Eugenio Montale affonda le sue radici nella città di Genova; trascorre infanzia e giovinezza tra la città natale e lo splendido paese di Monterosso, nelle Cinque Terre. È quindi chiaro il motivo per cui il Mare ricopre un ruolo fondamentale nella sua poetica: ne ha sentito la voce fin da bambino, ha trovato in lui metafore di inquietudini, ma anche lezioni di vita del valore inestimabili.
La sua interpretazione racconta di un rapporto intimo e distaccato, osservativo.
La terza sezione della raccolta Ossi di Seppia, s'intitola Mediterraneo e contiene nove poesie fuse in un unico poemetto; i temi ruotano attorno al mare e alla condizione esistenziale del poeta e, proprio a testimonianza di questo rapporto, ho scelto per oggi, Antico, sono ubriacato dalla voce, composta nel 1924.
Montale non è stato il primo poeta che ho amato e non è il mio preferito, ma a diciassette anni sviluppai una "certa ossessione"per le poesie di Ossi di Seppia, tanto che le parafrasai tutte! Non voglio di certo fare la parafrasi della poesia, ma vorrei soffermarmi solo su un paio di immagini.
La prima s'incontra subito, si tratta della famosa voce del mare, di cui Montale si nutre al punto di esserne inebriato; è un canto perenne, assomiglia ai rintocchi delle campane, costanti e ripetitivi, a cui si aggiunge l'immagine dell'onda che rotola contro la costa per poi sciogliersi. È chiaramente la prospettiva di chi guarda il mare da una riva, in una posizione di rispettosa contemplazione.
Il secondo punto di attenzione si trova nell'undicesimo verso, il solenne ammonimento del tuo respiro.
Il mare era stato il primo a dire al poeta che i moti del suo cuore non erano che un frammento di un'enorme vastità e varietà dell'animo. In parole più semplici, significa che l'uomo è somma di mille sfaccettature, ma ha in sé una sua propria integrità, proprio come il mare è composto da tante onde( impetuose, calme, agitate ... ) ma è pur sempre e solo mare.
Come a dire: attingi alla pienezza della vita senza tradire te stesso e liberati da ogni pezzo inutile e negativo ( e svuotarmi così d'ogni lordura ).
Il poeta non si sente più degno di questo ammonimento, sente forse di non aver preservato la sua integrità.
Antico, sono ubriacato dalla voce
ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t'era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l'aria le zanzare.
Come allora oggi la tua presenza impietra,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
Le strade della famiglia Bertolucci si incontrarono, all'inizio degli anni Cinquanta, con quella di Pier Paolo Pasolini. L'amicizia con Attilio, nata a dire di quest'ultimo da una recensione “molto generosa”, segnò in profondità entrambi. Di lì a qualche anno, Attilio diverrà addirittura uno dei protagonisti della produzione in versi di Pier Paolo.
Ho scelto per oggi un poemetto del 1962 dell'indimenticabile Pasolini che conserva un suo senso profondo drammaticamente attuale. L'opera si apre e si chiude con lo sguardo rivolto a Casarola, borgo natio di Attilio Bertolucci. Pasolini infonde in questi versi la profonda amarezza che gli suscita l'osservare i drammi che si consumano nel passaggio da un mondo essenzialmente rurale, agricolo, a un mondo industrializzato. Casarola, come mille altri posti, è destinata a morire. Così come è destinata a morire la cultura rurale propria della provincia di fronte al mondo che cambia.
Ma nell'opera è infuso anche un altro tipo di amarezza. Quella provata dinanzi all'incapacità di riuscire a instillare, a far penetrare nei cuori delle persone idee di giustizia sociale, di solidarietà, di umanità: “Mostrare la mia faccia, la mia magrezza - / alzare la mia sola, puerile voce - / non ha più senso: la viltà avvezza / a vedere morire nel modo più atroce / gli altri, con la più strana indifferenza.” Versi attualissimi, insomma. Eppure, a fare da contraltare all'ormai maturata disillusione rispetto alla realtà italiana - che potrebbe comunque rappresentare benissimo realtà analoghe del mondo occidentale - emerge, nella parte centrale del poemetto, una speranza che è forse propria dei sognatori (“Un'ansia romantica che pareva esanime / sopravvivenza, mostruosamente s'ingrandisce, / occupa continenti, isole immani...”), se vogliamo, quasi chisciottesca: è la speranza che pervade l'animo del Pasolini che volge lo sguardo all'Africa. Se c'è, dunque, un luogo in cui la speranza di un mondo più giusto non si è ancora spenta, dove è possibile credere possa germogliare una resistenza contro l'indifferenza, l'egoismo, la disumanità, per Pasolini quel luogo è l'Africa (“Non si sfugge, lo so. La Negritudine / è in questi prati bianchi, tra i covoni / dei mezzadri, nella solitudine / delle piazzette, nel patrimonio / dei grandi stili - della nostra storia. / La Negritudine, dico, che sarà ragione...”). E volgendo un'ultima volta lo sguardo su Casarola – la quale da piccolo borgo acquisisce invece, nell'opera, una sua dimensione globale – non resta che prendere atto che il sole, su di essa, morendo ritira la sua luce.
La Guinea.
Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.
Camminando per questa poverissima via
di Casarola, destinata al buio, agli acri
crepuscoli dei cristiani inverni,
ecco farsi, in quel pianto, sacri
i più comuni, i più inutili, i più inermi
aspetti della vita: quattro case
di pietra di montagna, con gli interni
neri di sterile miseria - una frase
sola sospesa nella triste aria,
secco odore di stalla, sulla base
del gelo mai estinto - e, onoraria,
timida, l’estate: l’estate, con i corpi
sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,
disposti sulle chine - come storpi
o giganti - dalla sola Bellezza.
Ah bosco, deterso dentro, sotto i forti
profili del fogliame, che si spezzano,
riprendono il motivo d'una pittura rustica
ma raffinata - il Garutti? il Collezza?
