Lance Henson è un poeta " di razza vagante ": nato a Washington nel 1944 e cresciuto con zii e nonni a Calumet in Oklahoma, presso la sua tribù, porta nel panorama della poesia americana contemporanea la voce " esiliata " dei nativi cheyenne (tsistsistas).
È un Dog Soldier, un guerriero non più delle armi, ma della parola. Per lui, la resistenza al genocidio delle culture native nordamericane va di pari passo con la riconquista del potere espressivo, che rimette in gioco un'identità repressa e negata.
Nato da madre cheyenne e padre francese, frutto egli stesso della violenza coloniale, porta nella sua esperienza personale i segni di una tragedia collettiva: un padre sconosciuto, una madre abusata fin da piccola dai conquistatori, un fratello suicida. Ma Henson, grazie all'esperienza poetica, compie un gesto forte di resistenza all'annientamento del suo popolo e alla condizione di senza-parola. Le sue poesie sono dichiarazioni, testimonianze di un'identità culturale oltre che personale, di una storia dolorosa, di ciò che è perduto e di ciò che rinasce, con la caparbia fiducia nella naturale ciclicità del rinnovamento che da sempre appartiene alla sua gente.
Henson adotta la lingua che è stata imposta al suo popolo, l'inglese, ma lo fa rifiutando alcune regole e convenzioni della lingua scritta, come l'uso della punteggiatura e delle maiuscole, e si affida alle forme della tradizione orale e al ritmo dei canti cheyenne per raccontare le storie della sua gente, i destini sempre simili delle minoranze, la natura, gli affetti personali e gli attimi del quotidiano che rivelano anch'essi le energie, gli equilibri e le fratture del mondo. Per oggi ho scelto poetry for rwanda.
yers ago homeless in a san francisco
rainstorm
I dreamt of a field of white
skulls
in a muddy field in rwanda
the only darkness the holes where their eyes
were
a whisky presence and dutch army coat the
only saving
grace against the other images
of sand creek and wounded knee
knowing the stench or dying hope and terror
have the same name and smell
and the name is missing...
what is the name of a man or a woman or a child
whose last breath is a scream
against tyranny
against the fear that lives inside us
near a busy oklahoma interstate
along the washita river
the fallen cheyenne stiel whisper
hi niswa vita kini...
we will live again...
Anni fa, navigando in un temporale a San Francisco
ho sognato un campo bianco di teschi
In un terreno fangoso in Ruanda
le uniche macchie scure, le cavità dove prima c'erano i loro occhi
Una presenza di whisky e un cappotto militare olandese
l' unica grazia salvifica contro le altre immagini
di Sand Creek e Wounded Knee
sapendo che il fetore della speranza che muore e del terrore hanno lo stesso nome e lo stesso odore
E il nome è perso...
Qual è il nome di un uomo o di una donna o di un bambino
Il cui ultimo respiro è un grido contro la tirannia
contro la paura che vive dentro di noi
Vicino a un'interstatale trafficata in Oklahoma lungo il fiume Washita
I Cheyenne caduti ancora sussurrano
hi niswa vita kini...
Vivremo ancora...
" L'innocenza è sempre un paradosso, e Dylan Thomas, rappresenta, in retrospettiva, il più grande paradosso del nostro tempo ". Così scriveva nel necrologio del poeta l'amico Vernon Eatking. La fama di Thomas fu anche frutto della stampa americana e di un sistema che proprio in quegli anni, sia in Usa che in Inghilterra, estendeva alla letteratura un insopprimibile bisogno di impatto mediatico che era tipico della musica (basti pensare ai bagni di folla di Elvis Presley o dei Beatles). Ma ciò che più colpiva i suoi lettori, quegli stessi che subivano l'irresistibile fascino della sua figura al podio, della sua capacità di inventare una straordinaria sonorità comunicativa, di offrire alla platea una cifra recitativa incalzante e avvolgente, era la sua capacità di coniugare con assoluta naturalezza "innocenza" e contaminazione, esprimendo l'incanto quotidiano della forza innovativa della natura attraversata dai germi della corruzione, delle stagioni che si chiudono in se stesse per aprirsi al richiamo della rinascita vegetale, delle costellazioni che alternano, col loro freddo brillare, metafore siderali ed esplosioni stellari dense di calore e di sconvolgimenti, fino a concentrarsi nel microcosmo dell'anima, creando densi e organici corrispettivi tra l'universo e un'infinitesimale foglia sospinta dalla forza sotterranea e rigenerante della sua verde linfa.
L'innocenza di Thomas non era solo un'attitudine accattivante, ma un modo di affacciarsi sulla scena poetica con lo stupore del bambino.
Per oggi ho scelto una poesia oscura e visionaria, selvaggia e parzialmente costruita, fitta di simboli biblici e freudiani. Il testo di questa bellissima e cupa poesia costruisce una composizione affine a quella musicale e dunque si offre come un canto.
And death shall have no dominion
And death shall have no dominion.
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again;
Though lovers be lost love shall not;
And death shall have no dominion.
And death shall have no dominion.
Under the windings of the sea
They lying long shall not die windily;
Twisting on racks when sinews give way,
Strapped to a wheel, yet they shall not break ;
Faith in their hands shall snap in two,
And the unicorn evils run them through;
Split all ends up they shan't crack;
And death shall have no dominion.
And death shall have no dominion.
No more may gulls cry at their ears
Or waves break loud in the seashores;
Where blew a flower may a flower no more
Lift its head to the blows of the rain;
Though they be mad and dead as nails,
Heads of the characters hammer through daisies;
Break in the sun till the sun breaks down,
And death shall have not dominion.
E la morte non avrà dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l'uomo nel vento e la luna d'occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscono saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l'amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
Si spaccherà la fede in quelle mani
E l'unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
E la morte non avrà dominio.
E la morte non avrà dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché pazzi e morti stecchiti;
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà,
E la morte non avrà più dominio.
