essere portato a termine “il più rapidamente possibile”. L’estrema urgenza qui derivava dall’idea di prevenire la crisi della comune contadina (il mir) causata dallo sviluppo capitalistico! I veri originatori della teoria del “socialismo in un solo paese” furono quindi i narodniki, i quali cercarono di risparmiare alla società gli orrori del capitalismo sposando l’idea di una “via particolare dello sviluppo storico” riservata alla Russia, basata sulla supposta unicità dei contadini russi e delle loro istituzioni sociali. Il 6 dicembre 1876, una manifestazione illegale di forse 500 persone, prevalentemente studenti, si radunò sui gradini della cattedrale di Kazan, al grido di “terra e libertà” e “viva la rivoluzione socialista!”. I manifestanti vennero arringati da uno studente ventunenne di nome Georgij Plekhanov, che con questo appello rivoluzionario vide l’inizio di anni di esilio e di vita clandestina. Nato nel 1885, in una famiglia aristocratica di Tambov, Plekhanov, come molti altri della sua generazione, si fece le ossa sulle pagine dei grandi autori democratici russi: Belinsky, Dobrolyubov e soprattutto Chernyshevsky. Ancora adolescente si unì al movimento populista partecipando a missioni rischiose, inclusa la liberazione di compagni arrestati e persino l’eliminazione di un agente provocatore. Arrestato diverse volte, riuscì sempre a sfuggire alle guardie zariste.
In seguito al suo discorso coraggioso, Plekhanov fu costretto a fuggire all’estero, ma il suo prestigio era tale che venne eletto, in sua assenza, come membro del “gruppo centrale” della Zemlja i Volja. Rientrato in Russia nel 1877, il futuro fondatore del marxismo russo condusse una precaria vita clandestina. Armato di un tirapugni e di una pistola, che durante la notte teneva sempre sotto il cuscino, si recò dapprima a Saratov, sul basso Volga, dove in seguito venne nominato responsabile della “sezione operaia” della Zemlya y Volya. L’esperienza del contatto di prima mano con gli operai di fabbrica ebbe un profondo effetto sul pensiero del giovane, e indubbiamente lo aiutò a rompere con i pregiudizi populisti e a trovare la via verso il marxismo.
Nel dicembre del 1877 un’esplosione nel deposito di esplosivi di una fabbrica di armi nell’isola Vasilevsky uccise sei operai, ferendone molti altri. I funerali delle vittime si tramutarono in una manifestazione. Plekhanov scrisse un manifesto che terminava con queste parole: “Operai! È ora di intendere ragione. Non dovete attendervi aiuto da nessuno. Soprattutto, non aspettatevi aiuto dalla nobiltà. Per lungo tempo i contadini hanno atteso l’aiuto della nobiltà, e tutto quello che hanno avuto sono state le terre peggiori e tasse più pesanti, persino più che in passato… Tollererete tutto questo per sempre voi, operai delle città?” (19)
L’autore ebbe risposta prima di quanto egli, o chiunque altro, si potesse aspettare. Il boom economico che scaturì dalla guerra russo-turca (1877-78) creò le condizioni per una esplosione di scioperi senza precedenti, nella quale il settore più oppresso e sfruttato della classe operaia, gli operai tessili, furono la punta di lancia. Non sarebbe stata l’ultima volta che gli operai tessili, più oppressi e politicamente volubili, entravano in azione ben più rapidamente dei battaglioni pesanti dell’industria metallurgica. Gli operai cercarono aiuto dagli “studenti” attraverso la mediazione di singoli operai che militavano nelle organizzazioni rivoluzionarie.
In qualità di capo della sezione operaia della Zemlya y Volya, Plekhanov si trovò virtualmente a capo del movimento. Purtroppo i narodniki non avevano idea di cosa fare in un movimento operaio che proprio non rientrava nella loro concezione del mondo. Nel giro di due anni, San Pietroburgo vide 26 scioperi, una cifra che non sarebbe più stata eguagliata fino alla massiccia ondata di scioperi degli anni ’90. I membri dell’Unione settentrionale giocarono un ruolo preminente in questi scioperi e nei primi mesi del 1879 l’organizzazione raggiunse il suo livello massimo, con 200 operai organizzati e altri 200 in riserva, accuratamente distribuiti fra le diverse fabbriche, tutti collegati a un organismo centrale. I circoli operai avevano persino una biblioteca, anch’essa attentamente distribuita fra i diversi gruppi clandestini, che veniva largamente utilizzata dagli operai esterni all’Unione. L’intraprendente Khalturin organizzò una tipografia clandestina, e Obnorsky stabilì accordi con un gruppo operaio di Varsavia, “il primo esempio di legame amichevole fra operai russi e polacchi”, come osservò Plekhanov con soddisfazione. (20)
Ma pochi mesi dopo la comparsa del primo numero del suo giornale illegale, Rabociaia Zarja (“l’alba operaia”), la polizia distrusse la tipografia dell’Unione e il grosso dei suoi militanti venne spazzato via da un’ondata di arresti e costretto ai lavori forzati, al carcere e all’esilio. Il risultato della rottura di questa prima solida organizzazione della classe operaia fu catastrofico. Khalturin e altri trassero conclusioni pessimistiche e passarono al terrorismo. Ci vollero dieci anni e innumerevoli sacrifici innecessari prima che il movimento si immunizzasse contro il germe del terrorismo.
Fin dalla sua stessa nascita il movimento rivoluzionario in Russia era stato diviso dalla polemica fra “educatori” e “insurrezionalisti”, le cui posizioni erano grosso modo identificate, rispettivamente, con quelle di Lavrov e Bakunin. Il fallimento dell’"andata al popolo” spinse questo disaccordo fino al punto di una rottura aperta. Nel 1874-75 c’erano in Russia migliaia di prigionieri politici, giovani che avevano pagato con la perdita della libertà il prezzo della loro sfida. Alcuni vennero in seguito rilasciati su cauzione e tenuti sotto sorveglianza. Altri vennero esiliati in Siberia con provvedimenti amministrativi. Tutti gli altri vennero semplicemente lasciati a marcire in galera, in attesa di processo. Di quelli che erano rimasti in libertà e politicamente attivi, alcuni decisero di ritornare nei villaggi, ma questa volta in qualità di dottori o maestri, dedicando le loro energie a un modesto lavoro di educazione, in attesa di tempi migliori. Per altri, tuttavia, l’essere giunti a comprendere come la teoria di Bakunin sui “contadini istintivamente rivoluzionari” fosse sbagliata, significava cercare una strada completamente nuova.
La Zemlya y Volya non fu mai un’organizzazione di massa. Poche decine di persone, principalmente studenti e intellettuali sulla trentina, ne costituivano la militanza attiva. Ma il germe della dissoluzione era presente fin dalla nascita. I sostenitori di Lavrov cercavano di “aprire gli occhi” al popolo attraverso la propaganda pacifica. “Non dobbiamo suscitare emozioni nel popolo, ma coscienza di sé”, scriveva Lavrov. (21) La sconfitta dei tentativi di provocare un movimento di massa dei contadini usando le armi della propaganda, aprì la strada all’ascesa di una nuova teoria, nella quale il bakuninismo veniva capovolto. Dalla “negazione della politica”, e in particolare dell’organizzazione politica, un settore dei populisti fece una svolta a 180 gradi e passò a formare un’organizzazione terroristica segreta e altamente centralizzata – la Narodnaja Volja –, destinata nelle loro intenzioni a provocare un movimento rivoluzionario delle masse attraverso la “propaganda del fatto”.
La recente umiliazione militare della Russia zarista nella guerra russo-turca mise a nudo una volta di più la bancarotta del regime, rianimando l’opposizione. I dirigenti della Narodnaja Volja erano decisi a sfidare l’autocrazia in una sorta di singolar tenzone terroristica, che avrebbe dovuto stimolare “dall’alto” la fiamma della rivolta. Un settore della gioventù bruciava ora dall’impazienza. Le parole di Zhelyabov, futuro dirigente della Narodnaja Volja, riassumono l’intera questione: “La storia”, diceva, “si muove troppo lentamente. Bisogna darle una spinta, altrimenti l’intera nazione marcirà e andrà in malora prima che i liberali ottengano alcunché”.”
“Una costituzione?” “Tanto di guadagnato.”
“Bene, allora cosa volete: lavorare per una costituzione, o dare una spinta alla storia?”
“Non sto scherzando, in questo momento dobbiamo dare alla storia una spinta.” (22)
Queste poche righe mostrano in modo crudo il rapporto fra terrorismo e liberalismo. I terroristi non avevano un proprio programma indipendente. Prendevano a prestito le loro idee dai liberali, i quali li utilizzavano per dare enfasi alle loro rivendicazioni.