Non Correggio, forse: ma di certo il gusto
del dolce e grande manierismo
che tocca col suo capriccio dolcemente robusto
le radici della vita vivente: ed è realismo...
Sotto i caldi castagni, poi, nel vuoto
che vi si scava in mezzo, come un crisma,
odora una pioggia cotta al sole, poco:
un ricordo della disorientata infanzia.
E, lì in fondo, il muricciolo remoto
del cimitero. So che per te speranza
è non volerne, speranza: avere solo
questa cuccia per le mille sere che avanzano
allontanando quella sera, che a loro,
per fortuna, così dolcemente somiglia.
Una cuccia nel tuo Appennino d'oro.
La Guinea... polvere pugliese o poltiglia
padana, riconoscibile a una fantasia
così attaccata alla terra, alla famiglia,
com'è la tua, e com'è anche la mia:
li ho visti, nel Kenia, quei colori
senza mezza tinta, senza ironia,
viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori,
ma non profusi, anzi, scarsi, avari,
accesi qua e là, tra vuoti e odori
inesplicabili, sopra polveri d'alveari
roventi... Il viola è una piccola sottana,
il verde è una striscia sui dorsali
neri d'una vecchia, il verdazzurro una strana
forma di frutto, sopra una cassetta,
l'azzurro, qualche foglia di savana
intrecciata, l’oro una maglietta
di un ragazzo nero dal grembo potente.
Altro colpo di pollice ha la Bellezza;
modella altri zigomi, si risente
in altre fronti, disegna altre nuche.
Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente:
qui è rinata tra anime ricciute
e camuse, tra pelli dolci come seta,
e membra stupendamente cresciute.
Il mare è fermo e colorato come creta;
con case bianche, e palme: «tinte forti
da tavolozza cubista», come dice un poeta
africano. E la notte! Sensi distorti
da ogni nostro dolce costume,
occorrono, per cogliere i folli decorsi
che accadono, come pestilenze, a queste lune.
Perduti dietro metropoli di capanne
in uno spiazzo tra palme nere come piume,
alberi di garofano, di cannella - e canne
uguali alle nostrane, quelle sparse intorno
a ogni umano abitato - come tre zanne,
tre strumenti suonati quasi dal fuoco di un forno
inestinguibile, da gote nere sotto le falde
dei cappelli flosci presenti a ogni sbornia -
urlavano sempre le stesse note di leopardi
feriti, una melodia che non so dire:
araba? o americana? o arcaici e bastardi
resti di una musica, il cui lento morire
è il veloce morire dell'Africa?
Questo terzetto era al centro, scurrile
e religioso: neri-fetenti come capri
i tre suonatori, schiena contro schiena,
stretti, perché, intorno, in due sacri
cerchi di pochi metri, rigirava una piena
di migliaia di corpi. Nel cerchio interno
erano donne, a girare, addossate, appena
sussultanti nella loro danza. All'esterno
i maschi, tutti giovani, coi calzoni
di tela leggera, che, intorno a quel perno
di trombe, stranamente calmi, buoni,
giravano scuotendo appena spalle e anche:
ma ogni tanto, con fame di leoni,
le gambe larghe, il grembo in avanti,
si agitavano come in un atto di coito
con gli occhi al cielo. Al fianco
le donne, vesti celesti sopra i neri cuoi
delle pelli sudate, gli occhi bassi,
giravano covando millenaria gioia...
Ah, non potrò più resistere ai ricatti
dell'operazione che non ha uguale,
credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,
altro da ciò che sono: a trasformare
alle radici la mia povera persona:
è, caro Attilio, il patto industriale.
Nulla gli può resistere: non vedi come suona
debole la difesa degli amici laici
o comunisti contro la più vile cronaca?
L'intelligenza non avrà mai peso, mai,
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da una dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola, puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, con la più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Nulla è insignificante alla potenza
industriale! La debolezza dell'agnello
viene calcolata ormai più senza
fatica nei suoi pretesti da un cervello
che distrugge ciò che deve distruggere:
nulla da fare, mio incerto fratello...
Mi si richiede un coraggio che sfugge
del tutto al reale, appartiene ad altra storia;
mi si vuole spelacchiato leone che rugge
contro i servi o contro le astrazioni
della potenza sfruttatrice:
ah, ma non sono sport le mie passioni,
la mia ingenua rabbia non è competitrice.
Non c'è proporzione tra una nuova massa
predestinata e un vecchio io che dice
le sue ragioni a rischio della sua carcassa.
Non è il dovere che mi trattiene a cercare
un mondo che fu nostro nella classica
forza dell'elegia! nell'allusione a un fatale
essere uomini in proporzioni umane!
La Grecia, Roma, i piccoli centri immortali...
Un'ansia romantica che pareva esanime
sopravvivenza, mostruosamente s'ingrandisce,
occupa continenti, isole immani...
annette Dei di milioni di guadi, percepisce
l'odore dell'umidità dei quaranta gradi
sopra zero immobili nelle coste, Mogadiscio
e le buganvillee di Nairobi, gli odori bradi
delle bestiacce scomposte in un selvatico
galoppo, per gli sventrati, i radi
orizzonti pervasi d'un funebre stallatico;
la quantità, l'immensità che pesa
inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati
o marci d'acqua, sono una distesa
priva di possibile poesia, rozza cosa
restata lì, ai primordi, senza attesa,
sotto un sole meccanico che, annosa
e appena nata, essa subisce come infinità.
Ne nasce un bestiale colore rosa
dove il sesso paesano che ognuno ha
disegnato in calzoni di allegro cotone,
in gonne comprate negli stores indiani,
con soli occhiuti e cerchi di pavone,
come un'isola galleggia in un oceano
ronzante ancora per un'esplosione
recente e sprofondata dentro le maree...
