storia delle carte!
La Francia è il paese che ha dato alla luce il classico sistema di semi basato su Quadri, Cuori, Fiori e Picche, adottato in tutto il mondo. Ma lo stesso paese è anche patria dell'interessante stile francese, nato alla fine dell'800, detto portrait officiel. Un'altra varietà nata dalla precedente è lo stile belga-genovese, descritto più avanti.
Nelle carte francesi classiche ogni seme ha un asso, i valori dal 7 al 10, le tre comuni figure (fante, donna e re). Nelle edizioni moderne è stato aggiunto anche un jolly; ora il mazzo è dunque composto da 33 carte. Viene usato per il Belote, un gioco diffuso in Francia, ma anche all'estero; altri giochi tradizionali che richiederebbero questo mazzo, come Manille, Bésigue (o Bezique) e Piquet, non vengono quasi più praticati, o si sono estinti.
Gli indici sono in francese: V (Valet = fante), D (Dame = donna) e R (Roi = re). L'asso invece è indicato come numero 1. Gli indici erano del tutto assenti nelle edizioni più antiche (vedi illustrazione più avanti).
Alcuni dettagli grafici delle figure francesi sono distintivi. Una spessa riga diagonale nera con una fila di punti bianchi divide i personaggi nelle loro due metà. Un grosso simbolo del seme, parzialmente tagliato, è ripetuto accanto all'indice nell'angolo sinistro. In quello destro, invece, all'indice piccolo si sovrappone verticalmente l'elemento più curioso dello stile francese: il nome del personaggio, con cui ciascuna delle 12 figure è stato tradizionalmente identificato. Le lettere usate sono maiuscole, di colore nero per tutti e quattro i semi.
le figure mostrate qui in alto sono quelle di un'edizione prodotta da France Cartes (Francia)
figure
re ALEXANDRE,CHARLES ,DAVID ,CESAR
regine ARGINE ,JUDITH ,PALLAS ,RACHEL
jack LANCELOT ,LA HIRE, HOGIER, HECTOR
L'origine di questi nomi è affascinante, ma ancora largamente discussa. Alcuni di essi sono probabilmente riferiti a personaggi storici, mentre altri sono piuttosto anonimi.
Alexandre (re di Fiori) potrebbe essere Alessandro III, detto Magno (356-323 aC), famoso re macedone;
Charles (re di Cuori) potrebbe essere Carlomagno (742-814), re dei Franchi e, più tardi, imperatore romano d'occidente;
David (re di Picche) si riferisce probabilmente al secondo re d'Israele (secoli XI-X aC);
Cesar (re di Quadri) potrebbe essere il famoso generale e dittatore Giulio Cesare (100-44 aC);
Argine (regina di Fiori) ha un'origine oscura, che alcuni studiosi fanno semplicemente risalire all'anagramma del vocabolo latino Regina;
Judith (regina di Cuori) è probabilmente la leggendaria eroina ebrea che salvò il suo popolo dai Babilonesi, seducendo e poi uccidendo il comandante nemico Oloferne;
Pallas (regina di Picche) potrebbe riferirsi ad Atena, dea greca della guerra e della ragione (Minerva per i Romani), il cui altro nome era Pallade;
Rachel (regina di Quadri) sembra essere un altro personaggio biblico, una delle due mogli di Giacobbe, figlio di Abramo;
Lancelot (jack di Fiori) è quasi certamente il più famoso dei cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù;
Lahire (jack di Cuori) è un personaggio oscuro, sebbene fra i nomi famosi francesi del XVII secolo appaia quello di Laurent de La Hire (1606-1656, pittore) e quello di Philippe de Lahire (1640-1718, matematico e astronomo);
Hogier (jack di Picche) è un altro personaggio sconosciuto;
Hector (jack di Quadri) è probabile che sia il fratello di Lancillotto (un altro dei cavalieri di re Artù), piuttosto che l'antico eroe greco, figlio del re Priamo, dall'Iliade di Omero.
Qualche altra ipotesi circa i nomi viene fatta da Daf Tregear nella sua pagina Playing-cards Frequently Asked Questions.
La prima versione del portrait officiel era a testa singola, ma ben presto si trasformò nello stile a doppia testa usato a tutt'oggi.
Gli indici fecero la loro comparsa verso i primi del '900; in edizioni più vecchie (come quella a destra) le carte non avevano né numero né lettera che ne mostrasse il valore. Il fatto di essere elementi aggiuntivi spiega perché nelle edizioni moderne si trovano sovrapposti ai nomi delle figure.
Nel XIX secolo i mazzi francesi avevano un'altra caratteristica interessante: erano privi di bollo, al contrario di quanto avveniva nella maggior parte dei paesi europei, ma avevano un marchio in filigrana. La carta che il governo vendeva ufficialmente ai produttori, su cui poi venivano stampate le carte da gioco, aveva questo segno distintivo a riprova del pagamento della tassa.
portrait officiel senza indici, circa 1860-70 (produttore non indicato)
Non considerando il jolly (che è un soggetto extra, e comparve solo al volgere del XX secolo), la composizione del mazzo francese è la stessa che in quelli da Skat, di cui si parla nella galleria tedesca. In particolare, fra gli stili tedeschi il Berliner Bild (anche noto come Französisches Bild, quello più comune in Germania settentrionale) si avvicina ancora di più al mazzo usato in Francia, in quanto ha Cuori, Picche, Quadri e Fiori al posto dei più caratteristici semi tedeschi; lo stile delle figure, però, è diverso.
stile francese, edizione a 52 carte senza nomi (di Héron, Francia) Oltre alla suddetta versione classica, che alcuni produttori ora hanno in catalogo col nome di mazzo da Belote, lo stile francese esiste anche in versioni da 52 carte, per un uso più generale, e in questo caso i tipici nomi delle figure sono spesso assenti, configurando quasi un ibrido franco-belga (cfr. paragrafo successivo).
STILI BELGA E GENOVESE
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Nelle aree francofone del Belgio si gioca a carte con un mazzo molto simile a quello del paese vicino, che però presenta qualche differenza:
stile francese (a sinistra, di France Cartes),
e stile belga (Carta Mundi, Belgio)
i nomi dei personaggi delle figure non compaiono mai;
la riga diagonale che divide in due la figura non è mai punteggiata, ed è solitamente bianca;
il fante di Fiori ha un copricapo rosso (quello francese lo ha azzurro), e regge uno scudo triangolare, diviso in quattro quadranti con simboli araldici (di solito una torre, un leone rampante, una croce e un motivo a bande), mentre quello francese è ovale, con decorazioni esagonali e rotonde: un dettaglio degli scudi è raffigurato più in basso nella pagina;
tutti i personaggi delle figure belghe riempiono gli spazi bianchi leggermente di meno di quelli francesi (questi ultimi sono più "rotondi").
Questo stile è disponibile sia in versioni da 32 che da 52 carte; vi vengono aggiunti solitamente due jolly, che però nel primo caso possono anche essere uno solo, o nessuno, a seconda dell'edizione.
in alto, da sinistra: stile francese (Dal Negro, Italia) e stile belga (Carta Mundi, Belgio);
in basso: stile genovese (Dal Negro, Italia) e stile belga (Master De Lux, Turchia)
Nonostante le aree fiamminghe del Belgio non usino questo stile, preferendogli quello olandese (non ancora trattato in questo sito), è interessante notare che altri paesi, sia quelli legati alla cultura francese come la Tunisia, o il Marocco, quanto altri che hanno poca o nessuna relazione con la Francia, come quelli del sud-est europeo e del Medio Oriente (Turchia, Libano, Siria), hanno adottato lo stile belga, o comunque derivato da quello belga, in alternativa a quello internazionale.
In particolare, in Turchia queste carte sono divenute quasi lo stile standard, mantenendo gli indici francesi (V, D e R) sebbene i semi e le figure vengano chiamate localmente con nomi turchi (cfr. il glossario in fondo alla pagina).
in alto: stile belga, marca Master De Luxe, Turchia;
in basso: stile belga-genovese, di Biermans (Belgio) prodotto per
la Tunisia, 1950 c.ca: le edizioni nordafricane hanno spesso gli spigoli vivi
Genoese pattern, by Dal Negro (Italy) Un altro luogo dove lo stile belga ha attecchito, divenendo anche quello locale, è la città di Genova e dintorni. Infatti le figure delle carte Genovesi sono pressoché identiche a quelle dei mazzi francesi del XIX secolo, cioè senza gli indici.
Una piccola differenza è nello scudo che tiene in mano il fante di Fiori (una carta che funziona bene da indicatore di questi stili): la sua forma è più elaborata, avendo un margine superiore a punta e i lati concavi, come si vede qui in basso. I simboli che vi compaiono, comunque, sono praticamente gli stessi.
Ovviamente la regola di identificazione basata sullo scudo non tiene conto di eventuali ibridi, come l'esempio tunisino mostrato in precedenza, senza indici (il che farebbe pensare allo stile genovese), ma con uno scudo di tipo belga.
In quanto ai colori, nelle carte Genovesi la maggior parte dei dettagli che nel mazzo belga sono azzurri qui diventano verde scuro.
i diversi scudi del fante di Fiori:
stili francese (a sinistra), belga e genovese
in alto: Genovesi
(di Masenghini e Modiano, Italia)
in basso: stile belga
(marche Ken e Master De Lux, Turchia) Fra le carte regionali italiane, somiglianze significative con gli stili belga e francese si ritrovano anche nel mazzo usato in Piemonte (illustrazione in basso), che infatti si trova appena sopra Genova. In questo caso, però, alcuni ulteriori dettagli aumentano le suddette divergenze: non solo mancano gli indici, ma le figure sono sdoppiate orizzontalmente (non diagonalmente), e decorazioni a forma di ghirlanda avvolgono tre degli assi, o anche tutti e quattro, a seconda dell'edizione.
Qualche altro soggetto dalle carte Piemontesi lo si può vedere cliccando qui.
Inoltre, in alcune edizioni tutte le figure genovesi hanno la carnagione rosa o color carne, un particolare che non si ritrova mai nei tipici stili francese e belga (ad eccezione di un numero di mazzi piuttosto limitato, prodotto per i mercati d'oltreoceano).
In ultimo, in alcune versioni la linea di sdoppiamento delle figure di Genova non è più demarcata da una riga (come nell'esempio qui a sinistra).
Ancora oggi le carte Genovesi sono disponibili in tre diverse composizioni: una versione a 32 carte, simile al mazzo originale francese (ma senza jolly), una versione a 40 carte simile alla maggior parte degli altri mazzi regionali italiani, con valori dall'1 (asso) al 7 e tre figure, ancora una volta senza jolly, e una versione a 52 carte, stavolta con due jolly. L'edizione di Modiano da 52 viene prodotta tanto col nome di Genovesi che di Baccara (fra le due non vi è alcuna differenza distinguibile).
carte Piemontesi (di Modiano); si notino
lo sdoppiamento orizzontale e gli assi decorati
asso di Fiori francese, asso di Cuori genovese,
e assi di Cuori e di Quadri turchi Confrontando gli assi delle diverse varietà di cui si è detto finora, si scoprono altre differenze.
I mazzi francesi tradizionali hanno il nome o il logo del produttore sull'asso di Fiori, che è l'unico dei quattro ad avere una piccola corona di foglie intrecciate attorno al simbolo.
Gli assi dello stile belga sono semplici, in genere senza nome del produttore né altri dettagli decorativi. Anche le versioni turche hanno assi semplici, ma in alcune edizioni quelli di Cuori e di Quadri hanno il nome della marca (questo dettaglio, però, non è una costante).
Lo stile genovese invece ha il marchio di fabbrica sull'asso di Cuori, la carta che recava anche il bollo d'imposta; gli altri assi non hanno particolari elementi decorativi.
Lo stile nazionale è ancora così diffuso in Francia che anche alcuni mazzi con disegni di fantasia sono stati realizzati attenendosi allo schema delle carte tradizionali. L'esempio qui a destra mostra un'insolita versione a figura singola che l'artista Claude Weisbuch ha creato per Grimaud-France Cartes: gli indici "1" sono diventati gli "A" internazionali, e i segni dei semi sono stati ridisegnati, ma le dodici figure, a dispetto dello stile innovativo, hanno mantenuto i loro nomi storici.