Nell’autunno del 1877, quasi 200 giovani uomini e donne vennero processati per il crimine di essere “andati al popolo”. Avevano già trascorso tre anni in galera senza processo, e c’erano stati numerosi casi di maltrattamenti inflitti ai prigionieri da guardiani e funzionari brutali. Per i rivoluzionari i maltrattamenti sistematici, le torture e le umiliazioni sofferte dai prigionieri furono l’ultima goccia. Un caso particolarmente atroce suscitò un’ampia indignazione nel luglio del 1877. Quando generale Trepov, il tristemente noto capo della polizia di Pietroburgo, aveva visitato il centro di detenzione preliminare, un giovane “politico” di nome Bogoljubov si era rifiutato di alzarsi in piedi, ed era stato condannato per ordine dello stesso Trepov a 100 frustate. Fu così che nel gennaio del 1878 si oltrepassò un punto decisivo, quando una giovane di nome Vera Zasulic sparò a Trepov. Questa azione, che la Zasulic aveva organizzato e messo in opera da sola, era intesa come rappresaglia per il maltrattamento dei prigionieri politici. Dopo il caso Zasulic, la svolta verso la “propaganda del fatto” divenne irresistibile, particolarmente dopo che, contro ogni aspettativa, ella venne assolta dalla giuria.
Inizialmente l’uso degli attentati veniva concepito come una tattica limitata, per la liberazione di compagni arrestati, l’eliminazione delle spie della polizia, e per autodifesa contro le azioni repressive dell’autorità. Ma il terrorismo ha una logica tutta sua . In un breve lasso di tempo, la mania terroristica si impadronì dell’organizzazione. Fin dall’inizio c’erano stati dubbi sulla “nuova tattica”. Sulle pagine del giornale ufficiale del partito si levarono voci critiche: “Dobbiamo ricordare”, diceva un articolo, “che la liberazione delle masse lavoratrici non verrà conquistata su questa strada. Il terrorismo non ha nulla in comune con la lotta contro le fondamenta dell’ordine sociale. Solo una classe può opporsi a un’altra classe. Perciò, il grosso delle nostre forze deve lavorare in mezzo al popolo.” (23)
L’adozione della nuova tattica portò a una spaccatura aperta nel movimento, fra i terroristi e i seguaci di Lavrov, i quali proponevano un lungo periodo di preparazione e propaganda fra le masse. In pratica, questa seconda tendenza di stava allontanando dalle idee rivoluzionarie, orientandosi alla politica dei “piccoli fatti” e a un approccio gradualista. L’ala destra del populismo divenne indistinguibile dal liberalismo, mentre il suo settore più radicale si apprestava a puntare tutto sulla forza di un proiettile e sulla “chimica rivoluzionaria” della nitroglicerina.
In tempi recenti, i moderni terroristi hanno tentato di distinguersi dai loro progenitori russi. I narodniki, si dice, credevano nel terrorismo individuale e si sostituivano alle masse, mentre i moderni sostenitori della “lotta armata” o della “guerriglia urbana” si considerano solo come un’ala armata della lotta di massa, il cui proposito è fare da detonatore di azioni di massa. Tuttavia, anche i sostenitori della Narodnaja Volja non si considerarono mai come un movimento autosufficiente. Il loro obiettivo dichiarato era di dare l’avvio a un movimento di massa, basato sui contadini, che avrebbe rovesciato lo stato e istituito il socialismo. Anch’essi pensavano che il proprio scopo fosse quello di far “detonare” il movimento di massa attraverso un esempio coraggioso.
La politica, tuttavia, ha la sua propria logica. Tutti gli appelli fatti in nome delle masse dalla Narodnaja Volja non erano altro che una cortina fumogena dietro la quale c’era una sfiducia profondamente radicata nelle capacità rivoluzionarie di quelle stesse masse. Gli argomenti avanzati per giustificare il terrorismo in Russia oltre un secolo fa suonano curiosamente simili a quelli dei gruppi di “guerriglia urbana” in tempi più recenti: “Siamo a favore del movimento di massa, ma lo Stato è troppo forte”, e così via. Il terrorista Morozov per esempio, affermò:
“Se si osserva la vita sociale contemporanea in Russia, si giunge alla conclusione che a causa della condotta arbitraria e della violenza del governo, nessuna attività e possibile da parte del popolo. Non esistono né la libertà di espressione, né la libertà di stampa, che permettano di lavorare con le armi della persuasione. Di conseguenza, per ogni attivista d’avanguardia è necessario in primo luogo mettere fine all’attuale sistema di governo, e per lottare contro di esso non vi è altro modo che farlo armi alla mano. Lotteremo quindi contro di esso alla maniera di Guglielmo Tell, fino a quando arriverà il momento nel quale conquisteremo libere istituzioni sotto le quali sarà possibile per noi discutere senza ostacoli sulla stampa e in assemblee pubbliche di tutte le questioni sociali e politiche, e decidere di esse attraverso la libera rappresentanza del popolo.” (24)
I narodniki erano idealisti coraggiosi, ma sviati, che limitavano i loro bersagli a noti torturatori, capi di polizia colpevoli di atti repressivi, e simili. Spesso si consegnarono successivamente alla polizia per potere utilizzare i processi come casse di risonanza per mettere sotto accusa la società esistente. Non misero mai bombe per massacrare donne e bambini, e neppure per uccidere soldati di truppa. Nelle rare occasioni nelle quali uccisero singoli poliziotti, lo fecero per entrare in possesso di armi. Nonostante tutto questo, i loro metodi erano completamente sbagliati e controproducenti, e furono esplicitamente condannati dai marxisti.
Le teorie sedicenti “moderne” della guerriglia urbana non fanno che ripetere in forma caricaturale le vecchie idee pre-marxiste dei terroristi russi. È piuttosto ironico che queste persone, che spesso avanzano la pretesa di essere “marxisti-leninisti”, non abbiano la più vaga idea del fatto che il marxismo russo nacque da una lotta implacabile contro il terrorismo individuale. I marxisti russi descrivevano con disprezzo i terroristi come “liberali armati di bombe”. I padri liberali parlavano in nome del “popolo”, ma lo consideravano troppo ignorante per investirlo di un compito di responsabilità quale la riforma della società. Il suo ruolo avrebbe dovuto ridursi a votare passivamente di tanto in tanto e a stare a vedere mentre i liberali nel parlamento avrebbero portato avanti i propri affari. I figli dei liberali non provavano altro che disprezzo per il parlamento. Si dichiaravano per la rivoluzione e, naturalmente per “il popolo”, salvo poi considerarlo troppo ignorante per comprenderli. Essi dovettero ricorrere alla “chimica rivoluzionaria” della bomba e del revolver. Ma esattamente come per i liberali, il ruolo delle masse veniva ridotto a quello di spettatori passivi.
Il marxismo vede la trasformazione della società come un atto cosciente, compiuto dalla classe lavoratrice. È progressivo tutto quello che serve ad accrescere la coscienza dei lavoratori della propria forza. È reazionario ciò che tende ad abbassare nei lavoratori la comprensione del loro stesso ruolo. La politica del terrorismo, quindi, è massimamente dannosa per la causa delle masse precisamente quando ottiene dei successi. Che conclusioni si suppone che possano trarre gli operai da un atto spettacolare di terrorismo individuale, coronato dal successo? Solo questa: che è possibile raggiungere i loro scopi senza alcuna necessità del lungo e arduo lavoro preparatorio di organizzarsi in sindacati, di partecipare agli scioperi e ad altre azioni di massa, all’agitazione, alla propaganda, all’educazione politica. Tutto questo viene visto come un ostacolo, se si considera invece che basta impadronirsi di una rivoltella e di una bomba per risolvere il problema.
La storia del ventesimo secolo ci può dare alcune tragiche lezioni su quanto accade quando i rivoluzionari tentano di sostituire l’azione eroica di una minoranza armata al movimento cosciente della classe lavoratrice. Il più delle volte, come fu il caso con la Narodnaja Volja, il tentativo di sfidare la potenza dello stato con simili mezzi conduce a una terribile sconfitta, e al rafforzamento di quello stesso apparato di repressione che si intendeva distruggere. Ma anche in quei casi in cui, per esempio, una guerriglia riesce ad abbattere il vecchio regime, non potrà mai giungere a stabilire uno stato operaio sano, e tanto meno il socialismo. Nel migliore dei casi porterà alla formazione di uno stato operaio deformato (un regime di bonapartismo proletario) nel quale i lavoratori sono soggetti al dominio di un’élite burocratica. In realtà questi esiti sono predeterminati dalla struttura militarista delle organizzazioni terroriste e guerrigliere, dalla loro struttura di comando autocratica, dalla mancanza di democrazia interna e, soprattutto, dal fatto che esse funzionano al di fuori della classe lavoratrice, e indipendentemente da essa. Un vero partito rivoluzionario non si pone come un gruppo di autonominati salvatori delle masse, ma si sforza di dare un’espressione organizzata e cosciente al movimento degli stessi lavoratori. Solo il movimento cosciente del proletariato può portare alla trasformazione socialista della società.