“Il "cante jondo" si accosta al ritmo degli uccelli, alla musica istintiva del nero pioppo e delle onde; è semplice nella sua forma e desuetudine. È anche un raro esempio di canzone primitiva, la più vecchia di tutta l'Europa, laddove i ruderi della storia, i suoi lirici frammenti sono divorati dalla sabbia, esso appare vivo come al primo mattino di sua vita.”
Nel cuore dell'Andalusia, tra le sonorità intimistiche del flamenco. Federico García Lorca aveva molto a cuore il recupero e la valorizzazione del patrimonio della musica tradizionale andalusa, e tracce vivide di questa sensibilità si riscontrano nella sua poesia come nelle sue opere teatrali - nelle quali, peraltro, il confine tra teatro, musica e poesia tende sovente a sfumare.
Il Cante Jondo - tradotto: canzone profonda - è una delle forme del flamenco, e dà il titolo all'omonimo Poema in cui Lorca raccolse una serie di poesie scritte nel '21. All'interno della raccolta, i Seis caprichos sono dedicati all'amico chitarrista Regino Sáinz de la Maz, conosciuto nel 1920 alla Residencia de Estudiantes. Di questi, Chumbera è la mia poesia del giorno.
Chumbera
Laoconte salvaje.
¡Qué bien estás
bajo la media luna!
Múltiple pelotari.
¡Qué bien estás
amenazando al viento!
Dafne y Atis,
saben de tu dolor.
Inexplicable.
*
Fico d'India
Laocoonte selvaggio
Come sei bello
sotto la mezzaluna!
Multiplo giocator di pelota.
Come sei bello
quando minacci il vento!
Dafne e Attis
conoscono il tuo dolore.
Inesplicabile.
Di Bartolo Cattafi si è sempre parlato poco; qualcuno ha scritto che il suo è stato il caso più clamoroso di sottovalutazione critica. I motivi sono molteplici; tanti per dirne qualcuno, la sua scarsa attitudine autopromozionale e la sua assoluta refrattarietà a ogni programma poetico condiviso. Cattafi rimase sempre una figura appartata, non perché gli mancassero amici e estimatori influenti (da Sereni a Raboni), ma per scelta.
Autore metamorfico, in grado di alternare una figurativita' accesa, palpitante, policroma, ad una figurativita' inquietante, paradossale. La sua è una sorta di poesia molecolare, una poesia dei frammenti, delle particelle. La sua epigrammaticita' fulminea e fulminante fa spesso ricorso alla metafora del vuoto e della solitudine per delineare l'amaro bilancio di una generazione che ha vissuto la giovinezza durante il ventennio fascista, per poi assistere agli orrori della seconda guerra mondiale.
I suoi versi abitano nell'oltretempo. Sono lì, come un sigillo. Inossidabili.
Per oggi ho scelte alcune poesie da varie raccolte.
Partenza da Greenwich
Si parte sempre da Greenwich
dallo zero segnato in ogni carta e in questo
grigio sereno colore d'Inghilterra.
Armi e bagagli, belle
speranze a prua,
spezzando le tavole dei numeri
i calcoli che scattano scorrevoli
come toppe addolcite
da un olio armonioso, in un'esatta
prigione.
Troppe prede s'aggirano tra i fuochi
delle Isole, e navi al largo,
piene, panciute, buone
per essere abbordate dalla ciurma
sciamata ai Tropici
votata alla cattura
di sogni difficili, feroci.
Ed alghe, spume,
in fondo azzurro in cui
pesca il gabbiano del ricordo
posati accanto al grigio
disteso colore
degli occhi, del cuore, della mente,
guamo australe ai semi
superstiti del mondo.
Allo scoperto
Usciti allo scoperto
corremmo a scatti
ci acquattammo
tornammo a correre
di colpo diventammo ombre
nell'ombra più fonda
da dove con occhi scintillanti
guardiamo altri uscire allo scoperto
correre a scatti
acquattarsi
rialzarsi a correre
a diventare ombre.
Perderci la vita
Perderci la vita
battendo quel solo chiodo
estendendo il dominio a quel centimetro
là concentrandolo
sprofondare
fare l'abisso con le proprie mani
spezzettare in atomi
molecole
rompere anche gli atomi
la polvere che resta sulle dita
ti segna in eterno
indossa guanti
metti le mani in tasca
tagliati le mani.
Marzo e le sue idi
Di tutto diffido
del pugnale di Bruto
della tenera carne di Cesare
dello stesso destino.
Che passi presto il tempo
vengano alfine marzo e le sue idi.
Aspettami. Un istante
Aspettami. Un istante.
Appena il tempo di correre all'emporio
prima che chiuda
all'angolo di fronte.
Fuma leggi bevi
nel frattempo.
Una corda fiammiferi coltello
molti cibi in conserva
pistola con cartucce relative
coperte per i climi inospitali
cloro compresse
da sciogliere nell'acqua perigliose
pillole per il cuore
una pila una bussola una mappa
bianca da colmare.
E talismani. Auguri per il cuore
per la noce del collo
l'anima la vita.
Sull'alto sgabello appollaiata
chiuse il giornale
strinse un po' i ginocchi
che aveva divaricati
sorrise con la bocca
non con gli occhi.
Ti ho aspettato disse
Andiamo.
Niente
È questo che porti arrotolato
con cura, piegato
in quattro, alla rinfusa
sgualcito spiegazzato
ficcato ovunque
negli angoli più oscuri.
Niente da dichiarare
niente
devi dire niente.
Il doganiere non ti capirebbe.
La memoria è sempre un contrabbando.
Nero su bianco
La penna non è stata posata sulla carta
la carta è ancora tutta bianca
bianca è la data
bianchi luogo ora
provenienza destinazione
perché percome
perché percome e quando
chino sulla mia vita scrivo
l'atto di presenza
mi effondo mi circondo di parole
copro colmo comando
parole
l'assenza certifico
attesto la finzione.
Oggi, tra le tante opere che potrebbero citarsi, trovo questi versi leopardiani particolarmente adatti.