Fiori tutti d'un colore, di cotone,
occhiuti e cerchiati popolano le Guinee
galleggiando nel tanfo d'uccisione,
nella carne delle estati sempre feroce
a divorare cibi cui la notte impone
le tinte equatoriali della morte precoce,
il blu e il viola e la polvere orrenda,
la libertà, che partorisce il popolo con voce
famigliare, e, in realtà, tremenda,
il nero dei villaggi, il nero dei porti coloniali,
il nero degli hotels, il nero delle tende...
E... alba pratalia, alba pratalia,
alba pratalia... I prati bianchi!
Così mi risveglio, il mattino, in Italia,
con questa idea dei millenni stanchi
bollata nel cervello: i bianchi prati
del Comune... della Diocesi... dei Banchi
toscani o cisalpini... quelli rievocati
nel latino del duro, dolce Salimbene...
Il mondo che sta in un testo, gli Stati
racchiusi in un muro di cinta - le vene
dei fiumi che sono poco più che rogge,
specchianti tra gaggìe supreme
- i ruderi, consumati da rustiche piogge
e liturgici soli, alla cui luce
l'Europa è così piccola, non poggia
che sulla ragione dell'uomo, e conduce
una vita fatta per sé, per l'abitudine,
per le sue classicità sparute.
Non si sfugge, lo so. La Negritudine
è in questi prati bianchi, tra i covoni
dei mezzadri, nella solitudine
delle piazzette, nel patrimonio
dei grandi stili - della nostra storia.
La Negritudine, dico, che sarà ragione.
Ma qui a Casarola splende un sole
che morendo ritira la sua luce,
certa allusione ad un finito amore.
Luis Borges, con uno stile severo, ricco d'ispirazioni letterarie e apparizioni fantastiche, fu il primo a manifestare quella mescolanza di magia e realtà che verrà battezzata come realismo magico, caratteristica della letteratura sudamericana della seconda metà del Novecento.
Fin dall'esordio poetico, Borges aderisce alla corrente Ultraista, un movimento basato sul sistematico rifiuto del modernismo spagnolo fino ad allora dominante. La poetica dell'ultraismo può essere delineata in quattro punti fondamentali: l'intento di riportare la lirica alla sua originaria condizione di metafora, l'eliminazione del superfluo e dell'esplicativo, il rifiuto di uno stile manieristico ornamentale e, infine, una maggiore suggestivita' del testo attraverso la combinazione di immagini. Questo rifiuto del modernismo si combina, nella lirica di Borges, a un'avversione per la modernità intesa come realtà storica, evidente fin dalle due prime raccolte poetiche.
La luna è un poema corto contenuto nella raccolta La moneta di ferro, pubblicata nel 1976. Trattandosi di parte della sua ultima produzione poetica, la sua riflessione riguarda temi più filosofici e, a tratti, esistenziali. Di conseguenza, se già inizialmente Borges era piuttosto enigmatico, ora rende il suo verso ancora più difficile da decifrare.
Il suo stile nettamente più maturo sembra quasi destinato ad una lettura privata. Le parole s'infittiscono di mistero e le strofe regalano al lettore più domande che risposte. I cinque versi di cui la poesia è composta mettono in evidenza il trascorrere del tempo, capace di lasciare il segno anche sul satellite.
Tuttavia, non è solo il tempo a deformare la luna. Secondo Borges, essa non ha fatto altro che sobbarcarsi degli errori degli uomini, assistendo in silenzio a tutto ciò che è accaduto attraverso i secoli. Ciò la rende quindi uno specchio che, se guardato attentamente, può riflettere tutto quanto. In questa poesia intrisa di desolazione, Borges riflette sul tempo, sull'uomo e, soprattutto, sulla vita.
Hay tanta soledad en ese oro.
La luna de las noches no es la luna
Que vio el primer Adán. Los largos singlos
De la vigilia humana la han colmado
De antiguo llanto. Mírala. Es tu espejo.
C'è tanta solitudine in quell'oro.
La luna delle notti non è la luna
Che vide il primo Adamo. I lunghi secoli
Della veglia umana l'hanno colmata
Di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio.
Anna Achmatova quando recitava le proprie poesie era capace di un fascino incredibile; era un'icona di bellezza che molti pittori, primo tra tutti Modigliani, hanno ritratto.
A San Pietroburgo ha vissuto il periodo intenso dell'avanguardia, l'amore e la libertà, ma anche quello tetro della carestia, del dolore, della povertà e della malattia. Centro culturale della Russia, San Pietroburgo era popolata di artisti. In un locale seminterrato si incontravano scrittori e poeti che leggevano i propri illeciti componimenti e discutevano di letteratura. C'erano anche Marina Cvetaeva, Boris Pasternak, Sergej Esénin.
Quando suo figlio Lev venne arrestato nel 1938, Anna Achmatova bruciò i suoi quaderni di poesie. Da allora in poi, memorizzo' tutto quello che scriveva, per recitarlo in seguito, soltanto in letture private, con amici fidati. Imparare a memoria le proprie poesie cambio' anche il suo stile, che divenne più frammentario e visivo. Mentre cresceva la sofferenza della sua gente anche la voce di Anna diventava più forte.
Poema senza eroe è uno dei suoi componenti più famosi, trascorse ventidue anni a scriverlo. Requiem, contenuto nella raccolta, racconta la sofferenza del popolo russo sotto il regime di Stalin e, in particolare, le tribolazioni di quelle donne che, come lei, si mettevano ogni giorno in fila fuori dalle mura della prigione per avere notizie dei propri cari. Requiem non fu pubblicato in Russia fino al 1987.
...
2.
Placido scorre il placido Don,
Gialla luna entra nella casa.
Entra col cappello sulle ventitré,
Vede l'ombra la gialla luna.
Questa donna è malata,
Questa donna è sola,
Il marito nella tomba, il figlio in prigione.
Pregate per me
3.