Un settore del vecchio movimento della Zemlja i Volja tentò di resistere alla spinta terrorista, ma venne spazzato via. Il congresso di Voronez del giugno 1879 non riuscì ad arrestare la scissione, che ebbe luogo infine nell’ottobre di quell’anno con un accordo formale fra le due parti di sciogliere l’organizzazione. I fondi vennero divisi e si accordarono affinché nessuna delle due frazioni utilizzasse il vecchio nome. La frazione terrorista adottò il nome di Narodnaja Volja (la Volontà del Popolo), mentre i resti dei narodniki “di villaggio” della vecchia scuola presero il nome di Ciorny Peredel (Redistribuzione Nera), echeggiando la vecchia idea populista di una rivoluzione agraria. Da questa organizzazione, guidata da Plekhanov, sarebbero emerse le prime forze del marxismo russo.
PREMESSA :questo è un posto che ho visitato di persona,non se ne parla molto ma è il più grande centro di smistamento degli ebrei provenienti dai paesi slavi orientali come russia polonia ecc. venivano trattati in modo disumano una cosa proprio brutta!
LA STRAGE DEGLI INNOCENTI NELL'INFERNO NAZISTA DI TEREZIN
Il piccolo ebreo tiene il volto scarnificato dalla fame chino sui tasti della macchina per scrivere. Ad ogni battuta un lungo silennzio. Tende l'orecchio al tonfo degli stivali. Le SS pattugliano in continuazione il girone infernale di Terezin, la città-fortezza a sessanta chilometri da Praga che i nazisti hanno trasformato in un gigantesco ghetto. Petr Fischl, 14 anni, è stato deportato qui, da Praga, nel 1943, in dicembre. Dietro si è lasciato l'infanzia, la gioiosa ansia di un bambino che si prepara trepidante alla scoperta dell'adolescenza. Le sue dita battono con fatica sui tasti della sgangherata macchina. Scrive di sé e di migliaia di altri bambini che ancora non sanno di essere destinati all'orrore finale di Auschwitz. "... Siamo abituati a piantarci su lunghe file alle sette del mattino, a mezzogiorno e alle sette di sera, con la gavetta in pugno, per un po' di acqua tiepida dal sapore di sale o di caffè o, se va bene, per qualche patata. Ci siamo abituati a dormire senza letto, a salutare ogni uniforme scendendo dal marciapiede e risalendo poi sul marciapiede. Ci siamo abituati agli schiaffi senza motivo, alle botte, alle impiccagioni. Ci siamo abituati a vedere la gente morire nei propri escrementi, a veder salire in alto la monta gna delle casse da morto, a vedere i malati giacere nella loro sporcizia e i medici impotenti. Ci siamo abituati all arrivo periodico di un migliaio di infelici e alla corrispondente partenza di un altro migliaio di esseri ancora più infelici...". Anche Petr, dieci mesi dopo, partirà con un gruppo di questi infelici. Destinazione Auschwitz. L'orrendo microcosmo di Terezin funziona dal 1941 al 1945. I nazisti vi fanno affluire, dall'Europa occidentale e orientale, circa 150 mila ebrei: tutti quelli che abitano nel protettorato di Boemia e Moravia, governato dal Reichprotektor Reinhard Heydrich, gli ebrei anziani, gli invalidi di guerra, i decorati al valor militare della prima guerra mondiale, illustri personalità. Il loro piano prevede il trasferimento graduale degli abitanti del ghetto ai lager, ma per non rivelare il progetto di sterminio della comunità ebraica europea, la propaganda esibisce Terezin come un insediamento modello. Invece ben presto iniziano i trasferimenti nei campi e dall'ottobre del 1942 il punto di arrivo è sempre Auschwitz. Sono circa 140.000 gli ebrei di Terezin: 33.529 muoiono nel ghetto, 88.196 finiscono nelle camere a gas, soltanto 17.247 vengono liberati l'8 maggio 1945. Dei quindicimila ragazzi sotto i quindici anni che hanno soggiornato nell'antica fortezza cecoslovacca, appena un centinaio riesce a sopravvivere. In questo luogo tre sono i drammi che lacerano la mente, la carne e la dignita degli esseri umani che vi sono ingabbiati: la promiscuità, la miseria, la fame.
La promiscuità è difficile, se non impossibile, da evitare: su un area che ha contenuto in precedenza un massimo di settemila abitanti, nei momenti di massima concentrazione gli "organizzatori" nazisti stipano fino a 87 mila persone. Questa tecnica di ammassamento fa parte di una precisa finalità che si inserisce nel piano elaborato dai "tecnici della morte" allevati sotto l'ala di Hitler: l'estromissione degli ebrei dalla vita del Paese. Con l'isolamento e la piena disponibilità di controllo dei quantitativi globali di vettovagliamento, i tedeschi possono applicare agevolmente la loro politica di affamamento. Queste condizioni favoriscono un altro effetto tipico del ghetto e di tutti i concentramenti umani ad alto indice di affollamento: le epidemie. È la strage vera e propria. La gente, sfinita dalla fame, muore per le strade. I cadaveri, che vengono raccolti ogni mattina, diventano la componente normale di un paesaggio che sembra la rappresentazione di un delirante incubo notturno. L'altissima mortalità "naturale", aggiunta ai continui rastrellamenti per il fantomatico e misterioso viaggio all'Est di gente che poi non torna più, fa sì che ognuno sia familiarizzato con l'idea della morte, ossessivamente presente sia fisicamente che psicologicamente. Nessuno si sente mai al sicuro né dal contagio, né dalla morte per fame, né dalla deportazione verso l'ignoto. Questo era Terezin. Soltanto una piccola parte di quel gigantesco piano di sterminio - la shoà - nato dalla "psicopatologia di Httler e dal suo gruppo di sgherri. Il seme ispiratore di questo orrendo obiettivo lo si trova già nel "Mein Kampf" (La mia battaglia), folle bibbia del nazismo scritta in un rozzo tedesco dall'ex imbianchino austriaco fra il 1925 e il 1927. Da questo libro, indubbiamente la più feroce e sanquinaria teorizzazione dell antisemitismo, si scatena l'immenso massacro che cancella dalla faccia della terra oltre 6 milioni di ebrei, siano neonati, bambini, ragazzi, donne, vecchi.
Perché, nel "civile" XX secolo, questo atroce capitolo di storia? Perché "una nazione che, nell'era della soppressione delle razze, pensa ai migliori elementi della propria stirpe, deve essere un domani a padrona del mondo". Sono le ultime tre righe di "Mein Kampf". Dopo la tragedia, la lenta rimozione del ricordo, il silenzio. Ma bisogna "che il silenzio non sia silenzio" ammonisce Primo Levi - lo scrittore ebreo morto alcuni mesi orsono - che nel corpo e nello spirito portava gli indelebili segni incisi nel periodo di Auschwitz. Per rompere questo silenzio, che favorisce la formazione di focolai antisemiti con radice prenazista o nazista, pubblichiamo questa serie di testimonianze della vita del ghetto di Terezin raccolte clandestinamente fra il 1941 e il 1945. Fra i vari documenti, 77 disegni di bambini e di adulti che appartengono all'Associazione in ricordo dei martiri di Terezin "Beit Teresienstadt", ospite del kibbutz Givaat HaimIhud, in Israele, dove vivono superstiti del ghetto ed ebrei cecoslovacchi. Come fosse la vita a Terezin ce lo ha già descritto all'inizio Petr Fischl. Orrori di ogni genere, poi la morte. Eppure da questo inferno dove non esistevano materiali per dar vita a una qualsiasi forma espressiva, sono uscite poesia, disegni - persino un quadro a olio - composizioni musicali, commedie, spettacolini per cabaret. Nel ghetto, dove i prigionieri si autogestiscono sotto l'occhio degli aguzzini, il senso della dignità resiste al montare della degradazione. Nel futuro c'è quasi sicuramente la morte, ma gli adulti preparano quotidianamente i bambini alla vita. "Noi
Letti a castello in una abitazione esistiamo, viviamo e qui i nostri figli debbono sentire che li amiamo. Una casa non significa solo un tavolo, delle sedie e un armadio. Una casa significa amare". Karel Schwenk, uno dei più popolari "teatranti" del ghetto (verrà ucciso in un campo di sterminio polacco) scrive un inno, forse in assoluto la prima composizione artistica nata a Terezin, che nel testo finale dice: "Dove c'è una volontà, là c'è la vita. Prendiamoci per mano e un giorno rideremo sulle rovine del ghetto". Il compito che i "grandi" si sono prefissi è pesantissimo. Nel ghetto gli ostacoli più duri sono la paura e la fame. Il sogno di molti bambini è di andare nel piccolo ospedale, organizzato alla meno peggio, dove c'è un letto pulito, cibo mangiabile, la dolce assistenza delle infermiere. Sul foglio strappato da un quaderno un piccolo anonimo scrive una toccante poesia: "... quindici corpi che vogliono vivere qui / trenta occhi che cercano quiete / teste rasate che ricordano la galera... / Il cibo che danno qui è un vero lusso./ Troppo lunga è la notte per un giorno troppo breve. / Malgrado tutto non voglio abbandonare / questa stanza più grande, / la mia polmonite / e le infermiere, ombre vaganti / che aiutano i piccoli malati. / Vorrei restare qui, piccolo malato in questo luogo di visite mediche / finché non sarò guarito / a lungo, a lungo. / Poi vorrei vivere / e tornarmene a casa".