GIOVANNI DE' MEDICI
L'ultimo "Capitano di Ventura"
Alla morte del papa Leone X dè Medici, in segno di lutto fa abbrunire le insegne, diventa così
GIOVANNI DALLE BANDE NERE
Nato a Forlì il 6 aprile 1498 da Giovanni dè Medici detto il (popolano), e da Caterina Sforza la signora guerriera di Forlì e Cesena, che aveva mostrato tutta la sua forza, nella vana lotta contro Cesare Borgia sulla rocca forlivese.
In onore dello zio duca di Milano aveva chiamato il figlio Ludovico, ma alla morte del (popolano) a ricordo di questo suo secondo marito, gli cambiò il nome in Giovanni.
Per tutto il tempo che Caterina fu prigioniera del Borgia a Castel S.Angelo, il piccolo Giovanni fu affidato alla sorellastra Bianca Riario e visse in un convento; riottenuta la libertà Caterina si ritirò con il figlio nella villa di Castello.
Nel 1509 la giovane Sforza mori e l'undicenne Giovanni, fu messo sotto la tutela del canonico Francesco Fortunati, e di Jacopo Salviati ricchissimo fiorentino, imparentato con i Medici come marito di Lucrezia, figlia del Magnifico.
Non fu facile per il Salviati controllare Giovanni, gli scappava da tutte le parti, andando in giro per Firenze o nel castello di Trebbio in Val Mugello, si mescolava con i fattori e i contadini e conduceva la loro vita, il buon Salviati riparava alle bravate del "signor Giovannino" facendo pesare tutta la sua influenza per impedire più gravi conseguenze.
Nel 1511 però non potè evitargli il bando da Firenze, per l'uccisione di un suo coetaneo in una lite tra bande di ragazzi, l'anno dopo i Medici tornarono a Firenze e decadde automaticamente il bando per Giovanni.
Il Salviati nominato ambasciatore a Roma nel 1513, pensò bene di portarselo appresso, sperando che cambiando città il ragazzo si sarebbe calmato.
Fu inutile, Giovanni si scatenò frequentando assiduamente i bassifondi di Roma, in di due mesi era ridotto l'ombra di se stesso perciò il Salviati lo riportò a Firenze, il tutore sperava molto nel papa suo cognato, Giuliano de Medici, fratello di Leone X e lo iscrisse nelle milizie pontificie.
Il papa lo chiamò a Roma per utilizzarlo come "poliziotto", e Giovanni vi accorse con entusiasmo; il 5 marzo 1516 al comando di cento cavalieri già lo vediamo nella prima guerra contro Urbino al seguito di Lorenzo dè Medici; in soli ventidue giorni Francesco Maria della Rovere è cacciato; per il giovane Giovanni fu un banco di prova importante, che servì prima di tutto a lui stesso, come capitano e riuscì a trasmettere agli uomini disciplina e obbedienza; militari che erano per lo più elementi indisciplinati, rozzi e individualisti.
Giovanni iniziò a porre le basi della sua compagnia, la voleva compatta, disciplinata nella struttura offensiva, ed uniforme nell'abbigliamento; in quella circostanza si rese conto che stava terminando il tempo della cavalleria pesante, e per la sua compagnia usò cavalli piccoli e leggeri, preferibilmente turchi o berberi con cui si destreggiava nelle imboscate; addestrò i suoi uomini, li divise in drappelli abituati ad una gran mobilità, che rimase la sua arma migliore.
Chiunque entrava nelle bande di Giovanni, veniva da lui medesimo esercitato nell'uso delle armi, e nelle evoluzioni a cavallo, i gradi erano dati al merito sul campo, i vili e i traditori banditi dall'accampamento, e sovente condannati a morte.
Sposò la figlia del Salviati, Maria ed ebbe un figlio di nome COSIMO, destinato un giorno a governare Firenze come primo Granduca.
Nel 1520 lo troviamo nelle Marche, per domare i diversi signorotti ribelli, tra i quali Ludovico Uffreducci che sconfisse ed uccise in battaglia a Falerone.
Nell'estate del 1521 è guerra grande, il papa Leone X si allea con Carlo V, contro Francesco I per rimettere gli Sforza a Milano e conquistare Parma e Piacenza; Giovanni è agli ordini di Prospero Colonna, comanda "le lance spezzate".
A Vaprio nel novembre mette in mostra tutto il suo valore.
Bisogna attraversare l'Adda in piena difeso dai francesi, Giovanni arriva al galoppo con le sue bande, si getta nella corrente seguito da duecento dei suoi, risale l'altra sponda, attacca i francesi e li mette in fuga, pochi giorni dopo cadono Pavia, Milano, Parma e Piacenza.
Il primo dicembre muore Leone X, Giovanni per manifestare il proprio dolore fa abbrunare le insegne fino allora a righe bianche e viola, diventa così Giovanni dalle Bande Nere.
I francesi prossimi ad una nuova campagna contro gli imperiali, gli promettono le terre d'Imola e Forlì che furono di sua madre, e lui accetta.
Il 30 marzo del 1522 passa il Po, e si mette agli ordini del Lutrec che con 32.000 uomini non dovrebbe avere problemi contro i 19.000 del Colonna, invece alla Bicocca è il trionfo degli archibugeri, nella mischia Giovanni, resta ferito ad un braccio e si ritira a Cremona, circondata subito dagli imperiali, con lui è il maresciallo Lescun detto "lo Scudo" che stipula con il Colonna, una trattativa sottobanco per una resa a fine giugno, Giovanni s'indegna per il fatto, ma il maresciallo paga la Bande e queste lasciano Cremona.
In agosto è di nuovo guerra, e Giovanni accorre al soldo degli imperiali, nel gennaio del 1524 sorprende il Baiardo nel sonno e lo costringe a scappare in camicia, facendo prigionieri oltre trecento soldati; ma lo scontro più importante è con i 5.000 Svizzeri calati dalla Valtellina in aiuto dei Francesi, Giovanni li ferma a Caprino Bergamasco, il mese dopo l'armata francese ripassa le Alpi e abbandona l'impresa.
Nel frattempo a Roma è eletto un nuovo papa Medici, Clemente VII cugino di sua madre Caterina; il nuovo pontefice paga tutti i debiti di Giovanni, ma in cambio deve passare con i Francesi, e questo accade nel 1524 quando Francesco I ritorna in Lombardia e si schiera sotto Pavia, è il preludio della famosa battaglia e della cattura del re francese.
Le Bande non saranno presenti allo scontro decisivo; in una scaramuccia il 18 febbraio 1525 Giovanni è ferito ad una coscia da un'archibugiata e deve farsi trasportare a Piacenza per essere medicato, le Bande Nere in parte lo seguono, in parte si sciolgono, la ferita è molto seria e Giovanni deve recarsi ad Abano per curarla e di lì a Venezia.
Qui si presenta forse la più grand'occasione della sua vita, mettersi al servizio della Serenissima, ma per un tipo ribelle come lui non è consigliabile, si cava d'impaccio con una frase spiritosa: "Nè a me si conviene per esser io troppo giovane, nè ad essa perchè troppo attempata".
Con il nuovo anno Franceso I torna libero e a Cognac nel maggio, nasce la nuova lega contro l'impero, il papa si schiera con il re francese, e Giovanni è chiamato ai suoi doveri militari; gli è affidato il comando delle truppe pontificie, con un regolare contratto di 2.500 ducati d'oro, il capitano generale è Francesco della Rovere, il 6 luglio indeciso su cosa fare di fronte alle soverchianti forze imperiali, abbandona Milano e si ritira a Marignano.
Giovanni con i suoi novecento cavalieri rifiuta di ritirarsi di notte, gli sembrava una fuga davanti al nemico, come scrisse il Lomonaco ("riordinate le Bande come per una parata, chiamando a gran voce gli altri capitani e ripetendo ai nemici: "chi ci caccia", si ritirò lentamente senza che nessuno avesse l'ardire di molestarlo").
Nel novembre dello stesso anno un'orda di Lanzichenecchi guidati da Georg von Frundsberg calò in Lombardia in appoggio degli imperiali, sarebbero arrivati fino a Roma per un saccheggio rimasto famoso.
Giovanni ebbe il coraggio di attaccare la retroguardia, presso Governolo alla confluenza del Mincio col Po, era in condizioni svantaggiose ma vinse, la sua ormai raffinata tecnica di guerriglia gli procurò il soprannome di "Gran Diavolo" da parte dei Tedeschi.
La sera del 25 novembre, un colpo di falconetto colpì Giovanni allo stinco fracassandoglielo di netto, fu subito trasportato al paese più vicino S. Nicolò Po, si cerca un medico che non si trova, in una tormenta di neve è trasportato a Mantova, si rintraccia lo stesso chirurgo che ha già curato Giovanni la prima volta ad Abano, bisogna amputare la gamba.
Il medico chiede che una decina d'uomini tengano fermo Giovanni.
Sono le sue ultime ore, descritte dall'amico Pietro Aretino testimone oculare, in una lettera a Francesco Albizi scrisse: "Neanco venti disse sorridendo Giovanni mi terrebbero, presa la candela in mano, nel far lume a se medesimo, io me ne fuggi, e serratemi l'orecchie sentii due voci sole, e poi chiamarmi, e giunto a lui mi dice: io sono guarito, e voltandosi per tutto ne faceva una gran festa".
Ma la cancrena era inarrestabile e nel giro di quattro giorni fu la fine, non volle morire con tutte le bende addosso, se ne liberò e si fece distendere su un lettino da campo, dove spirò la notte tra il 29 e il 30 novembre 1526.
Fu sepolto tutto armato nella chiesa di S. Francesco.
Giovanni dalle Bande Nere, fu un condottiero che idealmente ci riporta alle origini della "ventura", le sue armi furono: l'astuzia, il tranello e l'imboscata, nato per la guerriglia.
Comandante non d'eserciti ma di bande, anche se regolarmente disciplinate, temerario nell'azione fulminea come lo furono i primi uomini d'arme.
In questo senso Giovanni va considerato l'ultimo uomo di ventura.
Roma preda dei lanzichenecchi
La prima metà del Cinquecento è segnata dallo scontro tra le grandi potenze europee per la conquista della supremazia. Con l'acquisizione dei domini spagnoli, l'immenso impero di Carlo V è diventato un pericolo per la Francia, che ne è accerchiata. Per proseguire la lotta, dopo la sconfitta di Pavia, Francesco I forma un'alleanza con una serie di stati minori, come Venezia, Firenze e lo Stato della Chiesa. Quest'ultimo subisce le conseguenze più gravi: le truppe mercenarie imperiali dei lanzichenecchi puntano su Roma, con la prospettiva di un bottino favoloso, devastando tutto ciò che incontrano sul loro cammino. Il saccheggio della città e l'assedio al pontefice (Clemente VII, cioè Giulio de' Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico) asserragliato in Castel Sant'Angelo, si concluderanno solo otto mesi dopo, quando lo scatenarsi di un'epidemia di peste costringerà le truppe imperiali ad abbandonare la città.
Benché annunciata per tempo da molti segnali, la sciagura colse Roma impreparata, nondimeno bisogna pur dire che nessuno poteva immaginarla così terribile. Quando i lanzichenecchi arrivarono sulla sommità di Monte Mario, il conestabile di Borbone li arringò: "Se mai vi è capitato di pensare al saccheggio di una città per guadagnare ricchezze e tesori, eccovela! È la più ricca: la signora del mondo". Quei 30.000 uomini stanchi, laceri, affamati e pieni di livore guardarono Roma ai loro piedi immersa nel pulviscolo d'oro del tramonto. E continuarono a guardarla mentre improvvisavano un accampamento sulle colline tra Monte Mario e il Gianicolo.
Secondo gli storici Roma contava, in quella primavera del 1527, circa 90.000 abitanti e soltanto pochissimi fortunati avevano avuto la fortuna di fuggire, giacché il papa aveva ordinato che tutti restassero al loro posto. Chi aveva denari e suppellettili preziose cercò di nasconderle, chi aveva ragazze in casa cercò un convento per metterle al sicuro; gli ottimisti si barricarono in casa e qualcuno raccolse perfino delle "milizie" nell'intenzione di potersi difendere. All'alba del 6 maggio l'esercito imperiale si mosse a ranghi serrati, protetto dalla nebbia. L'attacco principale fu quello dei lanzichenecchi di Corrado di Bemelberg, contro la Porta Torrione, più o meno dov'è oggi il Largo Cavalleggeri, mentre reparti di spagnoli e di italiani attaccarono a Porta Santo Spirito e altri a Trastevere. Il primo urto fu respinto: i lanzichenecchi che riuscirono a raggiungere gli spalti furono ributtati di sotto, nel fossato, mentre i difensori rovesciavano le scale a mano a mano che venivano appoggiate alle mura.