No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
Neri drappi lo ricoprano,
E portino via le lanterne...
Notte.
...
6.
Lievi volano le settimane,
Quel che è stato non capisco.
Come ti guardavano, figlio,
Le notti bianche, in carcere,
Com'esse di nuovo guardano
Con occhio ardente di sparviero,
E della tua alta croce
E della morte parlano
1939
7.
La sentenza
Ed è caduta la parola di pietra
Sul mio petto ancora vivo.
Non è nulla, vi ero preparata,
Ne verrò a capo in qualche modo.
Ho molto da fare, oggi:
Bisogna uccidere fino in fondo la memoria,
Bisogna che l'anima si pietrifichi,
Bisogna di nuovo imparare a vivere.
Se no... L' ardente stormire dell'estate,
Come una festa oltre la finestra.
Da tempo avevo presentito questo
Giorno radioso e la casa vuota.
1939 Estate
...
10.
La crocifissione
Non singhiozzare per Me
Madre, che giaccio nella bara.
I.
Il coro degli angeli glorificó l' ora solenne
E i cieli si sciolsero nel fuoco.
Al Padre disse: " Perché Mi hai abbandonato? "
E alla Madre: " Oh, non singhiozzare per Me... "
II.
Maddalena si disperava e singhiozzava,
Il discepolo prediletto era impietrito,
E là dove in silenzio stava la Madre
Nessuno osava neppure volgere lo sguardo.
1940 - 1943
Epilogo
I.
Ho appreso come s'infossino i volti,
Come di sotto alle palpebre
s'affacci la paura,
Come dure pagine di scrittura cuneiforme
Il dolore tracci sulle guance,
Come i riccioli cinerei e neri
D'un tratto si facciano d'argento,
Il sorriso appassisce sulle labbra rassegnate,
E in un ghigno arido tremi lo spavento.
E non per me sola prego,
Ma per tutti coloro che erano con me, laggiù,
Nel freddo spietato, nell'afa di luglio,
Sotto la muraglia abbacinata.
II.
S'è di nuovo avvicinata l'ora del suffragio.
Vi vedo, vi ascolto, vi sento:
E colei che fu a stento condotta allo spioncino,
E colei che non calpesta il suolo natale,
E colei che, scrollando la bella testa,
Disse:" Qui vengo, come a casa ".
Avrei voluto chiamare tutte per nome,
Ma hanno portato via l'elenco, e non so come fare.
Per loro ho intessuto un'ampia coltre
Di povere parole, che ho inteso da loro.
Di loro mi rammento sempre e in ogni dove,
Di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò,
E se mi chiuderanno la bocca tormentata
Con cui grida un popolo di cento milioni,
Che esse mi commemorino allo stesso modo
Alla veglia del mio giorno di suffragio.
E se un giorno in questo paese
Pensassero di erigermi un monumento,
Acconsento ad essere celebrato,
Ma solo a condizione di non porlo
Né accanto al mare dov'io nacqui,
Col mare l'ultimo legame è reciso,
Né del giardino dello zar presso il desiato ceppo,
Dove l'ombra sconsolata mi cerca,
Ma qui, dove stetti per trecento ore
E dove non mi aprirono il chiavistello.
Perché nella beata morte temo
Di dimenticare lo strepito delle nere "marusi",
Di dimenticare come sbatteva l'odiosa porta
E una vecchia ululava da bestia ferita.
E che dalle immobili palpebre di bronzo
Come lagrime fluisca la neve disciolta.
E il colombo del carcere che tubi di lontano,
E placide per la Neva vadano le navi.
1940. Marzo
L' Antologia di Spoon River è una raccolta di poesie in verso libero che il poeta Edgar Lee Masters pubblico' tra il 1914 ed il 1915 sul Mirror di St.Louis. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita dei residenti di Spoon River, un immaginario paesino del Midwest statunitense, sepolti nel cimitero locale. Lo scopo del poeta è quello di demistificare la realtà di una piccola cittadina rurale americana. La caratteristica saliente dei personaggi è che essendo per la maggior parte morti non hanno più niente da perdere e quindi possono raccontare la loro vita in assoluta sincerità. In realtà il poeta si ispirò a personaggi veramente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield dov'era cresciuto. Molte delle persone a cui le poesie erano ispirate si sentirono offese nel vedere le loro faccende più segrete e private pubblicate nelle poesie.
George Gray, abitante del fantomatico villaggio di Spoon River, si racconta mentre contempla la sua lapide: ci rivela con distacco e lucidità i limiti della sua vita piatta e le opportunità sfumate, vuoi per paura vuoi per ignavia. Edgar Lee Masters definisce in questi pochi versi il profilo banale di un personaggio rimasto anonimo per sua stessa volontà e, come monito, svela al lettore un meraviglioso inno al vivere pienamente la vita. George Gray lo capisce solamente quando è ormai troppo tardi.
I have studied many times
The marble which was chiseled for me -
A boat with a furled sail at rest in harbor.
In truth it pictures not my destination
But my life.
For love was offered me and I shrank from its disillusionment;
Sorrow knocked at my door, but I was afraid;
Ambition called to me, but I dreaded the chances.
Yet all the while I hungered for meaning un my life.
And now I know that we must lift the sail
And catch the winds of destiny
Wherever they drive the boat.
To put meaning in one's life end in madness,
But life without meaning is the torture
Of rest lessness and vague desire -
It is a boat longing for the sea and yet afraid.
Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l'amore mi si offrì e io mi ritrassi dal
suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, ed io ebbi paura;
l'ambizione mi chiamò, ma io temetti gli
imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di significato
nella mia vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell'inquietudine e del vano desiderio -
è una barca che anela al mare eppure lo teme.
La morte di Teresa, figlia del cocchiere di famiglia, diede a Giacomo Leopardi lo spunto per il celeberrimo canto A Silvia, riflessione strutturata dialogicamente attorno al tema della giovinezza, delle sue speranze, dei sogni di felicità che la caratterizzano, che col tempo vanno a infrangersi contro la dura realtà, rivelandosi in ultimo, né più né meno, che dolorose illusioni.