È sopravvissuto il piccolo anonimo? Difficile dire se ha avuto la fortuna di essere nel gruppo di quel centinaio di bambini che i nazisti non sono riusciti a "liquidare" essendo sopraggiunto nel 1945 il crollo del "grande Reich". Ma anche se la sua vita è stata breve e trascorsa nelle tenebre di Terezin, s'è salvato dall'abiezione e l'affetto degli adulti gli ha alleggerito certamente, e qualche volta fatto dimenticare, il peso di un'angoscia dalla quale ci si può difendere soltanto rifugiandosi nella follia. I bambini del ghetto sono al centro dell'attenzione degli adulti. La loro vita collettiva viene organizzata nelle baracche definite "case d'infanzia". Qui i gruppi di due-trecento vengono suddivisi per età e lingua in piccole comunità di quindici-quaranta elementi diretti da un educatore aiutato da alcuni assistenti. Un medico, un infermiere, un assistente sociale e uno staff ausiliario seguono la vita di ogni "casa d'infanzia". I "pedagogisti", scelti fra giovani insegnanti e studenti, operano senza tregua dopo le estenuanti ore di lavoro che debbono fare per i tedeschi. Nessuno di questi educatori ha una propria vita privata: alloggiano nella stessa baracca dei bambini per essere continuamente a loro disposizione. Per facilitare l'apprendimento riscrivono alcuni libri di testo a memoria. I bambini più piccoli sono sempre occupati come in un asilo: leggono, scrivono, ascoltano con attenzione le storie dei loro paesi e disegnano tutto ciò che vedono. L'attività ludica è l'unica permessa, perciò vengono inventati dei giochi per imparare tutte le materie. I bambini in età scolare redigono settimanalmente un giornalino scritto e illustrato a mano.
Esiste una parola d'ordine per segnalare l'arrivo di una delle tante ispezioni tedesche: quando risuona, al rumore ritmico degli stivaloni dei nazisti, ogni materiale d'insegnamento sparisce e lascia il posto ad attività ginniche e canzoni. Accanto al lavoro degli educatori, l'assistenza delle famiglie e delle singole donne che curano indistintamente bambini con genitori oppure orfani. Il ghetto di Terezin diventa paradossalmente un grande atelier per attività creative in tutti i settori: arti grafiche, musica, teatro, canto, poesia, letteratura di ogni genere, sia per i bambini sia per gli adulti. È un'attività ora clandestina ora tollerata, a seconda delle necessità propagandistiche dei nazisti. Nel 1942, ad esempio, viene dato inizio al programma di "abbellimento" della città che deve servire a dimostrare la "generosità" del Reich nei confronti degli ebrei: apertura di un caffè con orchestra, istituzione di un finto Tribunale del Ghetto e di una "Banca dell'autogoverno ebraico", puramente fittizia. Durante questo periodo arrivano 70.850 prigionieri provenienti dal protettorato di Boemia e Moravia, dalla Germania, dall'Austria e dai territori cechi occupati. Per mancanza di posto, 28 mila vengono avviati verso i campi di sterminio dell'Est: parte il primo "carico" per Auschwitz. Un episodio analogo accade nel maggio del 1944, quando la Croce Rossa danese chiede di visitare il ghetto: i nazisti diminuiscono l'affollamento mandando ad Auschwitz 2.780 ebrei giovani e abili al lavoro, per dimostrare che Terezin è un "luogo di riposo per anziani". Queste continue e larghe decimazioni sconvolgono ogni volta i gruppi d'inseghamento e coloro che sovrintendono alle attività creative: nella comunità di allievi ed educatori si aprono grandi vuoiti. Un altro esempio. Per un certo periodo i nazisti permettono le manifestazioni artistiche. Viene formato un coro e subito dopo nasce anche un'orchestra; tutti e due sono diretti da ottimi professionisti e composti da elementi di tutto rispetto. Pur senza azione scenica vengono rappresentate alcune opere liriche come "La sposa venduta" e "Il bacio" di Smetana, "Il flauto magico" e "Bastiano e Bastiana" di Mozart.
Anche in questo caso orchestra e coro si trovano privati improvvisamente di molti elementi, avviati verso i campi di sterminio. Ma la volontà fermissima di non lasciarsi uccidere spiritualmente vince anche l'idiota brutalità nazista. Hans Krasa, un valente musicista, compone un'operina per bambini intitolata "Brundibar". È l'unica opera lirica che può essere rappresentata in forma teatrale con scene e costumi. Lo scenografo Zelenka cura anche la regia realizzando un geniale allestimento con mezzi di fortuna. Gli adulti s'impegnano con entusiasmo nella preparazione di questo lavoro dedicato ai piccoli e interpretato totalmente da bambini-protagonisti e da bambini-coristi. L'operina viene replicata cinquantacinque volte. Il livello dello spettacolo è tanto elevato che da Berlino arriva una troupe cinematografica nazista per girare un documentario di propaganda. In quell'unica occasione "Brundibar" viene rappresentata in un teatro vero e proprio. Finite le riprese tutti i membri dell'orchestra, i collaboratori e i bambini che vi avevano partecipato vengono deportati ad Auschwitz. È possibile sopportare questo orrore? Karel Ancérl, che fa parte del gruppo dei musicisti, così scrive dei suoi compagni di Terezin: "Ho sperimentato che la potenza della musica è così grande da poter portare nel suo regno qualunque essere umano che possieda un cuore e una mente aperta, da rendere possibile sopportare le più terribili ore della propria esistenza". Ricordando la sua attività teatrale nel ghetto l'attrice Jana Sedova scriverà: "Be', difficilmente un attore potrà sperimentare un entusiamo pari a quello degli spettatori di Terezin. Qualcuno forse si chiederà: come si può parlare di fame di cultura in un luogo dove manca il pane? Invece di dilungarmi in spiegazioni, voglio raccontare un episodio. Nell'intervallo di una recita del "Matrimonio" di Gogol suonò la sirena che segnalava l'imminente partenza di un convoglio per Auschwitz. Nessuno, tra gli attori e il pubblico, sapeva se, tornando alla propria baracca, avrebbe trovato il foglio di via per il suo viaggio verso la morte. Gli organizzatori volevano sospendere lo spettacolo, ma il pubblico non lo permise e sacrificò il poco tempo per radunare l'essenziale, salutare gli amici e poi assistere, per l'ultima volta, a una recita teatrale. Questi spettacoli trasformavano una massa obnubilata dalle sofferenze in una comunità umana piena di entusiasmo e questa scintilla dava luce e calore per parecchi giorni. Sono convinta che questo fosse il dono più prezioso che il nostro teatro potesse fare al suo pubblico". Ecco. Dalla profondità del tempo la vergogna della shoà e l'orgoglio dello spirito, il concetto del male e il concetto del bene. I due volti dell'umanità dei quali i bambini di Terezin hanno fatto il ritratto nei loro disegni, nelle loro poesie: il volto della tragedia e quello della gioiosa speranza.
ecco il sommario dei saggi completo e aggiornato!!
Dal Partenone a Pataliputra (e ritorno)
Gli Assassini (origini e decadenza)
la bestia del Gevaudan
lo Zoroastrismo in persia
Catari o albigesi (XII - XIII - XIV secolo)
il manicheismo
la ascita della dea
le donne guerriere
la statua della vittoria viene tolta dal senato romano
Mithra :il rivale di Gesù
la battaglia di Breitenfeld
La Peste del 1348
La guerra dei 30 anni (1618-1648)
Le guerre di religione in Francia (1562-1598)
Elisabeth Bathory
Il regno di Zenobia tra storia e leggenda
Boadicea
Cleopatra
guerra delle comunicazioni difettose
il Graal e Re Artù a S. Nicola
L'enigma di Excalibur
Rennes Le Chateau: un paese al centro del mistero
"Rennes le Chateau II
La cappella di Rosslyn
storia dello Zoroastrismo dalle origini ai giorni nostri
I Cavalieri di Malta
La battaglia delle Termopili
Il Priorato di Sion
il meccanismo di Antikitera
l'esoterismo nazista
La Sacra Sindone
battaglia di costantinopoli
Costantino XI°
Basilio II, storia del distruttore dei Bulgari
I Templari e Bisanzio
Federico II° e l'islam
Giudicato d’Arborea
Napoleone Bonaparte
IL 29 maggio di 550 anni fa nelle strade di Costantinopoli
Giuliano l'Apostata
Maria Tudor, dramma di una “sanguinaria”
OLIVER CROMWELL :Il modesto nobile di campagna che si trasformò in guerriero per gettare le fondamenta del riformismo inglese
il fante bizantino medievale
Enrico VIII d'Inghilterra
Caterina d'Aragona
Anna Bolena
storia delle carte!