Intervenne personalmente il Borbone che riportò ordine nell'attacco spedendo i lanzichenecchi a Porta Santo Spirito e facendo accorrere alla Porta Torrione spagnoli e italiani. L'assalto si rivelò più difficile del previsto e il connestabile, nell'intento di animare gli uomini, scese da cavallo e volle personalmente salire su una scala, esortando i suoi a seguirlo. Un colpo d'archibugio gli squarciò il basso ventre e lo fece precipitare. Dall'alto delle mura lo riconobbero perché era coperto da una cotta ricamata d'argento, ma non udirono quello che ebbe il tempo di mormorare quando i suoi lo soccorsero: "Ah, Notre Dame, je suis mort!".
I difensori di Roma, per il momento, avevano la meglio ma sapevano di non poter resistere a lungo a quei diavoli scatenati. E appena una pattuglia nemica riuscì a insinuarsi dentro le mura attraverso la finestra di una cantina del cardinale Armellini, malamente ricoperta di terra e di letame, furono presi dallo scoramento. Lo stesso Renzo di Ceri, il loro comandante, invece di provvedere a tamponare la falla, provocò il panico tra i suoi gridando, poco eroicamente: "Ecco il nemico, si salvi chi può", quindi se la dette a gambe per rifugiarsi, chissà perché, in Campidoglio. Gli uomini che si battevano sulle mura abbandonarono gradualmente il loro posto e fu soltanto per questo, anche se le fonti tedesche non condividono tale versione, che gli assalitori ebbero così rapidamente la meglio. Lo sfacelo avvenne talmente in fretta che il papa stesso udì le grida degli invasori mentre era nel palazzo apostolico: già si stava combattendo in piazza San Pietro. Clemente VII era deciso a farsi trovare davanti all'altare: se doveva morire sarebbe morto come un martire, ma i monsignori di curia e i cardinali lo costrinsero a mettersi in salvo, trascinandolo via. Già si stava sparando nei pressi del corridoio che porta a Castel Sant'Angelo e se si fosse indugiato ancora non si sarebbe fatto in tempo a mettersi in qualche modo al sicuro. Si presero in fretta e furia dei viveri e ci si avviò quasi correndo verso la fortezza sulla riva del Tevere. Perché i lanzichenecchi non vedessero la bianca tonaca del Santo Padre mentre percorreva il corridoio, un vescovo si tolse il mantello paonazzo e lo gettò sulle spalle di Clemente VII.
A quel punto Castel Sant'Angelo era già affollato e vi regnava un'indescrivibile confusione. Nondimeno prima di sera non meno di tremila persone vi si sarebbero asserragliate, oltre ai cardinali e alla corte papale. Ci si rese conto che non c'erano né viveri né munizioni e si dovette provvedere alla meglio saccheggiando alcune case e alcuni magazzini più a portata di mano. Una vera folla tumultuava per entrare: gentiluomini, dame, mercanti: il cardinale Pucci riuscì a entrare perché un domestico lo infilò da una finestra; era mezzo morto per i colpi ricevuti. Il cardinale Armellini ce la fece soltanto perché lo issarono con una cesta: la porta era già stata sbarrata. Roma era nelle mani degli invasori, decisi a infliggere una lezione memorabile alla città corrotta, come avevano predicato i luterani. Avrebbe scritto nel proprio diario un ufficiale dei lanzichenecchi: "Poiché nessun cittadino riesce a fuggire... giovane o vecchio, povero o ricco che sia, tutti, a eccezione dei morti, vengono fatti prigioni per via di tormenti, quand'è il caso, obbligati a pagare il loro riscatto e, col riscatto, la colpa di essersi smenticatti di Dio. Così noi castighiamo quelli che hanno fallato e per l'avvenire ardiranno fallare". Alla fine, quando la peste indusse finalmente l'esercito imperiale a lasciare la città, Roma era irriconoscibile. C'erano, ormai meno di 30.000 superstiti.
mink*a.....bello è possibile sapere qualcosa di +???
FEDERICO II E L'ISLAM (approfondimento)
Negli anni che vanno da 1224 al 1300, in Puglia, a pochi chilometri da Foggia, la città di Lucera, posta su un colle alto circa 240 metri, fu abitata esclusivamente da saraceni, a seguito della loro deportazione dalla Sicilia, in particolare dalla città di Noto nella quale scoppiò una sanguinosa rivolta a causa della eccessiva rigidità (secondo i saraceni, ovviamente) della politica interna dell'Imperatore Federico II di Svevia (1194-1250). Lo scopo dichiarato di questa operazione era quello di pacificare l'isola e di impedire le continue rivolte dei musulmani che vi abitavano da centinaia di anni.
Si può stimare che siano stati trasferiti, a più riprese, tra le quindicimila e le ventimila persone. Cacciati il vescovo e i pochi cristiani, Lucera divenne tutta saracena. Federico preferì non intromettersi nell'amministrazione della città, pur pretendendo il pagamento di un "testatico" (tassa individuale). I suoi nuovi abitanti ebbero la facoltà di conservare la loro religione e di vivere secondo le loro usanze. Fu costruito un grande castello e un palazzo imponente nel quale, come hanno rilevato gli scavi, vi si doveva condurre una vita fastosa. I musulmani avevano un capo proprio, il caid, con propri organi di vigilanza, coi loro sheikh (anziani) e fakih, una sorta di esperti di diritto o giudici. Alla comunità islamica fu concesso di autogovernarsi secondo la legge coranica. Le loro moschee e i loro minareti si vedevano da lontano. Finché regnarono gli Svevi, i saraceni non ebbero motivo di lagnarsi della tolleranza loro accordata. Nel 1261, all'epoca di Manfredi figlio di Federico, Gamal ad-Din, un inviato del sultano d'Egitto in visita all'Italia meridionale poteva infatti scrivere al suo signore: "Presso il paese nel quale io soggiornavo, è una città chiamata Lugarah, gli abitanti della quale sono tutti musulmani di Sicilia, e quivi si fa la pubblica preghiera del venerdì e si compiono pubblicamente i riti dell'islamismo".
La cosa aveva chiaramente anche un "secondo fine" (stiamo parlando di Federico II, del resto...): insieme a suo figlio, Manfredi, erano in grado di arruolare a Lucera migliaia di saraceni, la maggior parte dei quali erano arcieri, naturalmente armati con corti archi compositi di tipo arabo. Questi costituivano il nerbo e il nucleo permanente dell'esercito imperiale. Inoltre Federico utilizzava i migliori di questi, che lo chiamavano sultano, come guardia del corpo, e se li portava con sé in tutti i suoi spostamenti.
Questa roccaforte e colonia militare, alle dirette dipendenze del sovrano, era in grado di fornire una fanteria leggera, armata solo d'arco e di corta spada o coltellaccio, atta quindi a tener dietro alla cavalleria e a seguirne gli spostamenti.
Praticamente, Federico anticipava di sessant'anni, dal punto di vista tattico, l'esperimento d'Edoardo I d'Inghilterra alla battaglia di Falkirk nel 1298, il quale alle compatte masse scozzesi doveva contrapporre l'azione degli arcieri inglesi dapprima, lasciando poi alla cavalleria il compito di completare la disfatta delle falangi avversarie già scosse e disorientate.
Questi agricoltori potevano in ogni momento impugnare le armi da loro stessi costruite, archi e frecce. Sarebbero stati fanti o anche, considerata l'eccellenza delle loro scuderie, cavalleggeri. Queste truppe erano indifferenti alla scomunica del Papa e ubbidivano solo all'Imperatore il quale riuscì prodigiosamente a mutare in breve il selvaggio odio dei vinti nella fanatica fedeltà verso il vincitore propria degli orientali che servivano da schiavi il loro signore e protettore. Federico II aveva nei suoi saraceni una cosa che mancava a qualsiasi altro signore del tempo: un esercito stabile, truppe sempre pronte a prendere le armi, ciecamente fedeli a lui in quanto protettore della fede musulmana. Questo era un motivo in più per legare i saraceni a Federico; sradicati, soli in un paese straniero, in lui solo trovava protezione la loro fede. Ed era un legame che Federico, saggiamente, si guardò bene dal rompere; difatti non desiderava per nulla la loro conversione, e solo per brevissimo tempo, essendo i rapporti col papa divenuti molto tesi, permise di malavoglia a una missione di frati minori di recarsi a Lucera. Federico non mosse un dito per agevolare la loro opera di conversione la quale, in un'atmosfera d'indifferenza, rimase priva di frutti.
I vantaggi che ebbe da tale esercito non furano affatto trascurabili:
-nel 1236 a Cortenuova, a oriente di Treviglio, Federico sconfigge i lombardi riuniti in Lega alla testa del suo esercito feudale germanico, al quale vennero aggiunti mercenari tedeschi, 500 cavalieri pugliesi e 7000 saraceni. La presenza nella sua armata di mercenari saraceni era ingente, e fra di essi gli arcieri dovevano essere in numero superiore al consueto per un esercito dell'epoca, tanto che i cronisti coevi parlarono di loro come se fossero tutti arcieri, cosa in realtà poco verosimile. Secondo Parisio da Cereta infatti "... il 14 settembre si raccolsero nel distretto mantovano settemila arcieri saraceni mandati dalla Puglia in aiuto del signor imperatore." A Cortenuova l'assenza della cavalleria lombarda permise a Federico una mossa vincente e che sembrerebbe costituire un'innovazione tattica: fece intervenire gli arcieri saraceni i quali, tuttavia, trovandosi alla retroguardia ed essendo in buona parte appiedati, poterono entrare in azione solo poco prima del tramonto. Comunque le loro frecce incominciarono a grandinare fitte, e non certo a vuoto, sui ranghi serrati dei guelfi. Il numero dei saraceni che presero parte alla battaglia di Cortenuova è controverso. Si direbbe comunque che la maggior parte di essi fossero effettivamente arcieri, anche se l'unica testimonianza in proposito si trova in una lettera del cancelliere imperiale Pier delle Vigne. Dando notizia del combattimento, il latinista di corte rammenta infatti, nel suo stile fiorito che "i saraceni vuotarono le loro faretre", confermando in tal modo che l'arco era la loro arma tipica e più usata. Da notare viceversa la scarsezza, se non la totale assenza, in campo guelfo, di tiratori che avrebbero potuto contrastarli, sebbene sull'efficienza dei saraceni si discuta ancor oggi;
-nel 1237 Federico assegnò 300 arcieri saraceni al suo genero, il feroce signore di Padova Ezzelino da Romano il quale, portando la guerra contro i guelfi del Veneto, il 23 marzo prese il castello di Montagnone con "padovani, tedeschi, pugliesi, saraceni e certuni dei suoi che aveva portato con sé dal Pedemonte (la zona di Bassano del Grappa)" tanto che, a prestar fede a un cronista dell'epoca, "riempì quasi tutta la Marca (Trevigiana) di tedeschi, saraceni e pugliesi." Ad eccezione del loro intervento nella presa di Montagnone, tuttavia, sembra che i saraceni venissero impiegati in compiti difensivi: a Padova Ezzelino li dispose "in castelli e nelle porte cittadine e altrove, come gli parve meglio"; nei tre anni successivi li si trova infatti a presidiare, divisi in gruppetti di dieci-dodici, i castelli di Este, Montagnone, Lozzo, Cerro, Montecchio Maggiore, Monterosso e Concadalbero;
-nel 1248 li troviamo a Parma; sono 4000 e si battono furiosamente incutendo terrore per la ferocia dei loro saccheggi. Pare tuttavia che i saraceni avessero un grave difetto: un'indisciplina superiore persino ai livelli, già alti, consueti negli eserciti del Medioevo. Avidi di bottino (ma i cristiani non erano certo da meno), con alle spalle una tradizione di irriducibili predoni che alimentava una "cultura della rapina", questi uomini non dovevano essere una truppa facile da gestire. Il loro modo di combattere, audace ma estemporaneo e spesso disordinato, fu pagato a caro prezzo nel disastro di Parma (18 febbraio 1248), anche se la responsabilità della sconfitta andrebbe probabilmente imputata anche alla leggerezza dell'imperatore stesso che si era assentato dal campo di Vittoria per dedicarsi al suo svago preferito, la caccia coi rapaci.
In definitiva, versarono il loro sangue per l'imperatore e per la sua famiglia un po’ dappertutto: in Siria, in Lombardia, in Umbria, nelle Marche, negli Abruzzi, nella campagna romana.