Nelle sensazioni provate da Alceta di fronte all'assenza della luna, c'è tutto un mondo: "Allor mirando in ciel, vidi rimaso / Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, / Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, / Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro".
Frammento XXXVII - Odi, Melisso.
ALCETA
Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all’improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s’approssimava,
Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea
Sì forte come quando un carbon vivo
Nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,
E ne fumavan l’erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,
Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,
Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.
MELISSO
E ben hai che temer, che agevol cosa
Fora cader la luna in sul tuo campo.
ALCETA
Chi sa? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?
MELISSO
Egli ci ha tante stelle,
Che picciol danno è cader l’una o l’altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.
Secondo il poeta francese Yves Bonnefoy, una delle voci più importanti in assoluto della poesia del Novecento, scomparso da qualche anno, " La poesia sgorga da profondità inconsce : è sempre un gesto del tutto imprevisto ed imprevedibile".
Alla soglia dei novant'anni scrive "L' heure présente", un libro che apre alla meditazione, che coinvolge una serie impressionante di immagini, brandelli di figure e simboli, che lavora con rigore sulla scala cangiante della forma, sull'essenzialita' di una parola sempre più asciutta e potente, in un tono allo stesso tempo solenne e discreto, controllatissimo. Bonnefoy compone un testo articolato in una serie di composizioni in versi e di prose poetiche nelle quali sembra di veder riaffiorare quei bagliori misteriosi, onirici che la mente reprime e allontana nel normale tempo di veglia.
Per oggi ho scelto Soient Amour et Psyche' . Quello di Amore e Psiche è uno dei miti più affascinanti che il mondo classico abbia mai tramandato e su cui gli autori hanno versato fiumi d'inchiostro nel tentativo di dargli un'interpretazione ideale. Un mito la cui fama è durata nel tempo attraverso i secoli. Basti pensare che sono numerosissime e vaste le rappresentazioni musicali, letterarie e aristiche ad esso dedicate. Bonnefoy dunque presenta il mito "epifanico"per eccellenza, quello del contrasto tra la forma reale (l'aspetto abbagliante di Amore/Cupido) e forma immaginaria (l' aspetto del suo amante come Psiche lo immaginava).
I
Ces mains qui se prenaient à elle dans la nuit,
Elle les ressentait sans nombre, ne cherchait
À leur donner figure. Il lui fallait
Ne pas savoir, désirant ne pas être.
Âme et corps, pour nouer vos doigts, unir vos lèvres,
Faut-il vraiment l'approbation des yeux ?
Peinent nos yeux, qu'oblige de langage
À déjouer sans répit trop de leurres!
Psyche' avait aimé que ne pas voir,
Ce soit comme le feu quand il enveloppe
L' arbre d'ici des autres mondes de la foudre.
Éros, lui, désirait garder tout ce visage
Entre ses mains, il ne l' abandonnait
Qu'à grand regret aux caprices du jour.
II
Et tout le jour Psyche' est-elle aveugle, non,
Elle a tiré sur soi le drap de la lumière.
C'est l'été, tout est immobile sous le ciel,
Même le fleuve en son lit en désordre.
Elle va dans son corps, et seule. Ma voici
Qu'un étranger réclame, dans son sang,
C'est comme si l'esprit se désirait autre
Que soi, un embryon dans le sein de la mort.
Heureux le mond où déborde la nuit
Dans le jour, et ruisselle sous la lumière.
Avancer dans cette eau, jusqu'aux genoux,
C'est se tourner vers un autre soleil,
Est le fond de la mer est rouge, puis on nage
Et tout se perd de ce qu'on a été.
III
Et Psyche' s'engourdit, le soir venant, elle aime
Que batte dans son corps le cœur d'un autre
Elle veut n'être plus que cette chambre sombre
Des enfants de la nuit, sommeil et mort.
C'est comme quand on touche à un moroir
Et que des doigts y viennent vers le nôtres,
Psyche' croit qu'une main y prend la sienne,
Pour la guider vers plus que ce qui est.
Vers plus? Ce sont des marches qui descendent,
Et le corps se fatigue, les mains se crispent
Sur une lourde lampe, les genoux plient.
Psyche', pourquoi veux-tu, de ton épaule nue,
Pousser la porte où gît ton avenir ?
Tu entres, tu entends ces souffles paisibles.
IV
Et a-t-elle allumé, à mains tremblantes,
Cette petite flamme ? Plus vite qu'elle
S'est jeté dans l'immage, cette paix,
Quelque chose de noir, avec un cri.
Amour dort-il, non, ses yeux sont ouverts,
Mais ce ne sont que des orbites vides,
Deux trous, avec du sang; est-il aveugle ?
Pire, ses yeux ont été attachés.
Grand mouvement de ce grand corps qu'eveillent
Quelques gouttes de l'huile, qui le brûlent.
Tu erreras, dans le ronces du monde.
Il se redresse, il parle, que dit-il?
Il attire la dévêtue contre son cœur,
Il écoute ses grands sanglots que rien n'apaise.
I
Quelle mani che si avvinghiavano a lei di notte,
Le sentiva innumerevoli, non cercava
Di dar loro un volto. Le occorreva
Non sapere, desiderando non essere.
Anima e corpo, per stringere le vostre dita, unire le vostre labbra,
Davvero occorre l'approvazione degli occhi?
Penano i nostri occhi, che il linguaggio obbliga
A sventare senza posa troppi inganni!
Psiche aveva amato che il non vedere
Fosse come il fuoco quando avvolge
L'albero di qui degli altri mondi della Folgore.
Eros, lui desiderava tenere tutto quel volto
Tra le mani, non l'abbandonava
Che con vivo rammarico ai capricci del giorno.
Il
E per tutto il giorno Psiche è cieca?No,
Ha rimboccato su di sé il lenzuolo della luce,
È estate, tutto è immobile sotto il cielo,
Anche il fiume nel suo letto in disordine.