GIOVANNI DE' MEDICIL'ultimo "Capitano di Ventura"
Roma preda dei lanzichenecchi
FEDERICO II E L'ISLAM (approfondimento)
STORIA DELL'ARCO LUNGO INGLESE
Le comunità ebraiche pugliesi
La battaglia di Poitiers
I sistemi di tortura della Chiesa
La verità sull'Inquisizione spagnola
La tortura
Martin Luther
LA SECONDA GUERRA PUNICA (fu la prima guerra "mondiale e totale"della Storia?)
Giovanni Acuto e la Compagnia Bianca
ARDUINO, IL PRIMO RE D'ITALIA
Carlo V°
un embargo d'altri tempi: Luigi XI re di Francia e il ducato di Borgogna
l'abiura di Galileo.
LA FIGURA STORICA DI GESU'
Akhenaton:il faraone eretico
L'EGITTO
San Francesco e l'Oriente
Sri Ramakrishna e San Francesco d'Assisi
NICHOLAS FLAMEL
LUIGI XIV, IL RE SOLE
Tanti amori, una sola passione: Versailles
RASPUTIN GRIGORI santo o genio malvagio?
DON PEDRO e Ines de Castro un folle amore oltre la morte
L'esercito imperiale romano nel IV secolo: cambiamento e non declino
Le Serpent RougeLibriccino che in qualche modo è legato al mistero di Rennes-Le-Château.
COSTANTINO E IL CRISTIANESIMO
I MAGI verità provata dall'astronomia
HAN
SONG
YUAN
MING
JOHN MARTIN, il Giovanni Crisostomo Martino trombettiere italiano che salvò la pelle a Little Big Horn
IL MANICHEISMO
L’ARIANESIMO
ATTILA E LA SPADA DI DIO
El Siglo di penna e spada
Lo stato di Rus'
BATTAGLIA DI CANNE
LA DECOLONIZZAZIONE IN AFRICA.IL DRAMMA DI PATRICE LUMUMBA
DA SOLDATI A ARDITI DEL POPOLO CONTRO GLI SGHERRI FASCISTI
BATTAGLIA DELLA TREBBIA
Il genocidio degli indiani negli Usa del 1800.
I soldati blu offrirono un incontro di pace e...
CAPO "MANGAS COLORADAS"CREDETTE ALLA PAROLA DEGLI UOMINI BIANCHI.MASSACRATO A TRADIMENTO
Nel 1793 nobili e cattolici organizzarono una sanguinaria rivolta contro il governo repubblicano
LA CONTRORIVOLUZIONE DEI VANDEANI:MASSACRO IN NOME DI DIO
Alla fine della breve guerra i tribunali rivoluzionari condannarono a morte cinquemila ribelli
Lavrentij Beria:il grande satana dello stalinismo
TITO DICE NO A STALIN.COMINCIA IL CROLLODEL BLOCCO SOVIETICO
KIT CARSON, CAVALIERE SENZA MACCHIA E SENZA PAURA NEL SELVAGGIO WEST
BARBABLÙ,STORIA HORROR DEL 1400
La Carica della Brigata Leggera
CHURCHILL E L'INTERVENTO DELLE POTENZE OCCIDENTALI NELLA RUSSIA POSTRIVOLUZIONARIA
CON LA PRIMA REPUBBLICA ECCO LA COSTITUZIONE. E NASCE LA TERZA ITALIA
2 - Dopo lo scontro con Stalin il dittatore jugoslavo accetta la "corte" degli americani
TITO MUOVE GLI USA E DÀ SCACCO ALL’URSS
Lo scisma non trova imitatori nei Paesi del blocco sovietico. Almeno in quegli anni
E VENNE UN UOMO CHE DISTRUSSE L’IMPERO USANDO GLI ERRORI DELLO ZAR NICOLA
ZEMLJA I VOLJA
LA STRAGE DEGLI INNOCENTI NELL'INFERNO NAZISTA DI TEREZIN
visto che siamo a natale!
ORIGINE DEL NATALE
Come lo festeggiavano gli antichi
Nella Persia antica il solstizio invernale era celebrato cantando l'inno che narrava la nascita del mondo.
In Alessandria d'Egitto esso ebbe la sua più completa espressione, prima dell'era cristiana, nella grande festa del Natale di Horus.
Le statue della dea madre Iside, col piccolo in grembo o attaccato al seno, venivano portate in processione di notte verso i campi al lume delle torce.
Nella Roma pagana lo stesso significato avevano le feste d'inverno che si celebravano due o tre secoli prima della nascita di Cristo, note con il nome di Saturnali o feste di Saturno.
I Saturnali romani avevano inizio il giorno 19 dicembre e si prolungavano fino al successivo 25. Erano feste di gioia, di rinnovamento, di speranza per il futuro e in tale occasione si rinnovavano i contratti agrari.
Nel corso dell'ultimo cinquantennio precedente la nascita di Cristo fu introdotto a Roma il culto del Dio Sole, probabilmente diffuso dalle legioni reclutate in Siria e dagli schiavi orientali.
Come la festa pagana diventò cristiana
Il Cristianesimo inserì nelle proprie concezioni religiose tradizioni popolari preesistenti, e fu così che il giorno natalizio del dio solare e agricolo dell'Egitto e della Persia, cadente nel solstizio d'inverno, diventò il Natale cristiano: la statua di Iside che allatta Horus diventò quella della Madonna che allatta il sacro Bambino.
Non fu facile, però, utilizzare la data del 25 dicembre dal momento che il racconto evangelico di S.Luca, il più completo sull'argomento, narrando di pastori che passano la notte all'aperto, evocava piuttosto un ambiente primaverile, che non il freddo periodo invernale. Poi c'era la precedente tradizione cristiana che fissava la nascita di Cristo in un giorno di primavera: Clemente di Alessandria l'aveva stabilita il 19 aprile, altri padri della Chiesa il 18 aprile, altri ancora il 29 maggio e il 28 marzo.
Fu dopo molte discussioni ed esitazioni che i vescovi di Roma scelsero il 25 dicembre. La data fu ricavata calcolando gli anni di Cristo a ritroso, partendo cioè dalla cifra "magica" di 33, quanti sono gli anni che il figlio di Dio avrebbe trascorso sulla terra. Essendo stata fissata in precedenza la morte di Cristo al 25 marzo, presumendo dunque che essa fosse caduta 33 anni esatti dopo la sua incarnazione, che quindi veniva fissata anch'essa a un 25 marzo, la nascita non poteva essere avvenuta che nove mesi dopo la sua incarnazione nel ventre di Maria e precisamente il 25 dicembre.
Il Natale oggi
La festa della Natività di Gesù, il Natale, quale lo conosciamo oggi, è divenuta la maggior festa ufficiale della cristianità solo in tempo relativamente recente.
Le sue prime tracce come festività cristiana si incontrano solo intorno al terzo secolo dopo Cristo e il suo definitivo affermarsi solo a metà del quarto secolo.
L'osservanza della festa natalizia fu introdotta in Antiochia solo verso il 375 dopo Cristo e in Alessandria solo dopo il 430.
Così come viene vissuto e festeggiato oggi giorno, il Natale deriva dalle tradizioni borghesi del secolo scorso: abeti addobbati di luci, nastri e ninnoli (che in passato erano dolcetti); strenne; Babbi Natale con slitte e renne, sono tradizioni nordiche, protestanti che si sono mescolate ai nostri presepi cattolici.
Il Natale comprende un periodo di festeggiamenti ininterrotti che dal solstizio di inverno arrivano all'epifania.
Quest'ultima, che per la cristianità d'oriente è la data del Natale, è stata introdotta in occidente solo in un secondo tempo, con contenuti religiosi e valenze diverse sulle quali ha finito poi per prevalere il ricordo dell'offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme. In Italia si è sovrapposta a precedenti tradizioni popolari dalle quali è nata la figura della befana, che, metà mendicante metà strega, a cavallo della sua scopa, distribuisce doni (ma in origine erano poveri, come arance e frutta secca) attraverso i camini.
Questa è la storia del Natale. E' una storia bella, poetica, creata dagli uomini per far posto a un poco di speranza e di letizia anche nel cuore dell'inverno più duro, quando sembra che tutto sia morto e sterile e invece il seme comincia a germinare nella terra e ha inizio la rivoluzione delle stagioni e la rapida, felice corsa dei giorni verso la fioritura di primavera.
bel post gio! una storia che si può trovare facilmente ma che difficilmente è nota...
e peccato che manca la faccina del mozzarellone che si arrampica sugli specchi per questo pezzo:
Il Cristianesimo inserì nelle proprie concezioni religiose tradizioni popolari preesistenti, e fu così che il giorno natalizio del dio solare e agricolo dell'Egitto e della Persia, cadente nel solstizio d'inverno, diventò il Natale cristiano: la statua di Iside che allatta Horus diventò quella della Madonna che allatta il sacro Bambino.