Morto e sepolto Federico II a Castelfiorentino, tra l'altro a pochi km da Lucera (in agro di San Severo mia città natale ) suo figlio Manfredi continuò a utilizzare i saraceni di Lucera.
Prediligeva questa città forse ancora di più di suo padre avendovi a lungo soggiornato nell'adolescenza e nella giovinezza; veniva chiamato il "Sultano di Lucera".
La popolazione tutta, ma in modo particolare le compagnie dei suoi arcieri, gli si affezionarono moltissimo e si batterono sempre con lui sino al limite estremo.
Nel 1266 invano qualche migliaio di saraceni si sacrificò sul passo di San Germano, presso Cassino, per impedire a Carlo I d'Angiò di entrare nel regno. Altrettanto sfortunato fu l'eroico sacrificio del corpo di arcieri lucerini, diecimila sembra, nella tragica giornata di Benevento, il 26 febbraio del 1266.
Racconta Saba Malaspina, cronista dell'epoca: "Come al solito i saraceni, prima di venire alle mani, estraggono i dardi dalle faretre, e saettando improvvisamente trafiggono innumerevoli ribaldi, e le frecce lanciate (...) feriscono inaspettate e irrimediabili, come folgore sulla terra. E mentre più rapidamente vengono scoccate, si conficcano violente in diverse parti dei corpi; piantandosi a due a due ora in testa, ora in viso, appaiono come corna; e infisse nel petto o tra le scapole simulano rami secchi o estensioni di escrescenze estranee; innumerevoli corpi ribaldi ricevono rami di questa natura e moltissimi vengono abbattuti". Di fronte alla piega pericolosa che stava prendendo la situazione, i cavalieri angioini non persero tempo e caricarono a fondo: gli arcieri saraceni, avvezzi com'erano a combattere alla spicciolata, non furono in grado di arrestare quella valanga di ferro, e, a quanto sembra, senza neppure tentare una resistenza, si dispersero "come passeri quando il nibbio piomba improvviso dal cielo".
In sostanza i saraceni, a cavallo o a piedi, non erano fatti per nessuna tattica che non fosse la guerriglia e la razzia: rapidi, audaci, armati alla leggera, perlopiù con arco e frecce eccellevano in questo genere di guerra (peraltro molto praticato nel Medioevo). Altrettanto indubbio è che gran parte dell'impatto psicologico da essi esercitato (impatto certo superiore alla loro autentica efficacia bellica), dipendesse dal fatto che erano "infedeli", seguaci di Maometto e in quanto tali dovevano apparire alle popolazioni cristiane come IL NEMICO per antonomasia, progenie di Belzebù, satanassi vomitati dall'inferno.
La morte in battaglia di Manfredi a Benevento segnò il declino, ma non ancora la fine, dell'impiego in guerra dei saraceni di Lucera.
Il clima morale e politico del tempo angioino non era però per i saraceni lo stesso di quello svevo. La tolleranza dei nuovi dominatori non bastò a sollevare la colonia dalla prostrazione in cui era caduta. La produzione artigianale s'indebolì sotto i colpi pesanti del fiscalismo angioino. La forte falcidia di braccia da lavoro nei campi, provocata dalle guerre, impoverì le campagne.
La colonia venne improvvisamente aggredita e dispersa nel 1300, per motivi che sono ritenuti soprattutto di natura economico-finanziaria, poiché il monarca angioino si dibatteva in formidabili difficoltà di cassa. La vendita, come schiavi, dei maomettani lucerini e dei beni esistenti nella loro terra, avrebbe così risollevato le esauste finanze del sovrano.
Si propagandò perciò la turpe e crudele azione come "ricristianizzazione" di Lucera.
Il 15 agosto del 1300 le truppe angioine entrarono in Lucera. La lotta infuriò corpo a corpo nelle strette e tortuose vie della città e si protrasse fino al 24 agosto. Arrestati e concentrati nella campagna, diecimila uomini, suddivisi in gruppi, furono inviati in diversi mercati d'Italia per essere venduti come schiavi. Si ignora la sorte delle migliaia che non furono venduti. Molti si dovettero convertire al cristianesimo, altri si dispersero e col tempo vennero assorbiti dalla popolazione locale. Solo qualche irriducibile preferì darsi alla macchia e per alcuni anni ancora le campagne della Capitanata registrarono numerosi episodi di brigantaggio alimentati dai saraceni.
Il governo angioino ricavò una somma che potrebbe valutarsi, al valore della moneta attuale, in alcuni milioni di Euro.
Evacuata Lucera dai saraceni, la si ripopolò e la si ricostruì, attività che terminò dopo 11 anni.
La Lucera medievale che possiamo vedere oggi è quella del 1311. Del periodo saraceno restano solo le rovine del palazzo eretto da Federico II nel 1233.
Scompariva così, agli inizi del XIV secolo, l'ultima comunità islamica riconosciuta e organizzata dell'Italia meridionale. Ogni traccia di essa fu cancellata, tanto che nelle tradizioni locali ne rimase a malapena qualche ricordo vago e sbiadito; la memoria, che ormai sfumava nei colori della fiaba, dei minareti, dei guerrieri e degli arcieri saraceni, dei falconieri arabi, dei cammelli, dei leopardi addestrati alla caccia, delle danzatrici, delle donne bellissime e velate racchiuse nel segreto dell'harem: un frammento di Mille e Una Notte deposto nella pianura pugliese, otto secoli fa, dal genio estroso dell'imperatore Federico II di Svevia.
P.s.: Ovviamente questi sono solo appunti miei raccolti negli anni...se non sei ancora soddisfatto ti posso postare qualche riferimento bibliografico
nono mi basta ti ringrazio molto è una storia incredible!non ne sapevo nulla!!!!
se ne conosci atre postale pure!!!
STORIA DELL'ARCO LUNGO INGLESE
Vi sono oggi prove sufficienti per identificare la sequenza con la quale il long-bow arrivò dalla Scandinavia all'Inghilterra medievale. L'arco arrivò prima in Irlanda e quindi, dall' 800 al 1000, nel Galles del sud e nell'Inghilterra nord occidentale portato dalle navi degli Hiberno-Norse (norvegesi irlandesi, n.d.t.).
L'arrivo dei norvegesi
La fine dell'ottavo secolo vide l'inizio delle scorrerie dei vichinghi danesi e norvegesi nell'Inghilterra anglosassone. Questi predatori attaccarono anche l'Irlanda e la costa della Francia. Dei tre gruppi di popolazione vichinghe, svedesi, danesi e norvegesi, solo l'ultimo è per noi particolarmente interessante. Gli svedesi ebbero un ruolo secondario nella vicenda. Le loro attività commerciali e le loro scorrerie avvennero principalmente a sud e a est e li portarono ad addentrarsi in profondità nella Russia e fino al Bosforo. I danesi sfruttarono principalmente la costa orientale dell'Inghilterra.
Alla fine del nono secolo i norvegesi erano impegnati lungo le coste settentrionali della Scozia, le Ebridi e l'Inghilterra del nord-ovest. Le loro imbarcazioni navigarono verso l'Irlanda; la prima scorreria norvegese avvenne presso Lambey, a nord di Dublino, nel 795. Nell' 871 i norvegesi erano ben insediati e il norvegese Ivar divenne "Rex Nordmannorum Totius Hiberniae et Britannie".
Quindi in Irlanda i vichinghi conquistatori erano in prevalenza norvegesi. In quel periodo in Inghilterra i vichinghi erano principalmente danesi che provenivano da est.
Dopo il 900 gli indigeni irlandesi iniziarono a ristabilire il controllo del territorio. I loro progressi non furono facili. Un altro secolo di lotte sarebbe stato necessario prima che di poter spezzare il giogo norvegese. Nonostante la loro sconfitta, i norvegesi non vennero espulsi. Rimasero in Irlanda e al comando dei loro capi continuarono ad essere importanti per il commercio e lo sviluppo del paese. I norvegesi-irlandesi erano ancora fortemente presenti quando l'Irlanda venne invasa dagli anglo-normanni nel XII secolo.
La Norvegia e il Galles
Le scorrerie norvegesi sulla costa del Galles sembra siano iniziate nella metà del nono secolo. La prima scorreria documentata fu nell'852. Lo storico Asser registra che gli attaccanti norvegesi svernarono a Dyfed, probabilmente per la prima volta. Questa relazione, soprattutto tramite i norvegesi di Dublino, più tardi si trasformò in visite commerciali e la fornitura di mercenari ai principi gallesi. "... Sono state trovate tracce di insediamenti nel Glamorganshire; qui Homri, Womanby, insieme a Lamby, poco oltre il confine del Monmouthshire, costituiscono un gruppo di località con nome scandinavo nei dintorni di Cardiff.” (1)
Nel X secolo i norvegesi d’Irlanda erano presenti nel Galles come mercenari al servizio dei principi gallesi. Gruffudd ap Rhydderch impiegò questi vichinghi sia nel sud-est del Galles che contro i suoi nemici nel Gloucestershire. E’ probabile che alcuni vichinghi irlandesi si siano stabiliti nel Galles anche se il loro numero non fu considerevole e le loro abitazioni soprattutto costiere.
Nel museo di Newport, Galles del sud, è possibile vedere convincenti testimonianze archeologiche della presenza norvegese nell’area. A Newport, nel bacino di riparazione Alessandra, alcuni operai, nel 1878, mentre stavano scavando, ritrovarono i legni di una nave lunga 70 piedi di tipica costruzione norvegese. Il vascello era a fasciame sovrapposto di tavole di quercia, fissate alla struttura della nave con chiodi di ferro. Sfortunatamente gli operai, non rendendosi conto del suo rilevante interesse, distrussero la nave. Il piccolo frammento rimasto è stato datato col carbonio al 950 circa.
Per quanto riguarda il Galles del sud, tutte le testimonianze, antichi documenti, nomi dei luoghi e ritrovamenti archeologici, indicano una chiara associazione, sia in tempo di pace che di guerra, tra la popolazione dell’area e gli Hiberno-Norse nel corso del periodo finale del IX secolo e durante il X.
Gli archi vichinghi di Ballinderry e di Haithabu
Nel museo nazionale irlandese di Dublino vi è un bell’esemplare dei long-bows che vennero portati nel Galles nel corso del X secolo dai visitatori Hiberno-Norse, mercenari o coloni. I ritrovamenti di archi a Nydam e Haithabu, in Danimarca e nello Schleswig, Germania settentrionale, confermano che il long-bow fosse un’arma caratteristica e tipicamente scandinavo occidentale.
Il long-bow irlandese, ritrovato in un contesto databile al tardo X secolo, venne dissepolto nel 1932 presso Ballindery Crannog, nella contea di Westmeath. Si tratta di un pezzo notevole, proveniente dal primo periodo medievale. (2)
Il sito, un’isola artificiale nel lago di Ballindery, era l’abitazione di uno degli Hiberno-Norse che vi risiedevano. Oltre all’arco, vennero trovati altri manufatti. Tra questi una splendida spada vichinga con l’elsa intarsiata in argento.
L’arco di Ballindery è databile al periodo nel quale i vichinghi norvegesi si insediarono estesamente nell’Irlanda celtica e mostra che probabilmente i norvegesi portarono il long-bow dalla Scandinavia occidentale all’Irlanda, dove arrivarono per la prima volta nel IX secolo.
L’arma viene descritta dai curatori del museo irlandese come “probabilmente il migliore e più importante antico long-bow europeo medievale” (3);
l’arma è ricavata da una singola doga di tasso e lavorata con cura. L’arco è costruito con la classica sezione a D; d’alburno è la parte esterna, di durame l’interna. La sua somiglianza con alcuni archi della Mary Rose (4), costruiti sei secoli dopo, è sorprendente. L’arco è completo, escluso un pezzetto di 5 cm., ad una delle due estremità. Qui il legno si è staccato e resta ciò che sembra essere un foro, o forse della tacca, di circa un centimetro di diametro. Qui non vi è una tacca simile a quella dell’altra estremità, che probabilmente è quella superiore.
Notevolmente simili all’arco di Ballinderry sono i long-bows di periodo tardo vichingo trovati in un vascello affondato nel porto di Haithabu, nello Schleswig. Questi oggetti possono essere osservati nel museo vichingo di Haithabu.