Lei avanza, nel suo corpo, e sola. Ma ecco
Che un estraneo invoca, nel suo sangue,
È come se lo spirito si desiderasse altro
Da sé, un embrione in seno alla morte.
Felice il mondo in cui la notte trabocca
Nel giorno, e gronda sotto la luce.
Avanzare in quest'acqua, fino alle ginocchia,
È volgersi verso un altro sole,
E il fondo del mare è rosso, poi si nuota
E tutto si perde di ciò che si è stati.
III
E Psiche, s'intorpidisce, quando viene sera, ama
Che batta nel suo corpo il cuore di un altro,
Vuole non essere altro che questa camera buia
Dei bambini della notte, sonno e morte.
È come quando tocchiamo uno specchio
E dita vengono incontro alle nostre,
Psiche crede che una mano afferri la sua,
Per condurla verso più di ciò che è.
Verso più? Sono scalini che digradano,
E il corpo si stanca, le mani si aggrappano
A una greve lampada, le ginocchia si piegano.
Psiche, perché vuoi, con la tua spalla nuda,
Spingere la porta in cui giace il tuo avvenire?
Tu entri, tu senti quei quieti respiri.
IV
E lei ha acceso, con mani tremanti,
Questa fiammella? Più svelto di lei
Si è lanciato nell'immagine, questa pace,
Qualcosa di nero, con un grido.
Amore dorme? No, i suoi occhi sono aperti,
Ma sono solo orbite vuote,
Due buchi, insanguinati. È cieco?
Peggio, i suoi occhi sono strappati.
Grande moto di questo gran corpo che ridesta
Qualche goccia d'olio, che lo brucia.
Tu errerai, tra i rovi del mondo.
Si rialza, parla, che dice?
La attira svestita contro il suo cuore,
Ascolta i suoi gran singulti che nulla placa.
Aleksandr Blok, il più grande poeta dell'epoca d'argento russa, pubblico' a ventiquattro anni una delle sue opere fondamentali, quei Versi della Bellissima Dama che lo rivelarono immediatamente come il caposcuola della poesia simbolista. Ma la poesia di Blok raggiunse Il culmine della sua intensità lirica nelle opere di poco successive, quando " la bellissima Dama, l'ipostasi femminile della divinità, che nel metafisico e immobile disegno simbolista doveva essere la metafora dell'ineffabile incontro con la realtà più reale, d'improvviso si vanifica, si rifiuta all'amante, e la Bellissima si fa Sconosciuta ", volgendo il metafisico in una più amara esperienza esistenziale.
Con Gogol' e Dostoevskij, Blok è stato l'uomo che ha creato il mito di Pietroburgo. La Pietroburgo di Gogol' è il Nevskij, sono le vie del centro percorse da nasi, impiegati sull'orlo della follia; la Pietroburgo di Dostoevskij è quell'intrico di canali che racchiude il centro, è la piazza Sennaja, sono i vicoli; quella di Blok è le bettole, i bordelli, le sequenze di cortili. Poeta camminatore, Blok ha un amore per la vita ( Ljubov' che sposa nel 1901 ), molte avventure ( la maggior parte attrici ) e migliaia di sfoghi sessuali che egli, a volte, racconta nelle liriche. I pietroburghesi, nei primi anni del secolo, leggevano i suoi versi anche come una sorta di diario intimo scritto in pubblico. Nel 1906 Blok crea un mito: La sconosciuta. Blok è al ristorante, beve, attorno ci sono ubriachi che ridono e cantano e brindano. Poi, come ogni sera, nell'ora stabilità, ( o è soltanto un sogno ? ) una figura di fanciulla di muove nella nebbia della finestra. La sconosciuta cammina tra gli ubriachi, si siede: è una visione fatta di piume di struzzo e veletta, ma Blok vi vede rive incantate e lontananze. Così la canta, la sogna, la desidera: ne fa una dea dei bassifondi. Blok canta la bellezza quando è vicina alla catastrofe, perché per lui c'è bellezza soltanto quando si intravede lo sfacelo. Le eroine evanescenti bolkiane sono le prostitute delle vie di San Pietroburgo, proiettate in un aurea da parabola biblica, ambigue parvenze che acquistano a tratti la sublimità metafisica di creature umiliate da una inesorabile sorte. Stessa cosa si potrebbe dire per gli umiliati e offesi di Dostoevskij, solo che questi ultimi sono terreni: soffrono, cercano una redenzione, un'impennata morale; in Blok essi sono trasfigurati, possiedono qualcosa di sovrannaturale e si fanno tramite con l'infinito, sono parte della luce e del canto di Pietroburgo, e sono belli così come sono. Per questo Blok scrive di saltimbanchi, di zingare, di Pierrot e Arlecchini, di orde di popoli barbari ( Gli Sciti, altro grande poema del 1918): sono figure che ballano, bevono e lottano mentre muoiono o si danno per poco. Nella loro disgrazia, nella loro impossibilità di redimersi risiede la disperata bellezza che Bolk canta.
Nelle serate sui ristoranti
l'aria ardente è sorda e selvaggia
e governa le grida degli ubriachi
lo spirito insano della primavera.
Lontano, sulla polvere dei vicoli,
sulla noia delle ville suburbane,
s'indora la ciambella d'un fornaio,
e riecheggia un pianto infantile.
E ogni sera, oltre le barriere,
con il cappello sulle ventitré,
passeggiano fra i borri con le dame
i navigati buontemponi.
Sopra il lago scricchiolano gli scalini,
e risuona uno strillo femminile,
mentre nel cielo, avvezzo a tutto,
stupidamente il disco s'incurva.
Ed ogni sera l'unico mio amico
si riflette nel mio bicchiere
e dell'aspro e misterioso liquido
è come me stordito e sottomesso.
Mentre di fianco, ai tavoli vicini,
sonnolenti lacchè stanno impalati,
e gli ubriachi con occhi di coniglio
gridano: << In vino veritas! >>.