Non fu facile, però, utilizzare la data del 25 dicembre dal momento che il racconto evangelico di S.Luca, il più completo sull'argomento, narrando di pastori che passano la notte all'aperto, evocava piuttosto un ambiente primaverile, che non il freddo periodo invernale. Poi c'era la precedente tradizione cristiana che fissava la nascita di Cristo in un giorno di primavera: Clemente di Alessandria l'aveva stabilita il 19 aprile, altri padri della Chiesa il 18 aprile, altri ancora il 29 maggio e il 28 marzo.
Fu dopo molte discussioni ed esitazioni che i vescovi di Roma scelsero il 25 dicembre. La data fu ricavata calcolando gli anni di Cristo a ritroso, partendo cioè dalla cifra "magica" di 33, quanti sono gli anni che il figlio di Dio avrebbe trascorso sulla terra. Essendo stata fissata in precedenza la morte di Cristo al 25 marzo, presumendo dunque che essa fosse caduta 33 anni esatti dopo la sua incarnazione, che quindi veniva fissata anch'essa a un 25 marzo, la nascita non poteva essere avvenuta che nove mesi dopo la sua incarnazione nel ventre di Maria e precisamente il 25 dicembre.
XDDDDDDDDDDDDDDDDDDDD già,è vero!!
un giro lunghissimo!!!!
L’Esercito Russo di Liberazione
L’Esercito Russo di Liberazione(ERL), detto anche Esercito di Vlasov, era un gruppo di forze Russe volontarie alleate con la Germania nazista durante la II Guerra Mondiale. L’ERL venne organizzato dall’ex generale dell’Armata Rossa Andrey Vlasov, colui che tre anni prima era stato il salvatore di Mosca, che tentò di unire tutti i Russi contro l’URSS. Tra i volontari c’erano prigionieri di guerra, lavoratori forzati dell’est(Ostarbeiters) ed emigrati Russi(Alcuni dei quali erano veterani dell’Armata Bianca anticomunista della guerra civile.
Vlasov era stato catturato dai Tedeschi nel Luglio 1942. Dopo sei mesi di prigionia aveva confessato ai suoi carcerieri che odiava Stalin e l’intero stato Bolscevico; “Datemi i vostri prigionieri”, gli aveva detto Vlasov, ”e insieme sconfiggeremo Stalin”. Come immaginava in quel momento di potersi poi liberare da una dittatura altrettanto malvagia non si sa. Ma l’idea era buona: avrebbe avuto 1,5 milioni di prigionieri di guerra pronti a combattere di nuovo. Se i nazisti avessero approvato l’idea allora, all’inizio del 1943, allora avrebbero avuto veramente una speranza di successo, nonostante la sconfitta a Stalingrado.
Ma fu solo troppo tardi che i tedeschi compresero pienamente questo potenziale sebbene fin dall’inizio della guerra lo avessero usato in qualche modo.
Alcuni mesi dopo l’invasione dell’URSS ai volontari russi che vennero arruolati nella Wehrmacht venne fatta portare l’insegna dell’ERL, un esercito che ancora non esisteva ma che veniva presentata come realtà dalla propaganda tedesca. Questi volontari(detti Hiwi, acronimo di Hilfswilliger, desideroso di aiutare), non erano sotto il comando o il controllo di Vlasov, erano esclusivamente sotto comando tedesco e svolgevano vari compiti: fare da guarnigione a città e villaggi contro i partigiani sovietici, autisti, medici, cucinieri, unità di salvataggio. Presto alcuni comandanti tedeschi iniziarono a formare piccole squadre armate, usate soprattutto contro i partigiani.
Hitler permetteva che l’idea di un Esercito Russo di Liberazione fosse usata per propaganda a patto che non fosse veramente permessa alcuna formazione di questo tipo. Come risultato alcuni soldati dell’Armata Rossa si arreso o disertarono nella speranza di unirsi a un esercito che non esisteva. Nel frattempo il generale Vlasov, insieme con i suoi alleati tedeschi e russi, stava vessando disperatamente l’alto comando tedesco, sperando che venisse dato il consenso alla creazione di una vera forza armata che sarebbe stata completamente sotto controllo russo. Lo staff di Hitler respinse ripetutamente con ostilità queste richieste, rifiutandosi anche solo di considerarle. Comunque Vlasov continuava a pensare che Hitler avrebbe capito la futilità di una continua guerra con l’URSS e gli avrebbe dato retta.
Quando Hitler venne informato sul gran numero di russi e altri ex cittadini sovietici nella Wehrmacht(stimati a circa 1 milione) si fece prendere dal panico. Dopo aver letto un rapporto errato che diceva che queste unità erano inaffidabili e si univano ai partigiani, Hitler ordinò il loro trasferimento sul fronte occidentale. Capendo l’effetto disastroso che ciò avrebbe avuto sul fronte orientale molti comandanti tedeschi presero contromisure per tenere i propri volontari russi. Ciononostante molti volontari russi vennero trasferiti e costretti combattere sul fronte occidentale. Alcuni di essi erano di guarnigione nella Francia settentrionale durante il D-Day, e senza nè equipaggiamento nè motivazioni per combattere contro gli Alleati, si arresero presto. Ci furono anche esempi di resistenza fino alla morte, causati da una mal concepita campagna di propaganda Alleata che prometteva proprio ciò che più temevano, il rimpatrio nell’URSS.
L’ERL non prese ufficialmente forma fino all’autunno del 1944 quando Heinrich Himmler persuase un riluttante Hitler a permettere la creazione di 10 divisioni dell’Esercito Russo di Liberazione. Il 14 novembre a Praga Vlasov lesse il Manifesto di Praga di fronte all’appena creata Commissione per la Liberazione dei Popoli Russi. Il documento metteva per iscritto gli scopi della battaglia contro Stalin, ed elencava i 14 scopi democratici per cui l’esercito combatteva. Le insistenze tedesche che il documento comprendesse retorica antisemita vennero respinte dal comitato di Vlasov; comunque, vennero obbligati ad includere una dichiarazione che criticava gli Alleati chiamandoli “Plutocrazie” e “alleati di Stalin nella conquista dell’Europa”.
Alla fine della guerra solo una divisione era stata completamente formata, sotto il comando del Generale Sergei Bunyachenko. Una seconda divisione era incompleta ma pronta a entrare in azione al comando del Generale Grigorii Meandrov. Una terza aveva appena iniziato a prendere forma.
Il primo e unico combattimento a cui l’Esercito Russo di Liberazione prese parte contro l’Armata Rossa fu sull’Oder l’11 aprile 1945, principalmente per l’insistenza di Himmler, come test per l’affidabilità dell’esercito. Dopo tre giorni la prima divisione, in inferiorità numerica, dovete ritirarsi. Non ci furono diserzioni a favore dei sovietici, anzi, 300 soldati dell’Armata Rossa si arresero durante la battaglia. Vlasov allora ordinò alla prima divisione di marciare verso Sud per concentrare insieme tutte le forze russe a lui fedeli. Come esercito, pensava, si sarebbero tutti potuti consegnare agli alleati a condizioni favorevoli(niente rimpatrio). Vlasov inviò diverse ambascerie segrete a trattare la resa con gli Alleati.
Durante la marcia verso Sud la prima divisione dell’ERL venne in aiuto dei partigiani cechi che stavano compiendo la Sollevazione di Praga, iniziata il 5 maggio 1945 contro l’occupazione tedesca. La loro rivolta contro i Nazisti era iniziata ma i lanci di armi pianificati con gli inglesi non erano stati compiuti e quindi i capi del Comitato di Liberazione si erano visti costretti a chiedere aiuto a Vlasov. Non sapevano che Stalin aveva fermato Churchill dato che il suo piano era lasciare che nazisti e partigiani si distruggessero fra loro. L’ERL ingaggiò battaglia con diverse divisioni SS che erano state inviate a radere al suolo la città. Le unità dell’ERL, armate con equipaggiamento pesante falciarono l’impetuoso assalto delle SS e, insieme con i partigiani, riuscirono a preservare la maggior parte di Praga dalla distruzione. A causa della maggioranza comunista nella nuova Rada ceca, la prima divisione dovette lasciare la città il giorno successivo e cercare di arrendersi alla Terza Armata americana del Generale Patton.
Dato che la fine della guerra era imminente l’ERL iniziò a cercare un contatto attivo con gli Alleati, sperando che avrebbero simpatizzato per i loro obiettivi, e li avrebbero considerati utili per una potenziale guerra con l’URSS.
Gli Alleati avevano però poco interesse nell’aiutare o proteggere l’ERL, in particolare quando questo aiuto li avesse messi contro l’URSS. Poco dopo Vlasov e la maggior parte dei suoi uomini vennero catturati dai sovietici o estradati dagli Alleati. Anche quei soldati che si erano arresi o erano fuggiti in aree controllate dagli Alleati vennero costretti al rimpatrio. La grande maggioranza di questi soldati venne inviata nei Gulag. Venne dichiarato che tutti i Vlasovtsy erano traditori. 10 anni di esilio ai campi di lavoro forzato in Siberia furono la pena più leggera.