Vennero qui ritrovate numerosi frammenti di frecce e grandi punte di freccia. Le punte sono di tipo militare. La provenienza degli archi non è ancora chiara. Sono databili all’XI secolo e molti sono incompleti. Uno è di olmo, gli altri di tasso. Uno degli archi di tasso è sopravvissuto intatto. Come per quello di Ballindery, le estremità dell’arco sono ripiegate verso la corda. (5) Le dimensioni della doga sono paragonabili a quelle dell’arco di Ballindery e a quelle degli esemplari ritrovati sulla Mary Rose.
E’ interessante notare che i long-bows di Nydam risalenti al IV secolo d.C. che si trovano nel Museo Nazionale Danese misurano in lunghezza dai 170 cm. ai 183 cm. (6) Sembra che gli archi di Nydam fossero bottino di guerra e possono non essere di origine danese. La somiglianza tra i long-bows di Haithabu, quelli di Nydam e l’arco di Ballindery ci fa ritenere che i primi possano essere di provenienza norvegese.
L’arco di Haithabu è di dimensioni simili agli esemplari della Mary Rose, ma avendo l’attacco della corda nella parte inferiore molto più in basso, doveva probabilmente essere un’arma molto più rigida con una grande potenza di tiro. La stessa osservazione si può applicare all’arco di Ballindery.
Gli scavi di Waterford del 1986-92
Possiamo chiaramente vedere due distinte tradizioni di costruzione dell’arco negli archi di Ballindery e Haithabu, da una parte, e nell’arco “danese” dall’altra.
La rappresentazione degli arcieri del periodo normanno ad opera di Alexis indica che nel 1130 gli archi lunghi non erano ancora stati adottati dagli inglesi, Ancora più tardi, durante l’invasione anglo-normanna dell’Irlanda, nel 1160 e nel 1170, i ritrovamenti archeologici di Waterford sembrano mostrare che in Inghilterra fosse ancora in uso l’arco corto.
Gli oggetti d’arcieria ritrovati nel corso degli scavi di Waterford del 1986-92 comprendono archi e frecce e quaranta punte di freccia. (7) Possono essere grosso modo datate dal XII° ai primi anni del XIII° secolo. Nel 1170 gli anglo-normanni assalirono e presero la città. Gli oggetti dissepolti possono essere associati con questi avvenimenti. Mentre non è possibile essere certi di questo legame, è comunque possibile che ci si trovi di fronte ad oggetti d’arcieria collegati alla spedizione irlandese di Richard de Clare, il famoso “strongbow” (fortearco n.d.t.). Geraldo il gallese riporta che gli arcieri erano presenti in gran numero tra le forze di invasione dell’Irlanda guidate da Richard. Queste truppe comprendevano arcieri provenienti dal Galles del sud.
A Waterford è stata trovata una sola freccia completa. E’ di tipo incavata (socketed), con una punta di tipo bodkin. L’asta è stata distrutta nel corso degli scavi ma ne sono state annotate le dimensioni.
Era lunga 58 cm. e in questa sono stati inseriti 25 mm. nella parte incavata dove era inserita la punta portandone la lunghezza a 60,5 cm. L’altra estremità era lavorata a cocca per accogliere la corda dell’arco. La lunghezza di questa freccia è solo due terzi delle frecce ritrovate sulla Mary Rose.
A Waterford è stato ritrovato un arco completo insieme a frammenti di altri sei; sono tutti ricavati da doghe di tasso. Tre di questi hanno tacche laterali per accogliere la corda.
L’esemplare ritrovato completo è lungo 125,8 cm.. E’ 59,2 cm. più corto dell’arco di Ballindery e 64,2 cm. più corto di quello di Haithabu. Le estremità della doga sono nettamente tagliate come quelle degli archi di Ballindery e di Haithabu e le estremità sono piegate nella direzione del tiratore. Nell’arco vi sono due tacche laterali alle due estremità.
Quanto trovato a Waterford indica con forza che intorno al 1200 gli anglo-normanni usavano ancora archi corti e scoccavano frecce corte. Potevano esserci stati arcieri con l’arco lungo tra le truppe di Strongbow inviate in Irlanda, ma sfortunatamente non abbiamo prove dirette di ciò.
Appena dieci anni dopo l’invasione dell’Irlanda, nel 1181, in Inghilterra, venne convocata l’Assise delle Armi, nel corso della quale vennero definite le armi che, in periodo d’emergenza, ciascun individuo dei diversi strati della società, era tenuto a possedere. Non si parla di archi. E’ chiaro che in questo periodo l’arco non era considerato un’arma da guerra di primaria importanza. Il long-bow doveva ancora fare la sua comparsa. Non vi è alcuna traccia dell’arco prima dello Statuto di Winchester del 1252. Anche qui, è ancora alla balestra che si dà maggiore importanza da parte dei cronisti della guerra tra i baroni inglesi. E’ per noi interessante notare che nel corso di quelle campagne militari del 1264 e del 1265, nelle quali il long-bow non fu importante, un ruolo chiave venne svolto dal Principe Edoardo, il futuro re Edoardo I.
Circa trent’anni dopo, nell’estate del 1298, Edoardo I marciava verso nord diretto in Scozia con un esercito composto da uomini scelti. E’ significativo il fatto che ora Edoardo aveva con sé un grande numero di arcieri, molti dei quali provenivano dal Galles. Un numero minore di arcieri armati con long-bow provenivano dal Lancashire e dal Cheshire, altre due aree queste che videro la presenza e l’influenza degli Hiberno-Norse. Il 22 luglio queste truppe distrussero coi loro nugoli di frecce i coraggiosi reparti di fanteria scozzese (schiltrons) nel corso della battaglia di Falkirk.
La tradizione dell’arco nel Galles
Durante il periodo medievale esisteva nell’area del Gwent, nel sud est del Galles, una tradizione apparentemente particolare e relativa all’utilizzo militare dell’arco. E’ interessante notare come questa sia stata la regione del paese maggiormente “romanizzata” e l’unica parte del Galles che non era stata sopraffatta da invasori esterni dopo la caduta dell’Impero Romano. (8)
La forte tradizione arcieristica emerge chiaramente dalle osservazioni di Geraldo il gallese, scritte alla fine del XII° secolo: “Gli uomini del Gwent sono più esperti con l’arco e le frecce di quelli delle altre parti del Galles... I gallesi ricavano i loro archi dagli alberi di olmo nano della foresta. Questi archi non sono particolarmente belli a vedersi, nemmeno scortecciati e levigati, ma lasciati ruvidi e grezzi. Nondimeno sono compatti e potenti. Non puoi con questi tirare lontano; ma sono abbastanza potenti da infliggere serie ferite in uno scontro ravvicinato.” (9)
Ho utilizzato, per questo passo controverso, la traduzione del defunto professor Lewis Thorpe, illustre studioso medievale, curatore della versione per la Penguin Classics dei testi di Geraldo il gallese “Viaggio attraverso il Galles” e “Descrizione del Galles.”
Geraldo continua con due dettagliate descrizioni. Una di queste racconta come un cavaliere ai comandi di William de Braose, in azione contro gli arcieri del Gwent, venisse colpito da frecce scagliate con tale potenza che perforarono il suo usbergo, la protezione della coscia e la sella, ferendo mortalmente il suo cavallo. Il secondo resoconto descrive le frecce gallesi che penetrarono per la profondità di “quattro dita” nella grande porta di quercia del castello di Abergavenny, frecce che lì furono lasciate affinchè la gente le vedesse.
Se ne dovrebbe dedurre che queste frecce vennero scagliate con un archi di olmo. Ciò potrebbe essere, ma è più probabile che siano state scagliate con archi di tasso, poiché il tasso, è noto, cresceva in quest’area. La manifesta potenza di questi tiri suggerisce anche che ci si trovi di fronte a un long-bow di tasso.
“Non li ho mai visti indossare armature. Li ho studiati molto da vicino ed ho camminato in mezzo a loro per cercare di scoprire che tipo di corazza difensiva usassero quando andavano a combattere. Le loro armi erano gli archi, le frecce e le spade. Avevano anche giavellotti. Indossavano abiti di lino”.
(Gli arcieri gallesi dell’esercito di Edoardo I nel Ghent, descritti da Lodewyk van Veltheam nel 1297.) (10)
Le armi dell’antico Galles
Nell’antico Galles l’arco non veniva usato come arma primaria in guerra. Il Gododdin, composizione poetica scritta in gallese intorno al 600 d.C. descrive le armi di un contingente di gallesi britannici quando lanciarono un attacco contro gli angli a Catraeth, ora Catterick, nello Yorkshire.
“Gli uomini raggiunsero Catraeth in colonna, levando grida di guerra; una forza con cavalli, armature blu e scudi, giavellotti in volo e lance acuminate, lucide cotte di maglia di ferro e spade. Rhufawm il Grande li guidava, irrompendo tra gli eserciti e ne caddero cinque volte cinquanta sotto le sue lame. Egli donò oro all’altare e offerte e raffinati doni al menestrello...” (11)
Non vi è qui alcuna allusione all’uso dell’arco.
Cinque secoli dopo Catraeth, nel tardo XII° secolo, Geraldo il gallese ci narra dei metodi militari dei gallesi, essenzialmente guerrieri armati di lancia nei tempi antichi. L’arco ora è ben presente tra le popolazioni del sud est.
“A causa del loro primo fiero attacco a capofitto, con la pioggia di giavellotti da loro scagliati, sembravano i nemici più spaventosi... Il Marionethshire e la terra di Cynan è più selvaggia e meno accessibile delle altre regioni. Gli uomini di questa regione del Galles sono molto abili con le loro lunghe lance. Quelli del sud, in modo particolare quelli del Gwent, usano l’arco con grandi risultati”. (12)
Il Gwent è quella parte del Galles del sud est bagnato dall’Usk e dal Wye e confinante a sud con il Severn.
La presenza del tasso e il fattore irlandese
Quali elementi aiutarono le popolazioni del sud-est del Galles a trasformare l’arco in una potente arma militare? Tra i fattori chiave deve essere inclusa la presenza del tasso nell’area e il frequente contatto con i norvegesi d’Irlanda.
Il fattore principale deve essere stato la disponibilità del tasso. Questo legno, tra i migliori per costruire un arco, cresce principalmente sul terreneo calcareo. Nel Gwent l’affioramento del calcare inizia nell’area della valle del Wye poi scompare sotto l’arenaria. Il calcare riappare intorno a Shirenetown e poi di nuovo a nord est di Abergavenny, nella gola di Clydach. Alcuni affioramenti si trovano nel Galles del nord, non lontano dalle aree di confine inglese. (13)
Il tasso, dunque, si poteva trovare, all’inizio del periodo medievale, nel sud del Galles. Anche se il quantitativo di questo tipo di legname doveva essere abbastanza scarso, i primi costruttori d’archi del Gwent dovettero avere il modo di produrre un’arma superiore agli archi in uso altrove nel Galles o perlomeno uguale agli altri archi utilizzati al di là del confine, in Inghilterra.
Anche l’olmo riccio era largamente disponibile nel Gwent. Ancora oggi vi sono un certo numero di singoli olmi ricci. A causa della relativa scarsità di tassi, fu normale per i costruttori d’archi scegliere l’olmo come il secondo miglior legno, nonostante le sue prestazioni fossero comparativamente inferiori. Sembra esserci qualche dubbio che entrambi i tipi di arco potessero essere utilizzati, con gli arcieri più fortunati armati con archi di tasso.
Ancora oggi si possono trovare nel Gwent alberi di tasso. Fuori Pontypool se ne può ammirare un esemplare antico e insigne con una circonferenza di quasi undici metri.
Un secondo fattore che influenzò la forma e la prestazione dell’arco nel Gwent devono essere stati i frequenti contatti con gli Hiberno-Norse (norvegesi irlandesi, n.d.t.).
Gli uomini del Gwent, esperti arcieri com’erano, avrebbero certamente esaminato con interesse gli archi portati a terra dai mercanti norvegesi provenienti dall’Irlanda. Riconoscendo la potenza e la superiorità dei long-bow del tipo Ballinderry, gli arcieri del Gwent non avrebbero tardato ad adottare questa nuova e ottima arma. I gallesi certamente videro come venivano impiegati in battaglia gli arcieri norvegesi.
La prova della lingua
Ad un certo punto, nel corso del X° e dell’ XI° secolo, i gallesi cambiarono il termine da loro utilizzato per denominare l’arco; adottarono il termine “bwa”.