C'è una compartecipazione, da parte del poeta, alla condizione esistenziale della ragazza. Una compartecipazione che passa da una condizione idillica, da un'ebbrezza figlia dell'immersione nei sogni e nelle speranze della giovinezza, alla struggente amarezza di fronte all'annichilirsi di quelle stesse speranze. Il parallelismo è quello tra la prematura morte della ragazza e il disgregarsi dei sogni di felicità del poeta, avvenuto prematuramente anch'esso, durante appunto la giovinezza.
La percezione della figura di Giacomo Leopardi risente spesso di una miriade di luoghi comuni che non rendono giustizia a un poeta e a un uomo dalla profondità straordinaria, il cui animo è stato molto appesantito dalle vicissitudini della vita. Vorrei limitarmi a sottolineare come, nonostante tutto, egli abbia non soltanto scavato in profondità nell'animo umano - convengo lo si possa definire “esistenzialista” - ma anche ricercato e creato bellezza, di cui la sua opera è pregna. Ebbene, credo che questo sia un grande modo di reagire alle ammaccature della vita.
A Silvia.
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io, gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dí festivi
ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi, come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
La poesia di Giorgio Caproni si caratterizza per chiarezza e coincisione. " L' importante è risparmiare al massimo il rumore delle parole " affermava lo stesso poeta. Il suo anti-intellettualismo non è nient'altro che la riscoperta della parola povera. La parola di Caproni infatti è semplice, quasi elementare: nessun elitarismo lessicale o paroloni aulici, nessun utilizzo di particolari figure retoriche o tecniche poetiche ricercate, a lui bastano rime semplici e l'uso semplice dell' enjambement. La semplicità nella forma e nel contenuto non escludono un' originalità formale rispetto al suo tempo e una profondità di contenuto che sembra suggerire un sotteso filo di malinconia, derivante dai patemi personali ( come la morte prematura della fidanzata ), ed ironia, tipica di un'autore totalmente disilluso che da lontano osserva la realtà. Una disillusione che si denota nella volontà di porre al centro della sua produzione il racconto della vita quotidiana.
Il cuore della poesia di Caproni è contenuto nel libro Il seme del piangere ( 1950 - 1958 ). Da molti definito il più bel libro della seconda metà del Novecento, è dedicato alla madre Anna Picchi, protagonista della sua prima parte, gli amati " Versi livornesi ".
La poesia che ho scelto per oggi è Ultima preghiera. L' autore, ispirandosi ad una ballata del Trecento, immagina che la sua anima personificata vada alla ricerca della madre da poco morta. La poesia si presenta come una sorta di biografia immaginaria in cui il poeta rievoca la madre ancora giovinetta, quando egli non era ancora nato, servendosi di racconti e fotografie di famiglia.
Il linguaggio della poesia sembra solo apparentemente semplice, in realtà è denso di sapienti raffinatezze, metriche e timbriche. La sintassi è articolata e ricca di inversioni. Il ritmo risulta movimentato e vario; sapiente è il gioco delle rime baciate ed alternate che conferiscono al testo una musicalità lieve; sono inoltre presenti raffinati effetti fonici e frequenti allitterazioni.
Anima mia, fa' in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
( ti prego, sii prudente )
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno,
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
( mentre odora di pesce
e di notte il selciato )
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
( un nulla potrebbe bastare )
di non lasciarti sviare
da un'altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta )
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Ma anima, non aspettare,
no il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un'altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
( giacché, non so più come,
ho scordato il portone )
da un capo all'altro della via,
da Cors' Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto al petto
il borsellino, e d'erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all'erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mormorale all' orecchio
( più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita ) in un soffio.
Ciò ch'io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D'altro non ti richiedo.
Poi, va' pure in congedo.
Occhi azzurri ma sporgenti dietro due lenti tonde, aria da mattacchione, cattivo allievo ma affascinato dalla letteratura. Incontra Breton e arriva a partecipare ai movimenti Dada e Surrealista. Comincia alcune esperienze di scrittura automatica sotto ipnosi, esperienze nelle quali eccelle, tanto che Breton lo elogia scrivendo :" Il surrealismo è all'ordine del giorno, e Robert Desnos è il suo profeta! "
Parallelamente, rincorre amori impossibili con la cantante attrice Yvonne George, sempre circondata da una folla di ammiratori. Per raggiungerla, si accosta all'oppio. Per lei scriverà le poesie A' la mystérieuse, nonché La Liberté ou l'Amour ( 1927 ), opera che verrà condannata per oscenità dal tribunale della Senna.
Il lavoro a tempo pieno per testate giornalistiche e il suo scetticismo riguardo al coinvolgimento della politica comunista nel surrealismo provocano un'incrinatura tra lui e Breton fino alla rottura definitiva nel 1929.
Nel 1931 va a vivere con Lucie Badoul, soprannominata " Youki " ( " neve " ) che abbandona il marito Tsugaharu Fujita.
A partire dagli anni trenta ritorna a forme più tradizionali, non trascurando il verso in rima, offrendo a quest'ultimo prospettive insolite e uno slancio originale ed unico. L'attività letteraria in quegli anni è fervida, fra poesia e giornalismo, e successivamente anche radiofonica; attività, quest'ultima, che lo indirizza verso espressioni più orali e gestuali , musica e cinema, con la stesura di progetti di film.
Nel 1934 aderisce al movimento degli intellettuali antifascisti; pacifista, Desnos è costretto a rinunciare alle sue posizioni e ad arruolarsi. Ritorna nella Parigi occupata e riprende la sua attività di giornalista nelle fila della resistenza, partecipando alle attività e redigendo pubblicazioni clandestine.