Vlasov e diversi altri leader dell’ERL vennero processati e impiccati a Mosca il 3 agosto 1946.
Stalin si occupò affinché l’Esercito di Vlasov non comparisse mai sui libri di storia e pochi Cechi al giorno d’oggi sanno del loro contributo. Anche le piccole targhe nelle strade della città che ricordano i partigiani morti in quel punto non elencano gli uomini di Vlasov; a volte dicono semplicemente “.... e altri”. Quelli sono loro.
Per chi non lo conoscesse vorrei segnalarvi Cronologia, il più completo sito di storia italiano, una monumentale opera frutto degli sforzi encomiabili di un unico uomo, Franco Gonzato, autore delle oltre 600.000 pagine del sito.
davvero un gran bel sito infatti lo uso subito con un pezzo particolarmente interessante:
IMPERI E CIVILTÀ INVULNERABILI?
Come un inglese che nel 1919 sta seduto nella sua poltrona, nel suo club di Londra, convinto che ora che la Gran Bretagna ha vinto la grande guerra, l’Impero britannico continuerà a governare il mondo.
Chi avrebbe potuto dargli torto? Sconfitti i tedeschi, scomparsi i grandi imperi: il Reich tedesco, l’impero austro-ungarico, l’impero ottomano, l’impero russo, il solo impero transnazionale rimanente al mondo era quindi l’impero britannico. In più l’estensione territoriale dell’impero britannico anziché restringersi si era espansa, grazie all’acquisizione delle colonie tedesche in Asia, in Africa ed in Oceania. La sua sfera d’influenza si era ancor ingrandita a spese dei pochi resti dell’impero ottomano in medio oriente, la crisi indiana sembrava superata grazie agli sforzi fatti dagli indiani a favore della causa inglese.
Tutto “congiurava” per far intravedere all’impero britannico uno splendido e luminoso futuro.
Eppure non era così.
Ai nostri giorni la dissoluzione dell’impero britannico sembra quasi un fatto inevitabile, scontato. Eppure solo ottanta anni fa lo si sarebbe, si certo, potuto intuire, ma non sicuramente come qualcosa di concreto, di attuale.
Si trattava piuttosto di un’ idea, non certo ancora una realtà evidente per tutti. Anzi.
L’impero britannico credeva di essere immortale, e questo è un atteggiamento comune a tutti gli imperi e a tutte le grandi civiltà.
Al giorno d’oggi l’idea di immortalità connaturata alla civiltà occidentale trova conferma nell’idea di “progresso infinito”. Nella mentalità occidentale moderna la storia è divenuta essenzialmente la storia del progresso, e il progresso procede in maniera lineare attraverso i vari accadimenti del divenire umano, come l’ ascesa e il declino dei grandi imperi e delle grandi civiltà.
Questa mentalità è tipica in particolare della cultura nordamericana.
Eccone alcuni esempi: la letteratura popolare ed il cinema americani immaginano una possibile causa di un (eventuale) declino della loro “civiltà” solo cercandola fra ipotesi fantascientifiche o catastrofistiche. Dunque la identificano in qualcosa di estremamente improbabile, di assolutamente lontano nel tempo, come ad esempio la caduta di un meteorite che cancelli l’intera civiltà umana, una guerra termonucleare che distrugga il genere umano oppure l’invasione degli extraterrestri arrivati per sottomettere e schiavizzare l’umanità.
Tutti eventi, questi, che comunque non lascerebbero il governo del mondo ad una nuova potenza di questo mondo; gli americani non sembrano essere affatto preparati all’idea che la loro primazìa possa un giorno essere soppiantata da una nuova potenza più dinamica della loro.
Eppure non è così! Poche (o forse addirittura nessuna) civiltà sono mai state più vulnerabili e in condizioni più precarie di quella americana nei nostri tempi. L’economia di mercato liberistica, che impronta di sè pressoché ogni aspetto dell’american way of life è per definizione vulnerabile.
Il caso più manifesto fu ovviamente il crollo di Wall Street del ‘29, ma situazioni simili si sono riscontrate varie volte nel corso degli ultimi anni, non ultimo il fatto stesso che l’11 settembre Osama Ben Laden abbia scelto il World trade Center come principale obiettivo dell’attacco, il che è un chiaro segno del fatto che i nemici stessi dell’America vedono proprio in quella che per gli americani è la loro forza più grande, il loro più punto più esposto, la loro vera debolezza.
Una civiltà basata sulla produzione e lo scambio di merci a livello mondiale non può mantenere il controllo a livello globale senza mantenere costantemente una indiscussa superiorità economica su tutto il resto del mondo. Un simile sistema, però una volta che si, per così dire, “globalizza”, ovvero crea una rete di interdipendenze strettissime fra loro, corre il rischio di saltare: una piccola falla nel sistema, una crisi in una qualsiasi parte del mercato mondiale potrebbe portare l’America ad una crisi proprio nel cuore del suo sistema politico ed economico. La superiorità militare degli Usa, poi, altro non è che un’estensione della egemonia economica americana, egemonia che si manifesta nel modo più evidente nella costante corsa dei militari Usa verso la ricerca di sistemi di armamento sempre più avanzati e tecnologicamente sofisticati. Al punto che durante la guerra del Kosovo i militari americani si lamentavano del fatto che i loro alleati della Nato non sarebbero stai in grado nel giro di pochi anni di cooperare con le loro forze armate in quanto non sarebbero stati in grado, né all’altezza, di interagire con la loro tecnologia. E dunque: nel confronto con un esercito tanto più arretrato possedere un esercito tecnologicamente così sofisticato non offre, in realtà, pressoché alcun vantaggio, anzi.
Ad esempio, sostituire un carro armato Abrahams è decisamente più costoso e difficile rispetto alla sostituzione di un “vecchio” T72 sovietico, e, in particolare nel corso di una guerra a bassa intensità, su vasta scala e di lungo periodo le perdite di materiale potrebbero diventare economicamente insostenibili e tali da impedire, inoltre, un ricambio del personale, che, per poter utilizzare materiale tanto sofisticato, deve comunque essere altamente specializzato.
L’attuale esercito degli Stati Uniti è in sé un’arma davvero fenomenale, duttile e potente, in grado di sconfiggere sul campo su ogni terreno qualsiasi esercito al mondo; le sconfitte del passato sono state assimilate. L’America ha imparato a puntare su un altissimo grado di specializzazione. Dopo l’11 settembre ha rinunciato alla teoria delle “perdite zero” che aveva fatto fallire l’operazione “Restore Hope” in Somalia e che aveva causato tanti “effetti collaterali” fra la popolazione civile serba durante la guerra del Kosovo allo scopo di risparmiare le vite dei soldati americani.
L’esercito americano è strutturato allo scopo di combattere in fretta e vincere altrettanto in fretta qualsiasi guerra contro qualsiasi esercito. Il solo dubbio che ci si pone è se sia veramente in grado di sostenere una guerra di medio o lungo periodo. Il ricorso alla guardia nazionale per pacificare i territori occupati può essere efficace per brevi periodi ma su un lungo periodo porrà problemi sia di tipo economico sia di tipo politico, quindi in caso di una guerra prolungata nel tempo la struttura stessa dell’esercito Usa dovrà per forza cambiare per poter affrontare questo genere di sfida.
L’idea che il sistema occidentale sia destinato a durare, oltre che sulla superiorità militare americana, si basa anche sull’idea che la democrazia sia un valore di per se’, e che come tale abbia la capacità intrinseca di imporsi su sistemi politici diversi grazie alla sua superiorità morale.
Basterebbe solo leggere Hans Kelsen per notare il fatto che solo pochi decenni fa, prima dell’imporsi delle democrazie occidentali sulle grandi autocrazie europee, la discussione sulla superiorità del sistema democratico era ben lungi dall’essere risolta a favore della democrazia, e soprattutto è da notarsi il fatto che i sostenitori dell’autocrazia basavano le loro ragioni sia su una migliore governabilità di quel sistema, sia su una maggiore autorità morale intrinseca a quel sistema e causata dall’immagine quasi sacrale dei suoi capi.
L’esempio tipico portato dai sostenitori dell’ inferiorità del sistema democratico era la presentazione del Cristo al popolo ebraico e la scelta fatta da questo a favore di Barabba.
La tesi della superiorità del sistema autocratico era invece supportata dall’idea dell’infallibilità del capo, scelto non per volontà della maggioranza ma grazie alla sua stessa predestinazione e capacità di prendere il potere.
Paradossalmente i maggiori sostenitori del sistema democratico contemporanei, gli americani, basano la loro idea di superiorità del sistema democratico in sé su una sua superiorità data dalla maggiore autorità morale ad esso intrinseca, quasi una superiorità data da dei fattori di tipo religioso, quasi come se la democrazia fosse un dogma religioso e come tale partecipasse della verità rivelata da questa stessa religione; insomma le ragioni americane a sostegno della democrazia sono estremamente più simili alle ragioni a sostegno dell’autocrazia piuttosto che a quelle che Kelsen presentava a sostegno della democrazia stessa.