Secondo Geiriadur Prifysgol Cymru, il dizionario della lingua gallese, “bwa” è un termine adottato, “prestato”. Non vi sono riferimenti scritti al termine “bwa” prima del 1200. A partire da allora, la parola deve essersi completamente affermata. La sua provenienza, come per l’inglese “bow”, è germanico/scandinava. La parola, inglese antico, è “boga” e nel norvegese antico “bogi”. (14)
All’epoca nella quale gli anglosassoni non avevano confidenza con l’arco, sembra improbabile che gli arcieri del Gwent andassero a cercare una nuova parola per l’arco oltre i confini e presso i loro tradizionali nemici. E’ molto più probabile che, come i loro cugini irlandesi, gli antichi gallesi medievali ravvisassero nel long-bow norvegese un’arma tanto diversa dai loro archi che solo il termine norvegese potesse descriverla. E’ probabile che circa in questo periodo i gallesi del sud acquisissero il long-bow norvegese e lo facessero proprio.
Sembra che, dall’altra parte del mare, gli irlandesi avessero adottato il termine scandinavo/germanico prima del XII° secolo. Nel poema irlandese “Cogadh Gaedhel re Gallaibh” (15), scritto nel XII° secolo, descrive le armi dei norvegesi alla battaglia di Clontarf nel 1014, quando furono sconfitti dagli irlandesi guidati dal Grande Re Brian Boru. Gli “archi lucenti, di giallo risplendenti” dei norvegesi, sono “bogada blathi blabuidi”. Qui il poeta sta sicuramente descrivendo long-bows di tasso del tipo Ballinderry. Ma la cosa veramente interessante di questo passo è il fatto che ci mostra un adattamento della parola “bogi”. E’ stata presa dalla lingua Hiberno-Norse (norvegese irlandese, n.d.t.) e immessa nella lingua irlandese per descrivere i potenti long-bows per la prima volta introdotti dai vichinghi norvegesi nel IX° secolo.
Conclusione
Il long-bow ha viaggiato ed è arrivato molto lontano dalla Scandinavia occidentale. E’ un’arma vichinga, ma non dei Danesi. Venne sviluppata dai norvegesi, i famosi Norse.
L’arco dei vichinghi danesi, più corto, ha seguito in percorso diverso rispetto a quello dei norvegesi.
Nel 911 all’esercito danese del conte Rollo vennero concesse le terre della Francia settentrionale che poi divennero la Normandia, la terra degli uomini del nord. Un secolo e mezzo dopo nelle, sequenze dall’arazzo di Bayeux, vediamo questo arco normanno-danese che gioca un ruolo importante nella battaglia di Hastings.
I long-bows di Ballinderry e Haithabu mostrano che queste armi rappresentano una tradizione indipendente e antica, legata alla Norvegia. Il long-bow venne trasportato sulle navi dei norvegesi lungo le loro rotte di saccheggio e commercio. E’ stato trovato dentro navi catturate dai loro nemici. In Irlanda costituisce una parte importante della panoplia di guerra tra gli Hiberno-Norse (norvegesi irlandesi, n.d.t.). Quando questi abili marinai e guerrieri raggiunsero le coste del Galles del sud incontrarono una popolazione già esperta nell’uso dell’arco. Gli uomini del Gwent adottarono il long-bow e per descriverlo usarono l’adattamento gallese della parola con la quale era conosciuto dai vichinghi. Le capacità dei questi gallesi del sud e dell’arciere discendente dai colonizzatori norvegesi del Cheshire e del Lancashire vennero riconosciute da Edoardo I e furono sviluppate con grande efficacia nel corso delle guerre che condusse nel Galles e in Scozia.
Intorno all’inizio del XII° secolo e dopo un periodo di circa quattro secoli il long-bow dei vichinghi norvegesi era stato portato lontano dalla sua terra di origine. Quest’arma sarebbe stata presto adottata in tutta l’Inghilterra e avrebbe raggiunto il suo apogeo con gli eserciti di arcieri dei Plantageneti del XIV° e XV° secolo.
"Questo yeoman indossava una giacca e un cappuccio verde, e frecce con penne di pavone, gioioso e forte e vestito con semplicità, le teneva infilate sotto la cintura - perché era in grado di indossare la sua attrezzatura con lo stile dell’agricoltore, e le sue frecce non avevano mai le penne afflosciate - e nella mano impugnava un arco possente."
Prologo a “I racconti di Canterbury” di Chaucer, 1386 circa (16)
In contrapposizione al saggio postato in precedenza, il seguente brano parla della presenza ebraica in Puglia (tra l'altro - imho - possono benissimo essere letti con un occhio al presente, in cui si ridiscute di integrazione, 'meticciato', neorazzismo, 'decolonizzazione', ecc.)
Le comunità ebraiche pugliesi
Esistono tracce di stanziamenti in questa regione all’inizio dell’era cristiana e proprio la Puglia è l’unica regione del Mezzogiorno in cui si abbiano testimonianze certe di una continuità di colonie ebraiche dall’età imperiale fino al 1000 d.C.
Questa documentazione ci perviene soprattutto da una serie di epigrafi funerarie ritrovate a Brindisi, Venosa, Lavello, Taranto e Matera come pure da quelle, probabilmente dei primi secoli dopo Cristo, rinvenute in un ipogeo presso Bari nel 1925 in cui si accenna a personaggi di nome David, Mosè ed Elia. È interessante notare che queste lapidi funerarie sono tutte in lingua ebraica, a dimostrazione che fin da tempi antichi le comunità ebraiche pugliesi si servivano della loro lingua originaria. Questa singolarità si rivela importante in quanto ci mostra come in Puglia gli ebrei molto prima che nelle altre regioni italiane, avevano abbandonato l’uso del greco e del latino per ritornare a servirsi del loro idioma il che si può spiegare accettando l’ipotesi di una grande intensità di rapporti fra la Palestina e la Puglia.
I centri di questo risveglio culturale furono le più antiche comunità ebraiche pugliesi e cioè Bari, Oria, Venosa e Otranto. In particolare, l’importanza di Bari e Otranto è dimostrata da quanto fra i dotti ebrei europei si diceva delle due città: "da Bari esce la legge e la parola di Dio da Otranto"; questo detto ci è stato tramandato da Rabbenu Tam, famoso rabbino francese del XII secolo, tuttavia ben poco ci è dato sapere di questi due fari del sapere giudaico, di Otranto non rimane nulla mentre in Bari, i cui traffici con l’Oriente mediterraneo senz’altro agevolarono la presenza di una comunità giudaica, si hanno notizie di presenze ebraiche solo nel secolo X; si è poi anche ipotizzato che Melo di Bari fosse di stirpe ebraica, tuttavia la figura più importante della cultura ebraica di quel tempo rimane Donnolo Shabbetai medico e filosofo di Oria.
Non si può dimenticare, fra le più famose scuole di cultura ebraica pugliesi, quella di Siponto, infatti da questa località agli inizi del secolo XI si recarono in Mesopotamia, per seguire le lezioni di Talmud Babilonese, numerosi giovani ebrei che al loro ritorno fondarono un centro di istruzione talmudica con a capo rabbi Leon ben Elhanan.
Alla discesa dei Normanni in Puglia esistevano, come si è già chiarito, numerose e rigogliose comunità giudaiche, di cui proprio a partire da quel periodo abbiamo notizie più certe; fra queste particolarmente importanti quelle delle città marinare di Bari, Barletta, Brindisi, Gallipoli, Giovinazzo, Monopoli, Taranto e Trani. Di questa situazione ci riferisce il mercante Beniamino da Tudela, il quale riporta che durante il suo viaggio esistevano 500 ebrei a Otranto, più di 300 a Taranto, 200 famiglie ebraiche a Trani mentre vi erano a Brindisi 10 famiglie che si dedicavano alla tintoria.
Oltre a quella di Trani, bisogna ricordare quella antichissima di Taranto, su cui però non esiste alcuna documentazione nell’alto Medioevo mentre era sicuramente assai numerosa al tempo dei Normanni. A Brindisi si hanno prove documentate da alcune iscrizioni su lapidi di insediamenti ebraici dall’800 al 1600 d.C.
Durante la dominazione normanna si determinò un fatto molto importante destinato ad avere notevoli conseguenze sulle comunità ebraiche: il passaggio degli ebrei dal dominio diretto dei principi a quello dei vescovi, con la conseguente cessione a questi dei redditi e della giurisdizione sui giudei. A tale proposito bisogna ricordare che i diplomi emanati nelle diverse realtà politiche consideravano gli ebrei come "affidati"; questi erano uomini liberi, specialmente stranieri, che si ponevano sotto la protezione del principe per ottenere una particolare tutela, ed in corrispettivo gli versavano un contributo in denaro. Questo è detto in un diploma barese del 1109: "Censum quod affidati suis dominis faciunt" e naturalmente anche gli ebrei erano sottoposti a questa normativa; la parificazione di ebrei ed "affidati" era quindi determinata dal reddito che il fisco traeva da ambedue le categorie.
Premesso quanto sopra, fondamentalmente questo passaggio di giurisdizione fu determinato dal fatto che i Normanni si erano appropriati dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici ed in cambio di ciò cedettero ai vescovi i redditi fiscali sugli ebrei. Tuttavia esiste un’altra ragione: poiché fin dai tempi di Giustiniano era stata proibita la costruzione di nuove sinagoghe, a pena di trasformarle in chiese cattoliche, questo permise ai vescovi di intervenire direttamente negli affari giudaici con la scusante di impedire agli ebrei di molestare il culto cristiano e in tal modo gli ebrei ricaddero, per tempi successivi, sotto la giurisdizione ecclesiastica per motivi religiosi oltre che fiscali. Una ulteriore causa di questo passaggio sarebbe stata l’intromissione dei vescovi nelle cose ebraiche dovuta al fatto che spesso gli stessi ebrei si ponevano sotto la protezione dei vescovi ad evitare guai peggiori, creando quindi essi stessi una tale posizione di dipendenza.
Una situazione del tutto particolare che peraltro dimostra il notevole sviluppo della comunità ebraica di Bari si determinò quando il duca Roberto il Guiscardo ne incluse i redditi nella dote di sua moglie Sigelgaita. Gli ebrei allora misero la giudecca nelle mani della loro signora e questa, alla morte di Roberto, sotto la probabile pressione dell’arcivescovo Ursone gli cedette la giudecca barese con tutti gli ebrei che l’abitavano con i relativi stabili e pertinenze. La cessione fu motivata dal fatto che i proventi annuali così incassati dall’arcivescovo dovevano andare a suffragio del duca Roberto.
Con il passaggio dalla giurisdizione civile a quella ecclesiastica iniziò per gli ebrei un periodo di grande soggezione: essi vennero esclusi dai diritti politici e dai pubblici uffici come pure dalla possibilità di esercitare talune arti e professioni.
A seguito dell’odio alimentato dalla Chiesa nei loro confronti, cominciarono ad essere perseguitati dai cristiani e s’indussero a vivere volontariamente in quartieri separati e raccolti intorno alle sinagoghe chiamati giudecche, da non confondere con i "ghetti" che vennero istituiti da papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum nel 1555: il ghetto infatti consisteva in un quartiere separato cinto da mura e chiuso di notte per impedire l’entrata o l’uscita di ebrei e cristiani.
Tuttavia possiamo concludere che, nonostante le angherie e le sopraffazioni, nel periodo normanno le colonie ebraiche di Puglia aumentarono di numero e d’importanza a seguito della protezione loro accordata da questi prìncipi sotto cui gli ebrei ebbero a godere molteplici vantaggi sia pure in condizioni d’inferiorità rispetto agli altri cittadini.
All’avvento degli Svevi le comunità ebraiche di Puglia erano importanti e fiorenti: fra le altre, basterà ricordare Andria, Barletta, Corato, Foggia, Molfetta, Trani e tr**a; sotto Enrico VI queste migliorarono ancora le loro condizioni, infatti l’imperatore nel 1195 sottopose a particolari limitazioni l’atto di passaggio degli ebrei sotto la giurisdizione ecclesiastica emesso nel 1155: egli osservò essere suo dovere dare protezione ai sudditi, dichiarando sotto la sua tutela anche coloro che professavano una fede diversa dalla cristiana per cui disapprovava le violenze e le sopraffazioni esercitate su costoro, per forzarne la conversione.