Nel 1944 viene avvertito che la Gestapo sta per venire a prenderlo, ma rifiuta che sia Youki, la quale si droga con l'etere, a subire le rappresaglie ed eventualmente la tortura. È incarcerato e viene deportato al campo di Auschwitz, poi a quello di Flossemburg, infine a Floha in Sassonia. Nel 1945 raggiunge, con una marcia forzata, il campo di Terezin dove muore di miseria, stanchezza e tifo, non senza lasciare, attraverso la sua corrispondenza con la sua donna Youki, un ulteriore lezione di coraggio, d'amore e libertà:" Non è la poesia a dover essere libera, ma il poeta".
La poesia che ho scelto per oggi è:
Lumière de mes nuit Youki
Te souviens-tu de nuits où tu apparaissais
Sur le rectangle clair des vitres de ma porte?
Où tu surgissais dans le ténèbres de ma maison
Où tu t'abattais sur mon lit comme un grand oiseau
Fatigué de passer les océans et les plaines et les forêts.
Te souviens-tu de tes paroles de salut
Te souviens-tu de mes paroles de bienvenue
de mes paroles d'amour?
Non, il ne t'en souvient pas,
On ne se souvient pas du présent, personne...
Or, il est nuit,
Tu surviens, tu arrives, tu t'abats sur mon lit
Je suis ton serviteur et ton défenseur soumis à ta loi
et toi soumise à mon amour:
Il est minuit il est midi
Il est minuit et quart
Il est minuit et demie
Il est minuit à venir ou midi passé
Il est midi sonnant
Il est toujours midi sonnant pour mon amour
Pour notre amour
Tout sonne tout frémit et tes lèvres
Et sur mon lit tu t'abats entre minuit et quatre heures du matin
comme un grand albatros
Échappé des tempêtes.
Ricordi le notti in cui apparivi
Sul rettangolo chiaro della mia porta a vetri?
In cui sorgevi nelle tenebre della mia casa
In cui ti gettavi sul mio letto come un grande uccello
Stanco di attraversare oceani e pianure e foreste.
Ricordi le tue parole di saluto
Ricordi le mie parole di benvenuto
le mie parole d'amore?
Non, non te ne ricordi,
Non ci si ricorda del presente, nessuno...
Ora, è notte,
Sopraggiungi, arrivi, ti getti sul mio letto
Sono il tuo servitore e il tuo difensore soggetto alla tua legge
e tu soggetta al mio amore.
È mezzanotte è mezzogiorno
È mezzanotte e un quarto
È mezzanotte e mezza
È quasi mezzanotte o mezzogiorno passato
È mezzogiorno in punto
È sempre mezzogiorno in punto per il mio amore
Per il nostro amore
Tutto risuona tutto freme anche le tue labbra
E sul mio letto ti getti tra mezzanotte e le quattro del mattino
come un grande albatros
Sfuggito alle tempeste.
Una delle poesie più note di Robert Frost. Negli elementi del fuoco e del ghiaccio, il poeta ipostatizza i sentimenti a loro modo distruttivi del desiderio e dell'odio.
Qualche anno fa, Martin ammise di aver tratto in parte ispirazione proprio da questi versi del poeta statunitense: “People say I was influenced by Robert Frost’s poem, and of course I was, I mean… Fire is love, fire is passion, fire is sexual ardor and all of these things. Ice is betrayal, ice is revenge, ice is… you know, that kind of cold inhumanity and all that stuff is being played out in the books.”
Fire and Ice.
Some say the world will end in fire,
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if it had to perish twice,
I think I know enough of hate
To say that for destruction ice
Is also great
And would suffice.
*
Alcuni dicono che il mondo finirà nel fuoco,
alcuni dicono nel ghiaccio.
Da quello che ho provato di desiderio
convengo con quelli che preferiscono il fuoco.
Ma se dovessi perire due volte,
credo di conoscere abbastanza dell'odio
per ammettere che per la distruzione il ghiaccio
è pure terribile
e sarebbe sufficiente.
" Il desiderio d'una lettura diretta dei testi di alcuni poeti dell'antichità mi spinse, un giorno, a tradurre le pagine più amate dei poeti della Grecia. Il greco ritornava a essere ancora un'avventura, un destino, a cui i poeti non possono sottrarsi. Le parole dei cantori che abitano le isole di fronte alla mia terra ritornano lentamente nella mia voce, come contenuti eterni, dimenticati dai filologi per amore di un'esattezza che non è mai poetica e qualche volta neppure linguistica. " Misurarsi con i classici è uno dei motivi dominanti di Salvatore Quasimodo, che riesce in questo modo a far coincidere il desiderio di tradurre in poesia italiana attuale i grandi testi del passato con il proprio mito personale: unire un'anima moderna e un sentire classico.
Lirici greci esce nel 1940 nella rivista di Ernesto Treccani, " Corrente". Quasimodo difende la sua operazione letteraria affermando con forza che la poesia va tradotta solo dai poeti. Ammette che la filologia è un momento essenziale per l'approccio a un testo classico o straniero, ma la tecnica personale ed emotiva del verso e della parola poetica è l'unico autentico strumento per trasformare una poesia in un'altra lingua-cultura. Quasimodo sceglie i testi che gli sono congeniali e traduce in totale autonomia: sopprime epiteti oppure li scinde, elimina nessi e zeppe, trasforma verbi, e arriva ad unire frammenti diversi dello stesso autore per dare suggestione di una lirica unica. Rinuncia agli schemi metrici d'origine, elude le equivalenze metriche proprio perché vuole arrivare ad un testo italiano, poetico, moderno. Così la metrica quantitativa su cui si fonda la poesia greca viene resa nella nostra metrica accentativa. Al poeta interessa " la densità poetica ", che non viene mai del tutto intesa dallo studioso.