E ogni sera, all' ora stabilità,
( o è soltanto un sogno? )
una figura di fanciulla avvolta di seta
si muove nella nebbiosa finestra.
E, passando fra gli ubriachi, lentamente,
sempre senza compagni, sempre sola,
esalando nebbia e profumi,
va a sedersi vicino alla finestra.
Ed emanano antiche credenze
le sue elastiche vesti di seta,
e il cappello con piume di lutto
e la sottile lama inanellata.
E, avvinto dalla strana vicinanza,
guardo di là della scura veletta,
e vedo una riva incantata
e una incantata lontananza.
Cupi misteri mi sono confidati,
mi è affidato un sole sconosciuto,
e un viso aspro ha permeato
tutti i meandri dell'anima mia.
E le oblique piume di struzzo
si dondolano nel mio cervello,
e gli occhi turchini senza fondo
fioriscono su una remota riva.
Nella mia anima giace un tesoro,
la cui chiave è affidata solo a me!
Tu hai ragione, mostro ubriaco!
Lo so, nel vino è la verità.
Nel Cyrano Rostand fa dire al suo personaggio che si rivolge a Rossana :" ... è grazie a te che nella mia vita è passato il fruscio di una veste... ".
Accade a molti poeti di avere passioni che si sviluppano nei luoghi più ombrosi dell'anima, e vivono pericolosamente sbilanciate dalla parte del sogno. Amori irrequieti, nostalgici, infantili, teatrali, irragionevoli. Perseguono obiettivi irrealizzabili. Giudicano il pensiero più appagante della corporeità, all'atto preferiscono la potenza, alla consumazione il desiderio.
Nelle Cento poesie d'amore a Ladyhawke Michele Mari racconta un amore così.
Ti ho sempre riassunta per me
nei tuoi occhi
Così hai dominato i miei pensieri
sotto la forma dell'ellissi indiana
dove su bianco smalto l'iride
si vetrifica attorno alla pupilla
Così sognarti
è sempre stato guardare da lontano due fuochi fatui
in un cimitero celtico
Così la tua immagine
è l'ultima che vede di notte il guidatore
prima del frontale
*
Ti ho amata sempre nel silenzio
contando sull'ingombro
di quell'amore
e di quel silenzio
ed anche quando poi ci siamo scritti
la profilassi guidava la mia mano
perché ogni senso
fosse soltanto negli spazi bianchi
e nondimeno mi sentivo osceno
come se la più ermetica allusione
grondasse la bava del questuante
Mai in ogni caso dubitai
che tu sapessi
finché scoprimmo insieme
di esser vissuti trent'anni nell'errore
tu ignorando
io presumendo
e allora in un punto è stato chiaro
che solo al muto
il battito del cuore
è rimbombante
*
La fiaba degli amanti
cui un maleficio tolse
d'incontrarsi
(donna di notte lei
e con la luce falco
lui con la luce uomo
e nottetempo lupo)
ci piacque tanto che per un bel pezzo
ci siamo firmati Knightwolf e Ladyhawke
finché capimmo
l'inutilità della speranza di ritrovarci insieme
nell'umano
il nostro più ambizioso traguardo
essendo di confondere
il pelo con le piume
*
I poeti latini
avevano una splendida espressione
per indicare le stelle che cadono in estate:
labentia signa
cioè segni scivolanti
Tale mi sembra il tempo
in cui ci siam baciati
scia luminosa
passata troppo in fretta
L'astrofisica insegna tuttavia
che quel teatro
caro ai bambini ed agli innamorati
non è caduta e non è scivolamento
ma solamente morte
*
È degli addii
fissare per sempre
le posizioni
Fossi sparita tu
il lascito sarebbe un frullo d'ali
e il lutto
avrebbe il colore dell'aurora
Avendomi chiesto che fossi io a sparire
mi resta la memoria della mano
che ho lungamente lambito con la lingua
prima di rinselvarmi
nella foresta dove sempre è notte
Albert Camus si è distinto soprattutto per il suo modo di vedere la vita. È famoso per la sua letteratura umanistica. Ispiratosi alla filosofia di Nietzsche, enfatizza soprattutto l'assurdità delle condizioni umane, sforzandosi di spingere il lettore a prendere coscienza e ad adottare una certa prospettiva attraverso le sue opere letterarie. Nelle sue opere parla essenzialmente della crisi spirituale della nostra epoca nel quadro delle manifestazioni religiose, politiche e artistiche. Camus ci ha lasciato un'eredità letteraria che vuole spingerci ad avere il coraggio di vedere noi stessi, con le nostre miserie, le nostre ossessioni, le nostre virtù, i nostri inganni e le nostre capacità.
La poesia che ho scelto per oggi è Invincible été. Tutte le nostre speranze vivono in noi, nei nostri atteggiamenti e nelle prospettive che siamo in grado di adottare in ogni momento. Quando consideriamo ciò che siamo attraverso i nostri successi e ciò che abbiamo, diamo valore a ciò che si trova al di fuori di noi stessi. È facile e prevedibile che questo valore così superficiale sia effimero e che, prima o poi, venga facilmente distrutto. Quando, invece, diamo valore a ciò che siamo, accettando le nostre difficoltà e le nostre paure, impariamo a poter contare su noi stessi di fronte a qualsiasi delusione e frustrazione.
Mon cher,
Au milieu de la haine, j'ai trouvé qu'il y
avait, en moi, un amour invincible.
Dans le milieu des larmes, j'ai trouvé qu'il y
avait, en moi, un sourire invincible.
Au milieu du chaos, j'ai trouvé qu'il y avait,
en moi, un calme invincible.
J'ai réalisé, à travers tout cela, qu...
Au milieu de l'hiver, j'ai trouvé qu'il y avait,
en moi, un été invincible.
Et cela me rend heureux. Car il dit que peu
importe comment le monde pousse contre
moi, en moi, il y a quelque chose plus fort -
quelque chose de mieux, poussant de retour.