Questa tendenza a ritenere che la civiltà occidentale grazie al suo sviluppo tecnologico e grazie alla superiorità morale del sistema democratico ed anche grazie al fatto che le civiltà concorrenti sembrino volersi “occidentalizzare”, sia destinata a dominare il mondo per un tempo infinito.
Ma è così?
Non siamo forse noi stessi degli inglesi seduti in una poltrona in un club di Londra nel 1919?
La storia stessa ci dimostra che essa non è affatto lo svolgersi escatologico del progresso umano. A cominciare con le civiltà micenee, proseguendo lungo tutto il corso della storia umana, troviamo esempi di grandi imperi e di grandi civiltà che sono appassite o semplicemente scomparse causando nelle loro popolazioni un profondo regresso a volte semplicemente tecnologico, altre più generalmente culturale.
La scomparsa della civiltà maya ne è un esempio: i grandi costruttori delle piramidi mesoamericane svilupparono una rete di potenti città stato tecnologicamente avanzate che emerse, scomparve, riemerse e scomparse nuovamente; le invasioni di popoli vicini, problemi ecologici legati ad un errato sfruttamento delle risorse sono spiegazioni del come ed in parte del perché ma la realtà è che la civiltà maya non è veramente “scomparsa” ma è solo regredita. All’arrivo degli spagnoli infatti i maya erano ancora là; quello che mancava era solo una civiltà urbanizzata, ma il ricordo della cultura e della tecnologia maya era ancora vivo.
Esempi di questo genere sono molto comuni nelle Americhe precolombiane, in Africa e in Asia, ma anche nel Mediterraneo di epoca preclassica; un lettore occidentale potrebbe essere tentato dal sostenere che in una civiltà più avanzata ciò non sarebbe possibile e che l’esistenza di una estesa rete di comunicazioni fra le civiltà impedirebbe a queste di regredire a stadi tecnologicamente molto più arretrati.
Questa tesi è decisamente inefficace. Anche prescindendo dalla storia del crollo dei tre più grandi e durevoli imperi dell’antichità: l’impero romano, l’impero persiano-sassanide, l’impero cinese, si potrebbero citare i casi di due dei più estesi ed avanzati imperi del passato: l’impero arabo e l’impero ottomano; la loro rapida ascesa ed il loro improvviso ed eclatante declino. L’impero bizantino ai tempi di Eraclio I ne è forse un esempio, ancor più della caduta dell’impero romano d’occidente, l’imperatore che aveva non solo salvato l’impero nel momento più buio della sua storia fino a quel momento, ma aveva persino sconfitto ed umiliato Cosroe II, il peggior nemico dell’impero romano d’oriente, alla fine del suo regno non poté evitare che un popolo nomade proveniente dal deserto, un popolo privo della ruota, privo di una qualsiasi forza navale, nel corso di pochi anni gli portasse via la più gran parte del suo impero: la Siria, l’Egitto, tutto il nord Africa; e questo nel momento di suo massimo potere militare.
Noi abbiamo la tendenza a pensare ad un impero romano d’oriente aggressivo e strapotente prima dell’intervento arabo nel mondo occidentale, e passivo e sulla difensiva dal seicentoquaranta in poi. Non sono vere né la prima né la seconda affermazione. La maggiore organizzazione bizantina, sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista dell’organizzazione statuale, non era stata sufficiente da sola a sconfiggere i goti in Italia, e la reazione popolare ai greci, che si comportarono più da forze occupanti che da liberatori, aiutò Totila a resistere tenacemente ai bizantini ed indebolì l’impero esponendolo alle minacce dei longobardi in Italia prima e dei persiani di Cosroe II ad oriente poi. Dopo la grande avanzata araba del VII secolo e il primo assedio di Costantinopoli da parte dei musulmani, i bizantini non rimasero quasi mai passivi nei confronti degli arabi, più volte gli eserciti greci riconquistarono Damasco e persino Gerusalemme.
Quindi è evidente che né la superiorità militare né quella tecnologica o più generalmente culturale possono porre una civiltà od un impero al riparo dalle aggressioni militari o culturali da parte di culture tecnologicamente più arretrate o culturalmente meno avanzate.
L’impero bizantino di alcuni secoli dopo può essere un esempio ancor più chiaro quando nel 1071 Romano Diogene portava i bizantini alla più disastrosa sconfitta della loro storia contro un altro popolo di nomadi, dei barbari con una tecnologia che non poteva essere messa lontanamente a paragone con quella dei bizantini. Eppure essi furono sconfitti da un esercito meno numeroso, meno organizzato e peggio armato; l’esercito bizantino che, meno di cinquant’anni prima, al comando di Basilio II aveva spazzato la resistenza dei bulgari e riconquistato tutta la penisola balcanica, veniva sconfitto in una maniera irrimediabile da una forza all’epoca non ancora irresistibile e priva di basi.
Eraclio I alle porte di Ctesifonte di certo non avrebbe pensato che l’impero di Giustiniano durante la sua vita avrebbe perso non solo quasi tutte le conquiste fatte durante l’epoca di Giustiniano stesso ma persino tutta la mezzaluna fertile per non riuscire a riconquistarla mai più, quel grande imperatore e soldato della croce non avrebbe mai creduto in quel momento che, dopo aver riconquistato le reliquie della vera croce, avrebbe perso non solo la città di Gerusalemme, ma anche tutto quel nord Africa cristiano che nel corso di pochi secoli si sarebbe convertito per sempre ad una nuova fede.
Il Califfato di Bagdad, o impero arabo nella sua accezione più estesa, è stata certamente una delle civiltà più magnifiche della storia e forse quella, con la dovuta eccezione dell’impero mongolo, quella che ha avuto l’espansione più rapida; dopo i circa seicento anni che passarono dalla morte del profeta alla conquista di Baghdad per mano dei mongoli, però, la grande civiltà cominciò a regredire e a cedere il passo a culture più dinamiche (ma forse meno affascinanti) e che avranno un impatto sulle culture vicine meno dirompente di quella araba.
Come è possibile che la grande capitale di Harun Al Rashid, la città delle mille e una notte, il centro stesso della Umma, nel giro di pochi secoli sia diventata una città marginale, facilmente conquistata da dei barbari infedeli, come è possibile che l’erede di coloro che avevano governato la maggior parte del mondo dalle coste atlantiche della Spagna fino ai confini della Cina, venisse decapitato senza che ciò causasse pressoché alcuna reazione nel mondo?
Eppure un così magnifico impero è caduto; un impero che solo pochi secoli prima era il più dinamico e ben organizzato del mondo, il più tecnologicamente e culturalmente avanzato del mondo.
Se questo accadde ad alcuni se non a tutti i grandi imperi ed a molte delle grandi civiltà del passato che scomparvero o arretrarono a causa della loro incapacità di adattarsi a nuove realtà, perché ciò non dovrebbe accadere anche alla nostra?
Perché abbiamo mandato degli uomini sulla luna.
Perché le nostre armi ed i nostri eserciti sono così superiori a qualsiasi altro da non poter essere sconfitti in battaglia.
Perché siamo moralmente superiori a tutti i nostri oppositori.
Ma lo siamo?
È forse vero che i nostri eserciti sono invincibili?
La nostra tecnologia ci mette davvero al riparo da ogni possibilità di regredire?
Il semplice fatto di aver mandato un uomo sulla luna di per sé ci garantisce che ne manderemo un altro su marte?
Cosa ci fa credere che al fatto che se l’occidente ha sconfitto l’Urss non potrà mai essere sconfitto da nessuno?
Forse il solo fatto che siamo seduti in una comoda poltrona e che pensiamo di essere i padroni del mondo.
Abbiamo veramente la capacità di adattarci ad un mondo che forse non è come noi ce lo figuriamo?
E se non ci riusciremo la nostra civiltà si dimostrerà più solida di tutte quelle che dominarono il mondo prima di noi o un giorno le nostre città finiranno come la capitale di Harun Al Rashid, la splendida Baghdad delle mille e una notte, una delle più spettacolari capitali del passato oggi ridotta ad una città occupata ed umiliata?
Troppo poco e troppo di rado ci poniamo dubbi sulle reali capacità della nostra civiltà di affrontare le sfide che il mondo ci pone di fronte.
Non parlo di uno scontro di civiltà ma della semplice capacità di adattare le proprie strutture ad una realtà che a volte muta ad una velocità tale da non poter essere dominata da mentalità arroganti e supponenti che danno per scontato il fatto che ciò che è ora e ciò che è stato sarà per sempre, che vincere una sfida significhi essere imbattibile e che vincere una battaglia voglia dire vincere una guerra.
A volte neanche vincere una guerra vuol dire di aver veramente vinto una guerra.
Sic transit gloria mundi.