Appena uscito, il libro innescò una serie di polemiche soprattutto per il modo di tradurre; era evidente già allora che i Lirici greci tradotti da Quasimodo sono un' opera poetica autonoma. Quasimodo si servì dei testi greci quasi come di una traccia per un'idea di poesia originale e, pur in una poetica e libera fedeltà al testo, queste sono poesie di Salvatore Quasimodo.
Ho scelto per oggi alcune delle mie preferite.
Saffo
A me pare uguale agli dei
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
Tramontata è la luna
Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l'anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.
Quanto disperse la lucente Aurora
Espero, tutto riporti
quanto disperse la lucente Aurora:
riporti la pecora,
riporti la capra,
ma non riporti la figlia alla madre.
Alceo
Alla foce dell'Ebro
Ebro, il più bello dei fiumi,
che nella Tracia con forte suono scorri
lungo terre famose pei cavalli,
al purpureo mare presso Aino tacito scendi.
E lì molte fanciulle muovono
molli sulle anche: con l'acqua chiara
nel palmo delle mani, come con olio
addolciscono la pelle.
Solo il cardo è in fiore
Gonfiati di vino: già l'astro
che segna l'estate dal giro
celeste ritorna,
tutto è arso di sete,
e l'aria fumica per la calura.
Acuta tra le foglie degli alberi
la dolce cicala di sotto le ali
fitto vibra il suo canto, quando
il sole a picco sgretola la terra.
Solo il cardo è in fiore:
le femmine hanno avido il sesso,
i maschi poco vigore, ora che Sirio
il capo dissecca e le ginocchia.
Già sulle rive dello Xanto
Già sulle rive dello Xanto ritornano i cavalli,
gli uccelli di palude scendono dal cielo,
dalle cime dei monti
si libera azzurra fredda l'acqua e la vite
fiorisce e la verde canna spunta.
Già nelle valli risuonano
canti di primavera.
Anacreonte
Timore dell'Ade
Biancheggiano già le mie tempie
e calvo è il capo;
la cara giovinezza non è più,
e devastati sono i denti.
Della dolce vita ormai
mi resta breve tempo.
E spesso mi lamento
per timore dell'Ade.
Tremendo è l'abisso di Acheronte
e inesorabile la sua discesa:
perché chi vi precipita
è legge che più non risalga.
Ibico
Come il vento del nord rosso di fulmini
A primavera, quando
l'acqua dei fiumi deriva nelle gore
e lungo l'orto sacro delle vergini
ai meli cidonii apre il fiore,
e altro fiore assale i tralci della vite
nel buio delle foglie;
in me Eros,
che mai alcuna età mi rasserena,
come il vento del nord rosso di fulmini,
rapido muove: così, torbido
spietato arso di demenza,
custodisce tenace nella mente
tutte le voglie che avevo da ragazzo.
Mimnermo
Al modo delle foglie
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell'età
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere dee ci stanno sempre a fianco,
l'una con il segno della grave vecchiaia
e l'altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce di un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.
Archiloco
Con una fronda di mirto
Con una fronda di mirto giocava
ed una fresca rosa;
e la sua chioma
le ombrava lieve e gli omeri e le spalle.
Praxila
E appari come vergine nel volto
O tu che guardi dalle finestre un bel ragazzo
e appari come vergine nel volto:
sei già donna nel grembo.
Licofronide
Né delle fanciulle ornate d'oro
Né dell'adolescente,
né delle fanciulle ornate d'oro
o delle donne dal seno colmo,
è bello il volto se non appare casto:
il pudore crea il fiore di bellezza.
Jone di Ceo
La stella mattutina
Aspettiamo la stella mattutina
dall'ala bianca che viaggia nelle tenebre,
primo annunzio del sole.
Licimnio
E il Sonno che prendeva diletto
E il Sonno che prendeva diletto
a quello sguardo luminoso,
con gli occhi aperti addormentò il fanciullo.
anonimo
Canto mattutino
Dorati uccelli dall'acuta voce, liberi
per il bosco solitario in cima ai rami di pino
confusamente si lamentano; e chi comincia,
chi indugia, chi lancia il suo richiamo verso i monti:
e l'eco che non tace, amica dei deserti,
lo ripete dal fondo delle valli.
Lucille Clifton, come molti autori della Black Aesthetic, ha rotto con la tradizione europea e americana scegliendo brevi versi liberi, spesso rimati, ripetizioni, giochi di parole e allusioni, la quasi assenza di punteggiatura, lettere minuscole al posto delle maiuscole. La lingua dei suoi testi è frammentata, tagliente e diretta, ironica e ricca di termini slang ma anche piena di gioia, un canto di ringraziamento alla vita in tutti i suoi aspetti, e le poesie, spesso brevi, si stagliano potenti sul bianco della pagina. Nelle parole della poetessa, lei si limita a leggere " quello che le dice lo specchio "
Nella raccolta Un certo Gesù la Clifton da' voce ad Adamo ed Eva, a Lucifero, a Maria, a Giuseppe e a Cristo, rappresentandoli in tutta la loro umanità e fisicità attraverso un tono che recupera la musicalità folk e jazz, unita a una profonda indagine psicologica e appassionata ironia a tratti malinconica.
adam thinking
she
stolen from my bone
is it any wonder
i hunger to tunnel back
inside desperate
to reconnect the rib and clay
and to be whole again
some need is in me
struggling to roar through my
mouth into a name
this creation is so fierce
i would rather have been born
lei
rubata dal mio osso
c'è da meravigliarsi se
io sono smanioso di scavare indietro
dentro disperato
di riunire la costola e l'argilla
ed essere nuovamente intero
un qualche bisogno è in me
che lotta per ruggire attraverso la mia
bocca e farsi nome
questa creazione è così violenta
che avrei preferito nascere
La costante nell'ispirazione della poetica di Federico García Lorca è senz'altro riconducibile in quel senso di angoscia profonda che attanaglia il poeta di fronte a tanti desideri inappagati e nell'inquietitudine di un amore impossibile da cui scaturisce una condizione di vita sofferta in continue avvisaglie di morte.