L’ascesa al trono di Federico II, il figlio di Enrico VI, comportò per gli ebrei di Puglia un periodo molto favorevole: egli si rese conto che gli ecclesiastici facevano sentire in maniera eccessiva il loro intervento sulle giudecche ed inaugurò una politica completamente diversa da quella attuata dai Normanni, riportando gli ebrei sotto l’unica e diretta giurisdizione da parte dello Stato, infatti l’influenza del clero cattolico aveva portato alla sanzione di nullità per il giuramento e la testimonianza degli ebrei contro i loro persecutori cristiani espressa nelle Consuetudini Baresi. Constatato poi che la diversa religione faceva apparire gli ebrei "infestos omnique alio auxilius destitutos" ai cristiani, l’imperatore estese nel 1231 a tutte le comunità ebraiche del regno la sua speciale protezione.
Chiarita questa nuova impostazione generale, nell’atteggiamento imperiale nei confronti degli ebrei bisogna distinguere due periodi: il primo, nel tempo in cui egli fu sotto la tutela di papa Innocenzo III in cui tutto sommato si esprime ancora per una certa adesione ai voleri ed ai princìpi della Chiesa di Roma, ed un secondo in cui l’imperatore assume un atteggiamento completamente indipendente dai suggerimenti ecclesiastici. In questo quadro procede ad emanare provvedimenti per la tutela della vita e dei beni ebraici e non riconferma alcuna delle concessioni fatte dai Normanni agli episcopati, diminuendone anzi i redditi che questi ricevevano dalle giudecche. L’unico provvedimento restrittivo che si ricordi emanato da Federico II nei confronti degli ebrei è quello dell’obbligo di esibire in pubblico un segno distintivo; risulta evidente che questa disposizione venne presa per motivi politici, al fine di non scontentare la Chiesa, da cui egli aveva già subito pesanti attacchi, mentre invece nel regno veniva disposto il rispetto del sabato festivo e delle festività giudaiche con il permesso per gli ebrei di lavorare nei giorni di riposo per i cristiani.
Da parte di Federico II si era intuita l’enorme importanza economica delle comunità ebraiche pugliesi che già precedentemente avevano acceso mutui e concesso rilevanti prestiti nel regno. Fra questi ricordiamo quello di 500 aurei accordato all’abbazia di Montecassino contro il pegno di una tovaglia preziosa dell’altare di S. Benedetto, poi riscattata dall’imperatore Enrico II nel 1022. Per questi motivi egli ritenne necessario, attraverso i disposti emanati, dare sicurezza a coloro che disponevano di grandi capitali, chiamando presso di sé uomini di cultura ed amministratori ebrei. A questo punto proprio basandosi su queste considerazioni emanò un decreto in cui si stabilì la possibilità per i giudei di prestare denaro con l’interesse del 10% annuale senza incorrere in alcuna pena, giustificandolo con il fatto che, essendo gli ebrei di altra religione, non erano tenuti ad osservare quelle leggi morali contro l’usura che portavano a salvezza l’anima dei cristiani; gli ebrei iniziarono quindi ad operare come banchieri del regno percependo un interesse del 10% annuo.
Anche dopo la morte di Federico II, cui gli ebrei manifestarono sempre grande riconoscenza, si protrassero i risultati della sua lungimiranza, infatti sia Corrado IV che Manfredi ricevettero notevoli finanziamenti dagli ebrei. Tuttavia dopo questo periodo fecondo si preparavano per le comunità giudaiche tempi duri nel regno ed in Puglia dopo la definitiva sconfitta degli Svevi e l’invasione del regno da parte degli Angioini.
Infatti, con la decapitazione di Corradino di Svevia, Carlo I d’Angiò si assicurò durevolmente il possesso del regno di Napoli conquistato con l’appoggio del favore popolare, pertanto intraprese una politica di forte intransigenza nei confronti degli ebrei appoggiando il clero nel suo rinnovato impegno per le conversioni, più o meno forzate, dei giudei alla religione cattolica.
Tale politica intransigente proseguì - anche se in maniera altelenante, in verità - anche sotto il dominio aragonese fino al regno di Federico III d’Aragona il quale rispolverò la vecchia politica a favore degli ebrei: questi ne ostacolò l’emigrazione ed ordinò di concedere ampia ospitalità agli espulsi dal Portogallo. Sotto il suo regno cominciò a ritornare in Puglia la pace e la serenità nelle comunità ebraiche che in quella regione erano state sempre particolarmente numerose ed attive; il rinnovato dominio aragonese protesse le comunità ebraiche di Puglia e queste aumentarono di numero trovando nel favore del sovrano le condizioni per svilupparsi e riprendere le loro occupazioni.
Nonostante ciò le persecuzioni antiebraiche che si protrassero per quasi tutto il XV secolo e furono dettate da un settario spirito religioso non sufficientemente frenato dall’autorità civile, a quel tempo troppo ossequiosa nei confronti degli ecclesiastici. In effetti non furono le città a scagliarsi contro le comunità israelitiche: vogliamo ricordare l’esempio di Gallipoli, dove l’Università protesse i suoi ebrei ospitando pure quelli di Nardò e permettendone la civile convivenza. Fu soltanto una piccola fazione popolare aizzata da sobillatori e fanatici che agivano per i propri interessi a determinare i continui tumulti e le persecuzioni nei confronti dei singoli insediamenti.
Ma quali furono gli esiti della 'saga' delle comunità ebraiche in Puglia?
Brevemente: in seguito al patto di Granada, concluso nel 1500 tra Ferdinando il Cattolico e Luigi XII il ducato di Puglia venne assegnato alla Spagna. Questo fatto nuovo destò gravi timori nell’animo dei giudei che ben ricordavano le precedenti espulsioni dalla Spagna del 1492 e 1497, infatti l’11 ottobre 1501 Ferdinando il Cattolico ordinava al gran capitano Consalvo da Cordova di espellere gli ebrei dal ducato di Puglia, ma questi ad evitare nuovi tumulti non eseguì l’ordine, ed il sovrano sollecitò nuovamente il provvedimento nel 1503. Inoltre il 13 novembre 1506 venne emanato un bando con cui si stabiliva che i giudei "Dovessero portare in pecto lo signo del tundo rosso e la pena deonze dece, deperdere i vestiti, ed altra pena reservata". Ma il provvedimento più vessatorio fu quello del 30 gennaio 1507, con cui vennero annullati tutti i debiti verso gli ebrei fino alla morte di Ferdinando II e non ancora pagati, inoltre si prescrisse di "Non confirmare né concedere privilegi ingiusti a li iudei ".
Il 23 novembre 1510 fu emanato l’editto di espulsione dal Regno per tutti gli ebrei ed i convertiti, furono concessi quattro mesi di tempo per alienare i loro beni e migrare con ogni loro avere eccettuati l’oro e l’argento. Carlo V, a seguito di un’istanza delle popolazioni che ritenevano invece necessaria la presenza degli ebrei in quanto facevano circolare ingenti somme di denaro incrementando i commerci, emanò il 23 novembre 1520 un editto che li richiamava nel ducato al fine di arginare l’usura ora esercitata dai cristiani.
La posizione degli ebrei non migliorò con l’arrivo del vicerè don Pedro da Toledo che il 5 gennaio 1533 concesse loro sei mesi di tempo per uscire dal regno; chi non avesse ubbidito sarebbe diventato schiavo con la conseguente perdita di ogni suo avere; seguì una proroga a tale termine ed il 28 febbraio 1535 fu concluso un accordo tra il vicerè ed i giudei per cui si concedeva a questi ultimi di abitare nel regno per altri dieci anni. Il vicerè emise il 1° dicembre 1540 un nuovo provvedimento di espulsione con proroga di quattro mesi ed il giorno 31 ottobre 1541 avvenne il loro definitivo allontanamento dalla Puglia e da tutto il regno di Napoli.
che bello che qualcun altro stia contribuendo a rendere questo topic una continua fornace di Saggi storicamente interessantissimi!
La battaglia di Poitiers
Diamo uno sguardo dapprima agli schieramenti contrapposti: quello di Carlo Martello e quello di Abd al-Rahman.
Da parte franca si potevano schierare circa 70000 fanti etnicamente eterogenei formati dai franchi veri e propri difesi dal classico scudo a goccia pesante ed armati di ascia bipenne, dai discendenti dei Goti (Alamanni, Bavari e Sassoni) tutti armati di lancia media o lunga e dai germanici delle foreste interne completamente dipinti di nero con la mazza come arma.
La cavalleria pesante era minima perché solo i nobili potevano permettersi il lusso del mantenimento, quindi, anche se le fonti non sono precise non dovevano essere più qualche centinaio o al massimo un migliaio.
Da parte araba dovevano essere circa 80000 di cui pochissimi arabi veri e propri, la maggior parte della cavalleria era berbera mentre le fanterie e gli arcieri erano dei califfati europei e nordafricani.
L’esercito arabo usava la tattica sciita che prevedeva attacchi rapidi con successive rapide ritirate continue per sfibrare l’avversario.
L’esercito franco si predispose lungo l’antica via romana che andava da Poitiers a Tours nelle adiacenze dei fiumi Clain e Vienne.
La fanteria pesante seguiva un’unica linea a sbarrare la strada compatta e statica.
La cavalleria intramezzava questa linea fantesca con pochi squadroni, mentre il grosso stava in seconda schiera alle due estreme oltre alla classica formazione nascosta nel bosco adiacente.
Era uno schieramento d’attesa indubbiamente né poteva essere differente.
Gli arabi arrivarono schierando al centro la fanteria e gli arcieri e la cavalleria berbera ai due lati in apertamente ma nell’aria era inconfondibile l’odore dei cammelli adibiti al trasporto che sostavano in seconda linea e che erano molto temuti dai cristiani perché facevano imbizzarrire i cavalli.
Per una settimana le posizioni rimasero quelle iniziali e nessuno sembrava muoversi per attaccare: era una fase di studio.
Furono gli arabi a rompere gli indugi con cariche di berberi che cozzarono violentemente più volte contro la linea dei fanti franchi cercando di aprire alcuni varchi: la risposta dei cristiani fu quello che i cronisti chiamarono il muro di ghiaccio…i fanti protetti dai giganteschi scudi non si mossero minimamente e non sfaldarono ma anzi abbattendo con le lance e le asce gli avversari mal protetti e senza corazza.
Furono ore drammatiche, gli arabi non riuscivano ad attuare i loro piani d' attacco e ritiro perché Carlo Martello aveva impartito ordine ben precisi d’evitare il loro inseguimento: la cavalleria saracena era oramai a corto di fiato e debitamente sfiancata dai continui attacchi.
Fu allora che ad un segnale convenuto, un falò, si mosse la cavalleria d’Aquitania nascosta nel bosco adiacente il fianco destro dei musulmani che caricò e mise in fuga gli avversari.
I fanti franchi ed i due lati di cavalleria presero ad avanzare uniti travolgendo in maniera netta la fanteria saracena priva di qualsiasi difesa pesante: né vi era nessuno scampo per loro a tarda serata, e sembra che anche Abd al-Rahman fu ucciso a colpi d’ascia dallo stesso Carlo Martello.
Questo da parte degli storici franchi.
Gli storici arabi pur non differenziando il risultato (e come potrebbero ?) propendevano non per la fuga ma per il rientro dei guerrieri musulmani nell’accampamento a protezione dei tesori razziati in Aquitania, scaricando così l’infamia della sconfitta per cupidigia: Allah li avrebbe puniti per non aver combattuto i cristiani, ma aver pensato solo alle proprie ricchezze…..
Secondo gli storici i cristiani persero poco più di mille uomini mentre i saraceni persero almeno l’80% del proprio esercito: non dobbiamo dimenticare che non esisteva la pratica del prigioniero di guerra ed i franchi non fecero sconti sgozzando tutta la truppa inutile !
Gli arabi chiamarono il teatro dello scontro Balat Ash Shuhada, il lastricato dei martiri della fede.
Voglio fare un ringraziamento a chi scrive tutti questi saggi...da parte di un fanatico della storia...
I sistemi di tortura della Chiesa
"Io voglio scrivere su tutti i muri ovunque siano muri [...] Io chiamo il cristianesimo unica grande maledizione, unica grande intima perversione, unico grande istinto di vendetta [...] Io lo chiamo unico imperituro marchio d'abbominio dell'umanità...".
F.W. Nietzsche, L'Anticristo,
Ecco alcuni strumenti e sistemi di tortura che la Chiesa ha utilizzato per commettere i suoi efferati "crimini contro l'umanità" durante la Santa Inquisizione. Crimini rimasti impuniti!
Il Topo
Tortura applicata a streghe ed eretici. Un topo vivo veniva inserito nella vagina o nell'ano con la testa rivolta verso gli organi interni della vittima e spesso, l'apertura veniva cucita. La bestiola, cercando affannosamente una via d'uscita, graffiava e rodeva le carni e gli organi dei suppliziati. Chissà come i disgraziati riuscissero a sopportare il terrore provocato alla sola vista del topo che da li a poco sarebbe entrato nel suo corpo.