Mia cara,
nel bel mezzo dell'odio
ho scoperto che vi era in me
un invincibile amore.
Nel bel mezzo delle lacrime
ho scoperto che vi era in me
un invincibile sorriso.
Nel bel mezzo del caos
ho scoperto che vi era in me
un'invincibile tranquillità.
Ho compreso, infine,
che nel bel mezzo dell'inverno,
ho scoperto che vi era in me
un'invincibile estate.
E ciò che mi rende felice.
Perché afferma che non importa
quanto duramente il mondo
vada contro di me,
in me c'è qualcosa di più forte,
qualcosa di migliore,
che mi spinge subito indietro.
Il grande Rafael Alberti amava uno stile potente, enigmatico, evocativo. Nel primo anno del suo doloroso esilio in Argentina si dedica alla raccolta Tra incudine e martello. Tutti i testi mantengono la tipica ambiguità giocata su metafore visive. Nasce così anche Si sbagliò la colomba, tutta da interpretare. Nel '41 un compositore di Santa Fe', Gustavino, pensa di inserirla in un grande balletto di 4/5 scene, con orchestra e coro. Alberti accetta l'invito e insieme decidono il primo "ritocco". Nella poesia originale "l'equivoco'" c'era una sola volta, mentre qui diventa un tormentone. E resterà così. L'opera ha successo, ma si perde nel clima di guerra di quegli anni. Gustavino allora ne fa una versione piano e contralto, poi nel '52 deposita una versione per coro e voci. Per chi ama la poesia spagnola e odia la guerra, la colomba diventa il simbolo di una pace sempre rimandata e messa in discussione. Nel '63 Alberti viene in Italia e qualche anno dopo Luis Enriquez Bacalov (collaboratore Fonit Cetra e Rca ) ottiene da Alberti di rivedere l'arrangiamento di Gustavino facendolo più serrato e incisivo. Per Sergio Endrigo è una sfida originale. Sforna quindi una versione italiana molto rispettosa di quella "argentina". Ha voglia di sganciarsi dal ruolo di autore malinconico e legato all'amore: ma, a sentire Alberti in quegli anni, anche la Colomba è in realtà un testo d'amore, per un amante che confessa i propri limiti, ma non riesce a offrire una certezza al rapporto. In parallelo la Paloma con arrangiamento italiano diventa un successo di tutta l'America Latina, grazie a Joan Manuel Serrat.
Se equivocó la paloma.
Se equivocaba.
Por ir al norte, fue al sur.
Creyó que el trigo era agua.
Se equivocaba.
Creyó que el mar era el cielo;
que la noche, la mañana.
Se equivocaba.
Que las estrellas, rocío;
que la calor; la nevada.
Se equivocaba.
Que tu falda era tu blusa;
que tu corazón, su casa.
Se equivocaba.
( Ella se durmió en la orilla.
Tú, en la cumbre de una rama. )
Si sbagliò la colomba.
Si sbagliava.
Per andare al nord fuggì al sud.
Credette che il grano fosse acqua.
Si sbagliava.
Credette che il mare fosse cielo;
e la notte la mattina.
Si sbagliava.
Credette che le stelle fossero rugiada;
e il calore neve.
Si sbagliava.
Credette che la tua gonna fosse una blusa
e il tuo cuore la sua casa.
Si sbagliava.
( Lei si addormentò sulla spiaggia.
Tu, sulla cima di un ramo.)
Antonio Machado, come altri autori della Generazione del '98, con la sua poesia cerca di risvegliare le coscienze degli spagnoli in un momento di crisi politica ed esistenziale del Paese. Tra le sue opere maggiori c'è Campos de Castilla (1912), appartenente alla seconda fase della sua esperienza politica, in cui si sente forte la meditazione nel rapporto tra la dimensione dell'effimero e quella dell'eterno. I suoi versi in questa raccolta sono proiettati al "fuori", osservando con occhi spalancati il paesaggio castigliano e gli uomini che lo abitano. L'esperienza di Machado vissuta in terra castigliana diventa esperienza letteraria. Egli sceglie gli aspetti eroici e mitici per descrivere la Castiglia. Nelle qualità di questa terra, egli indica la possibilità di superare lo stato di marasma in cui la Spagna si trovava a livello politico e sociale. Leggere Machado significa godere della bellezza della parola e della verità.
La poesia che ho scelto per oggi è contenuta nella sezione Proverbios y cantares (poesia indicata con il numero XXIX) e conosciuta come Caminante no hay camino.
Antonio Machado pensa al cammino dell'essere umano. Il fonema "camino" per la cultura spagnola possiede una forte connotazione semantica: è il fato a cui non ci si può ribellare, è il cammino per Santiago di Compostela che rappresenta il sentiero per giungere al dio cristiano, è il disegno divino che sta in mente Dei. Machado si ribella a questa credenza, pensa che una strada già tracciata non esista. La poesia è un'esortazione a vivere appieno e a non sottrarci alle scelte: il punto dove siamo non è nient'altro che il luogo dove i nostri passi ci hanno portato. È una poesia per quei momenti della vita che impongono coraggio, la poesia adatta per quando ci si trova su un burrone e non si sa se saltare o no.
Todo pasa y todo queda
pero lo nuestro es pasar,
pasar haciendo caminos,
caminos sobre la mar.
Nunca perseguí la gloria,
ni dejar en la memoria,
de los hombres mi canción;
yo amo los mundos sutiles,
ingrávidos y gentiles
como pompas de jabón.
Me gusta verlos pintarse de sol y grana,
volar bajo el cielo azul,
temblar súbitamente y quebrarse...
Nunca perseguí la gloria.
Caminante son tus huellas el camino y nada más;
Caminante, no hay camino se hace camino al andar.
Al andar se hace camino
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante no hay camino sino estelas en la mar...
Hace algún tiempo en ese lugar
donde hoy los bosques de visten de espinos
se oyó la voz de un poeta gritar
Caminante no hay camino, se hace camino al andar...
Golpe a golpe, verso a verso...
Murió el poeta lejos del hogar
le cubre el polvo de un país vecino.
Al alejarse le vieron llorar.
<<Caminante, no hay camino, se hace camino al andar...>>
Golpe a golpe, verso a verso...
Cuando el jilguero no puede cantar
cuando el poeta es un peregrino,
cuando de nada nos sirve rezar.
Caminante no hay camino, se hace camino al andar.
Golpe a golpe, verso a verso.
Tutto passa e tutto resta,
però il nostro è passare,
passare facendo sentieri,
sentieri sul mare.
Mai cercare la gloria,
né di lasciare alla memoria
degli uomini il mio canto,
io amo i mondi sottili,
lievi e gentili,
come bolle di sapone.
Mi piace vederle dipingersi
di sole e scarlatto, e volare
sotto il cielo azzurro, tremare
improvvisamente e disintegrarsi...
Mai cercare la gloria.
Viandante, sotto le tue orme
il sentiero e niente più;
Viandante, non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando.
Camminando si fa il sentiero
e girando indietro lo sguardo
si vede il sentiero che mai più
si tornerà a calpestare.
Viandante non esiste il sentiero,
ma solamente scie nel mare...
Un tempo in questo luogo dove
ora i boschi si vestono di spine,
si udì la voce del poeta gridare
<<Viandante non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando...>>
Colpo a colpo, verso a verso...
Il poeta morì lontano dal focolare.
Lo copre la polvere di un paese vicino.
Allontanandosi lo videro piangere.
<<Viandante non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando...>>
Colpo a colpo, verso dopo verso...
Quando il cardellino non può cantare.
Quando il poeta è un pellegrino,
quando non serve a nulla pregare.
<<Viandante non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando...>>
Colpo a colpo, verso dopo verso.
Era il 1958 quando Lawrence Ferlinghetti affermava :" La poesia che si è fatta udire di recente è ciò che potrebbe essere chiamata "poesia di strada". Perché consiste nel far uscire il poeta dal suo interiore santuario estetico, dove troppo a lungo è rimasto a contemplare il suo complicato ombelico. Consiste nel riportare la poesia nella strada dove era una volta, fuori dalle classi, fuori dalle facoltà e in realtà fuori dalla pagina stampata. La parola stampata ha reso la poesia silenziosa." Queste parole sono forse il manifesto migliore di tutto il movimento Beat.
Ferlinghetti, cent'anni (nato il 24 marzo del 1919), quaranta libri, sessant'anni di dipinti, e una libreria aperta al 261 di Columbus Avenue, San Francisco: la Città Lights Books, nome ispirato a Charles Chaplin, Luci della città, e col permesso di usarlo rispettosamente chiesto allo stesso Chaplin.
Poeta dell'arte insorgente, lui che ha sempre saputo raccontarlo coi suoi versi - cascate di sprizzi luminosi e pietre rotolanti, maestro indiscusso dell' enjambement che poi è il senso della sua visione del mondo, il correlativo poetico della sua idea intima delle cose, che sono ricche e frante, continue ed interrotte, uniformi e difformi, il mondo nella sua varietà complessa e giocosa.
L' italo-franco-portoghese-americano Lawrence Ferlinghetti è un viaggiatore vagabondo sempre capace di succhiare la vita goccia a goccia, un cosmopolita senza dogmi né frontiere.
"Tutto quello che ho sempre voluto fare, era dipingere luce sui muri della vita", ama ripetere, e questo dice tutto del suo approccio al reale: una sorta di meditazione lirica di ciò che è autenticamente umano e allo stesso tempo tende all'eterno, un canto che tiene dentro incontri, parole, paesaggi e, soprattutto, desiderio. "La poesia è l'ultimo rifugio dell'umanità nei tempi bui".
La poesia scelta per oggi è Pity the nation (after Khalil Gibran). Scritta nel 2007 in occasione del cinquantennio del libro On the road di Kerouac ispirandosi ai versi del poeta libanese Kahlil Gibran. Parole fortissime e quanto mai attuali.
Pity the nation whose people are sheep
And whose shepherds mislead them
Pity the nation whose leaders are liars
Whose sages are silenced
And whose bigots haunt the airwaves
Pity the nation that raises not its voice
Except to praise conquerers
And acclaim the bully as hero
And aims to rule the world
By force and by torture
Pity the nation that knows
No other language but its own
And no other culture but its own
Pity the nation whose breath is money
And sleeps the sleep of the too well fed
Pity the nation oh pity the people
Who allow their rights to erode
And their freedoms to be washed away
My country, tests of thee
Sweet land of liberty!
Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore
e i cui pastori sono guide cattive
Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi
i cui saggi sono messi a tacere
e i cui fanatici infestano le onde radio
Pietà per la nazione che non alza la propria voce
tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i prepotenti come eroi
e che aspira a comandare il mondo
con la forza e la tortura
Pietà per la nazione che non conosce
nessun'altra lingua se non la propria
nessun'altra cultura se non la propria
Pietà per la nazione il cui fiato è denaro
e che dorme il sonno di quelli con la pancia troppo piena
Pietà per la nazione - oh, pietà per gli uomini
che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
dolce terra di libertà!
Riprendiamo le ... "buone abitudini".
E riprendiamole con uno dei poeti americani più amati, Robert Frost. Per oggi ho scelto Conoscenza della notte, versi che ci trasportano nel lato buio dei nostri pensieri. Un normale paesaggio notturno diventa un racconto in versi sulla solitudine e la distanza. Conoscere la notte significa conoscere l'oscurità, le ombre della vita, la tristezza. È una poesia cupa e densa di lontananza, in cui tutto sembra distante. Non c'è quasi nessun altro a parte il poeta. Ma la notte non è una compagna né un'amica. E l'altro essere umano presente è un guardiano minaccioso che il poeta evita. Tutto e tutti sono troppo lontani, luci, luna, esseri umani. La ripetizione << I have >> nell'originale sta ad indicare il passato, tutto quello che è già accaduto e che ha formato il poeta, che l'ha fatto diventare chi è, ovvero una persona che ha conosciuto la notte.