Dissanguamento
Era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato dal dissanguamento o dalla purificazione tramite fuoco del suo sangue. Le streghe condannate erano "segnate sopra il soffio" (sfregiate sopra il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte.
Il Rogo
Una delle forme più antiche di punizione delle streghe era la morte per mezzo di roghi, un destino riservato anche agli eretici. Il rogo spesso era una grande manifestazione pubblica. L'esecuzione avveniva solitamente dopo breve tempo dall'emissione della sentenza. In Scozia, il rogo di una strega era preceduto da giorni di digiuno e di solenni prediche. La strega prima veniva strangolata e poi il suo corpo (In stato di semi-incoscienza) era scaricato in un barile di catrame prima di venire legato a un palo e messo a fuoco. Se la strega, nonostante tutto, riusciva a liberarsi e a tirarsi fuori dalle fiamme, la gente la respingeva dentro.
Le Turcas
Questo mezzo era usato per lacerare e strappare le unghie. Dopo lo strappo, degli aghi venivano solitamente inseriti nelle estremità delle falangi.
La Vergine di Norimberga
La Fanciulla di Ferro o Vergine di Norimberga
L'idea di meccanizzare la tortura è nata in Germania; è li che ha avuto origine "la Vergine di Norimberga". Fu così battezzata perchè, vista dall'esterno, le sue sembianze erano quelle di una ragazza bavarese, e inoltre perchè il suo prototipo venne costruito ed impiantato nei sotterranei del tribunale segreto di quella città. Era una specie di contenitore di metallo con porte pieghevoli; il condannato veniva rinchiuso all'interno, dove affilatissimi aculei trafiggevano il corpo dello sventurato in tutta la sua lunghezza. La disposizione di questi ultimi era così ben congegnata che, pur penetrando in varie parti del corpo, non trafiggevano organi vitali, quindi la vittima era destinata ad una lunga ed atroce agonia.
Pulizia Dell'Anima
Era spesso creduto, nei paesi cattolici, che l'anima di una strega o di un eretico fosse corrotta, sporca e covo di quanto di contrario ci fosse al mondo. Per pulirla prima del giudizio, qualche volta le vittime erano forzate a ingerire acqua calda, carbone, perfino sapone. La famosa frase "sciacquare la bocca con il sapone"' che si usa oggi, risale proprio a questa tortura.
Il Triangolo
Altro terribile strumento di tortura analogo alla "pera" e all'"impalamento". L'accusato veniva spogliato e issato su un palo alla cui estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. La presunta strega veniva fatta sedere in modo che la punta entrasse nel retto o nella vagina. Alla fine alla poveretta venivano fissati dei pesi alle mani e ai piedi...
Immersione Dello Sgabello
Questa era una punizione che più spesso era usata nei confronti delle donne. Volgarmente sgradevole, e spesso fatale, la donna veniva legata a un sedile che impediva ogni movimento delle braccia. Questo sedile veniva poi immerso in uno stagno o in un luogo paludoso. Varie donne anziane che subirono questa tortura morirono per lo shock provocato dall'acqua gelida.
Palo a forma di piramide
Impalamento
Questo strumento, riservato per lo più ai sospetti di stregoneria o agli eretici, era realizzato in tre diverse versioni. La prima consisteva in un blocco di legno a forma di piramide, mentre la seconda, meno letale, aveva l'aspetto di un cavalletto a costa tagliente.
In ambedue i casi, l'indiziata veniva posta a cavalcioni di tale strumento sino a far penetrare la punta, nel primo caso, o lo spigolo nel secondo, direttamente nelle carni, squassando in modo spesso permanente, gli organi genitali. Quasi sempre poi venivano aggiunti dei pesi alle caviglie e sistemati scrupolosamente dei braceri o delle fiaccole accese sotto ai piedi. La terza versione è una delle più rivoltanti e vergognose torture concepite dalla mente umana. Veniva attuata per mezzo di un palo aguzzo inserito nel retto della presunta strega, forzato a passare lungo il corpo per fuoriuscire dalla testa o dalla gola. Il palo era poi invertito e piantato nel terreno, così, queste miserabili vittime, quando non avevano la fortuna di morire subito, soffrivano per alcuni giorni prima di spirare. Tutto ciò veniva fatto ed esposto pubblicamente.
La Strappata
Una delle più comuni e anche una delle tecniche più facili. L'accusato veniva legato a una fune e issato su una sorta di carrucola. L'esecutore faceva il resto tirando e lasciando di colpo la corda e slogando, così, le articolazioni.
Lo Squassamento
Era una forma di tortura usata insieme alla 'strappata'. L'accusato qui veniva sempre issato sulla carrucola, ma con dei pesi legati al suo corpo che andavano dai 25 ai 250 chili. Le conseguenze erano gravissime.
La Culla Della Strega
Questa era una tortura a cui venivano sottoposte solamente le streghe. La strega veniva chiusa in un sacco poi legato a un ramo e veniva fatta continuamente oscillare. Apparentemente non sembra una tortura ma il dondolìo causava profondo disorientamento e aiutava a indurre a confessare. Vari soggetti hanno anche sofferto durante questa tortura di profonde allucinazioni. Ciò sicuramente ha contribuito a colorire le loro confessioni.
Tenaglia
Mastectomia
Alcune torture erano elaborate non solo per infliggere dolore fisico ma anche per sconvolgere la mente delle vittime. La mastectomia era una di queste: la carne delle donne era lacerata per mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Uno dei più famosi casi che si conosca in cui fu usata questa tortura era quello di Anna Pappenheimer. Dopo essere già stata torturata con lo strappado, fu spogliata, i suoi seni furono strappati e, davanti ai suoi occhi, furono spinti a forza nelle bocche dei suoi figli adulti... Questa vergogna era più di una tortura fisica; l'esecuzione faceva una parodia sul ruolo di madre e nutrice della donna, imponendole un'estrema umiliazione.
Annodamento
Questa era una tortura specifica per le donne. Si attorcigliavano strettamente i capelli delle streghe a un bastone. Quando l'inquisitore non riusciva ad ottenere una testimonianza si serviva di questa tortura; robusti uomini ruotavano l'attrezzo in modo veloce provocando un enorme dolore e in alcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto.
La Garrotta
Non è altro che un palo con un anello in ferro collegato. Alla vittima, seduta o in piedi, veniva fissato questo collare che veniva stretto poi per mezzo di viti o di una fune. Spesso si rompevano le ossa della colonna vertebrale.
Il Forno
Questa barbara sentenza era eseguita in Nord Europa e assomiglia ai forni crematori dei nazisti. La differenza era che nei campi di concentramento le vittime erano uccise prima di essere cremate (Ma non sempre).
Il Trono
Il Supplizio Del Trono
Questo attrezzo consisteva in una specie di seggiola gogna, sarcasticamente definita "trono". L'imputata veniva posta in posizione capovolta, con i piedi bloccati nei ceppi di legno. Era questa una delle torture preferite da quei giudici che intendevano attenersi alla legge. Difatti la legislazione che regolamentava l'uso della tortura, prevedeva che si potesse effettuare una sola seduta, durante l'interrogatorio della sospetta. Malgrado ciò, la maggioranza degli inquisitori ovviava a questa normativa, definendo le successive applicazioni di tortura, come semplici continuazioni della prima. L'uso di questo strumento invece, permetteva di dichiarare una sola effettiva seduta, sorvolando sul fatto che questa fosse magari durata dieci giorni. Il "trono", non lasciando segni permanenti sul corpo della vittima, si prestava particolarmente ad un uso prolungato. E' da notare che, talvolta, unicamente a questo supplizio, venivano effettuate, sulla presunta strega, anche le torture dell'acqua o dei ferri roventi.
La Pressa
Anche conosciuta come pena forte et dura, era una sentenza di morte. Adottata come misura giudiziaria durante il quattordicesimo secolo, raggiunse il suo apice durante il regno di Enrico IV. In Bretagna venne abolita nel 1772.
La Cremagliera
Era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva legata su una tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (E in modo preciso sul corpo) fino a slogare tutte le articolazioni.
La Pera
La Pera era un terribile strumento che veniva impiegato il più delle volte per via orale. La pera era usata anche nel retto e nella vagina. Questo strumento era aperto con un giro di vite da un minimo, a un massimo dei suoi segmenti. L'interno della cavità in questione era orrendamente mutilato e spesso mortalmente. I rebbi costruiti alla fine dei segmenti servivano meglio per strappare e lacerare la gola o gli intestini. Quando applicato alla vagina i chiodi dilaniavano la cervice della povera donna. Questa era una pena riservata a quelle donne che intrattenevano rapporti sessuali col Maligno o i suoi familiari.
La sedia delle streghe
Sedia Delle Streghe
La sedia inquisitoria, comunemente detta sedia delle streghe, era un rimedio molto apprezzato per l'ostinato silenzio di talune indiziate di stregoneria. Tale attrezzo, pur universalmente diffuso, fu particolarmente sfruttato dagli inquisitori austriaci. La sedia era di varie dimensioni, diverse forge e fantasiose varianti; tutte comunque chiodate, fornite di manette o blocchi per immobilizzare la vittima ed, in svariati casi, aveva il pianale di seduta in ferro, così da poterlo arroventare. Vengono riportate notizie di processi dai quale risulta come l'uso di questo strumento potesse venir prolungato, sino a trasformarsi in vera e propria pena capitale.
La Ruota
In Francia e Germania la ruota era popolare come pena capitale. Era simile alla crocifissione. Alle presunte streghe ed eretici venivano spezzati gli arti e il corpo veniva sistemato tra i raggi della ruota che veniva poi fissata su un palo. L'agonia era lunghissima e poteva anche durare dei giorni.
Tormentum Insominae
Consisteva nel privare le streghe del sonno. La vittima, legata, era costretta a immersioni nei fossati anche durante tutta la notte per evitare che si addormentasse.
Ordalia Del Fuoco
Prima di iniziare l'ordalìa del fuoco tutte le persone coinvolte dovevano prendere parte a un rito religioso. Questo rito durava tre giorni e gli accusati dovevano sopportare benedizioni, esorcismi, preghiere, digiuni e dovevano prendere i sacramenti. Dopodiché si veniva sottoposti all'ordalìa: gli accusati dovevano trasportare un pezzo di ferro rovente per una certa distanza. Il peso di questo peso era variabile: si andava da un minimo di circa mezzo chilo per reati minori, fino a un chilo e mezzo. Un altro tipo di ordalìa del fuoco consisteva nel camminare bendati e nudi sopra i carboni ardenti. Le ferite venivano coperte e dopo tre giorni una giuria controllava se l'accusato era colpevole o innocente. Se le ferite non erano rimarginate l'accusato era colpevole, altrimenti era considerato innocente. Si poteva aver salva la vita, però, corrompendo i clerici che dovevano officiare la prova: si poteva fare in modo che ferro e carboni avessero una temperatura sufficientemente tollerabile.
Ordalia Dell'Acqua
In questo tipo di ordalìa l'acqua simboleggia il diluvio dell'Antico Testamento. Come il diluvio spazzò via i peccati anche l'acqua 'pulirà' la strega. Dopo tre giorni di penitenze l'accusata doveva immergere le mani in acqua bollente, alla profondità dei polsi. Spesso erano costrette a immergerle fino ai gomiti. Si aspettava poi tre giorni per valutare le colpe dell'accusata (Come per l'ordalìa del fuoco). Veniva messa in pratica anche un'ordalìa dell'acqua fredda. Alla strega venivano legate le mani con i piedi con una fune, in modo tale che la posizione non fosse certo propizia per rimanere a galla. Dopodiché veniva immersa in acqua; se galleggiava era sicuramente una strega in quanto l'acqua 'rifiutava' una creatura demoniaca, se andava a fondo era innocente ma difficilmente sarebbe stata salvata in tempo.
Bello il pezzo sugli hasha-shin
fantastico quello della tortura...
a san gimignano ho visto il museo degli strumenti di tortura...
inquietante
Concordo sul cristianesimo come piaga dell'umanità
ah,ogni tanto spunta qualcuno!!!XDDDDD
Io di musei delle torture ho visto quelli di San marino e di gradara, entrambi bellissimi nel loro suscitare inquietudine ma la cosa ke mi è rimasta + impressa sono state le cinture di castità maskili del museo di gradara ahia ke dolore!!