Un'ultima considerazione, il testo originale è in terza rima, quella che usa Dante nella Commedia, ed è un fatto notevole perché è uno schema metrico difficilissimo da usare in inglese, motivo per il quale quasi nessun poeta in tutta la letteratura inglese l'ha usata, Robert Frost e' stato appunto uno dei pochissimi.
Acquainted With the Night
I have been one acquainted with the night.
I have walked out in rain - and back in rain.
I have outwalked the furthest city light.
I have looked down the saddest city lane.
I have passed by the watchman on his beat
And dropped my eyes, unwilling to explain.
I have stood still and stopped the sound of freet
When far away an interrupted cry
Came over houses from another street,
But not to call me back or say good-bye;
And further still at an unearthly heigth,
One luminary clock against the sky
Proclaimed the time was neither wrong nor right.
I have been one acquainted with the night.
Sono stato uno in confidenza con la notte.
Sono uscito sotto la pioggia - e sotto la pioggia sono rientrato.
Ho camminato oltre le più lontane luci della città.
Ho guardato in fondo al vicolo più triste
Ho incrociato il guardiano di ronda
E ho abbassato lo sguardo, senza voler spiegare.
Sono rimasto in piedi, immobile, fermando il suono dei passi
Quando da lontano un grido interrotto
giungeva dalle case di un'altra via,
Ma non per chiamarmi indietro o dire addio;
E più lontano ancora, ad un'altezza ultraterrena,
Un orologio splendente contro il cielo
Annunciava che l'ora non era giusta né sbagliata
Sono stato uno in confidenza con la notte.
<< Al termine del viaggio verso il paese, dopo l'oscurità prenatale e la durezza terrestre, la finitudine della poesia è luce, apporto dell'essere alla vita.>>
Poesia quindi come ricerca delle origini, pezzi di esistenza, quasi frutto di una continua battaglia tra la realtà e la scrittura. Questa è la dichiarazione poetica di René Char. Nei suoi testi etica e poetica si confondono appassionatamente. Char sa parlare del mestiere del poeta, di quello di uomo, di quello di donna. Sa parlare della natura. È il poeta della vita, dell' umano, non scende alle miserrime condizioni nel raccontarlo, decantandone limiti e contraddizioni, esalta la bellezza delle parole che ben tessute creano immagini estasianti.
Char vive attivamente l'esperienza della guerra e della Resistenza - fu il Capitano Alexandre - che tradusse nei versi, che hanno una potenza unica, frammenti acuminati dell'esistenza. Fulminei flesh di vita partigiana, che si traducono in immagini illuminanti, spesso nutrite da un fondo surrealista.
Commune présence
II
Tu es pressé d' écrire,
Comme si tu étais en retard sur la vie,
S'il en est ainsi fais cortège à tes sources.
Hâte-toi.
Hâte-toi de transmettre
Ta part de merveilleux de rébellion de bienfaisance.
Effectivement tu es en retard sur la vie,
La vie inexprimable,
Le seule en fin de compte à laquelle tu acceptes de t'unir,
Celle qui t'est refusée chaque jour par les êtres et par le choses,
Dont tu obtiens péniblement de-ci de-la' quelques fragments décharnés
Au bout de combats sans merci.
Hors d'elle, tout n'est qu'agonie soumise, fin grossière.
Si tu rencontres la mort durant ton labeur,
Reçois-la comme la nuque en sueur trouve bon le mouchoir aride,
En t'inclinant.
Si tu veux rire,
Offre ta soumission,
Jamais tes armes.
Tu as été pour ds moments peu communs.
Modifie-toi, disparais sans regret
Au gré de la rigueur sauve.
Quartier suivant quartier la liquidation du monde se poursuit
Sans interruption,
Sans égarement.
Essaime la poussière.
Nul ne décelera votre union.
Hai premura di scrivere,
Come se tu fossi in ritardo sulla vita,
Se è così entra nel corteo delle tue fonti.
Affrettati.
Affrettati a trasmettere
La tua parte di meraviglioso di ribellione di bontà.
Effettivamente sei in ritardo sulla vita,
La vita inesprimibile,
La sola in fin dei conti alla quale accetti di unirti,
Quella che ti è rifiutata ogni giorno dagli esseri e dalle cose,
Di cui ottieni a stento qui e là qualche scarno frammento
Al termine di combattimenti senza pietà.
Fuori di lei tutto è soltanto agonia sottomessa rozza fine.
Se incontri la morte durante la tua fatica,
Ricevila come la nuca sudata trova dolce il fazzoletto arido,
Inclinandoti.
Se vuoi ridere,
Offri la tua sottomissione,
Mai le tue armi.
Sei stato creato per momenti poco comuni.
Modifica te stesso sparisci senza rimpianto
In balìa del rigore soave.
Quartiere dopo quartiere la liquidazione del mondo incalza
Senza interruzione,
Senza smarrimento.
Disperdi la polvere.
Nessuno svelerà la vostra unione.
Il tema della poesia che ho scelto per oggi tratta della finzione nelle poesie. Fernando Pessoa afferma che sempre il poeta finge che sia vero ciò che ha scritto. Con la scrittura il poeta riesce ad estraniare da sé il proprio dolore, a staccarlo e poi a contemplarlo.
Il lettore partecipe prova non il proprio dolore, ma questo che è stato cosalizzato ( tecnicismo marxiano : l'alienazione propria dell'operaio alla catena di montaggio, diventato un pezzo della macchina ).
Si tratta dunque di capire se scrivere del dolore, metterlo fuori di sé, significa raddoppiarlo o sminuirlo. A questa domanda Pessoa risponde con la metafora finale del trenino giocattolo, che gira in tondo, arrivando sempre da dov'è partito, mentre la ragione si illude.
Autopsicografia
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.
E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.