Amore e morte sono dunque i termini di riferimento anche degli undici Sonetos del amor obscuro che nascono proprio all'insegna di un'aspirazione che non ammette alternative. Sono un "prodigio di passione, entusiasmo, di felicità, di tormento, puro e ardente monumento all'amore, in cui la prima materia è la carne , il cuore, l'anima del poeta preso da macerazione". Così commentava Vicente Aleixandre, ricordando commosso la lettura dei sonetti dalla viva voce di Lorca.
A Granada il poeta era considerato omosessuale, disgrazia grave in una città nota per la sua avversione nei confronti della sessualità non convenzionale.
Già le sue prime composizioni rivelano un profondo struggimento sessuale, la sensazione di essere reietto ed isolato. Ma è tutta la sua opera che verte in genere, in una forma o nell'altra, sul tema della frustazione. Vi si rivela il senso di un amore non goduto come fonte di dolore e di un'esistenza vista nel costante riferimento della morte.
È il binomio sesso-morte a rivelarsi il sottofondo costante della poesia lorchiana, sentita come coscienza di distruzione, in cui l'istinto sessuale sembra incontrare sempre un ostacolo, una frustazione. Ed è indiscutibile, ripercorrendo lo sviluppo dell'opera di García Lorca, riconoscere fin dall'inizio questo "tema della frustazione". La storia dell'amore impossibile di uno scarafaggio per una farfalla, narrata nel Maleficio de la mariposa, rispecchia un sofferto dramma autobiografico: è Federico che non riesce ad amare la donna, perché un simile amore è per lui innaturale. I fischi con cui l'opera fu accolta dovettero risuonare all'orecchio del poeta come grida di scandalo e quello "Schifoso!" urlato da uno spettatore a scena aperta era rivolto a lui : l'autore doveva ritenersi messo al bando dalla società.
Ma della sua natura García Lorca non ha mai fatto un mistero e con coraggio è venuto affermandola, cosciente di essere purtroppo considerato fuori dalla società, anche se non ebbe la forza di pubblicare i Sonetos del amor obscuro
scritti tra il 1935 e il 1936, frutto di un amore omosessuale. Forse lo fece per non recare danno alla persona a cui erano dedicati. Eppure la gente sapeva, tanto che a Granada molti lo trattavano con disprezzo.
Garcia Lorca si sentiva un emarginato, un perseguitato , sì, ma anche un ribelle fino a riconoscersi tale su un piano storico. " Credo che il fatto che io sia di Granada mi permetta di comprendere i perseguitati, essere dalla parte del gitano, del nero, dell' ebreo... del moro che ogni gradanino sente in sé". E in tal senso, sulla base di questa coscienza, il suo dolore tenta di aprirsi agli "altri", cioè a quelli "diversi" come lui, diventando così l'interprete degli emarginati, cosa che verrà realizzata pienamente in Poeta en Nueva York.
Soneto de la guirnalda de rosas
¡Esa guirnalda! ¡pronto! ¡que me muero!
¡Teje deprisa! ¡canta! ¡gime! ¡canta!
que la sombra me entienda la garganta
y otra vez y mil la luz de enero.
Entre lo que me quieres y te quiero,
aire de estrellas y temblor de planta,
espesura de anémonas levanta
con oscuro gemir un año entero.
Goza el fresco paisaje de mi herida,
quiebra juncos y arroyos delicados.
Bebe en muslo de miel sangre vertida.
Pero ¡pronto! Que unidos, enlazados,
boca rota de amor y alma moridida,
el tiempo nos encuentre destrozados.
Presto con la guirlanda, su, che'muioio!
Svelto, intrecciala! Canta, gemi, canta!
L'ombra m'intorbida la gola
e mille volte e più splende gennaio.
Tra l'amore mio per te e tuo per me,
vento di stelle e fremito di pianta,
densità d'anemoni solleva
in un gemito cupo, un anno intero.
Fresco il paesaggio della mia ferita,
godilo! Spezza giunchi e ruscelli
delicati! Da cosce di miele bevi
sangue sparso! Ma presto! Uniti, avvinti,
bocca rotta d'amore, anima a morsi,
il tempo ci ritrova consumati.
Soneto de la dulce queja
Tengo miedo a perder la maravilla
de tus ojos de estatua, y el acento
que de noche me pone en la mejilla
la solitaria rosa de tu aliento.
Tengo pena de ser en esta orilla
tronco sin ramas; y lo que más siento
es no tener la flor, pulpa o arcilla,
para el gusano de mi sufrimiento.
Si tú eres el tesoro oculto mío,
si eres mi cruz y mi dolor mojado,
si soy el perro de tu señorío,
no me dejes perder lo que he ganado
y decora las aguas de tu río
con hojas de mi otoño enajenado.
Temo di perdere la meraviglia
dei tuoi occhi di statua e la cadenza
che di notte mi posa sulla guancia
la rosa solitaria del respiro.
Temo di essere lungo questa riva
un tronco spoglio, e quel che più m'accora
è non avere fiore, polpa, argilla
per il verme di questa sofferenza.
Se sei il mio tesoro seppellito,
la mia croce e il mio fradicio dolore,
se io sono il cane e tu il mio padrone
non farmi perdere ciò che ho raggiunto
e guarisci le acque del tuo fiume
con foglie dell'autunno mio impazzito.
Llagas de amor
Esta luz, este fuego que devora.
Este paisaje gris que me rodea.
Este dolor por una sola idea.
Esta angustia de cielo, mundo y hora.
Este llanto de sangre que decora
lira sin pulso ya, lúbrica tea.
Este peso del mar que me golpea.
Este alacrán que por mi pecho mora.
Son guirlanda de amor, cama de herido,
donde sin sueño, sueño tu presencia
entre las ruinas de mi pecho hundido.
Y aunque busco la cumbre de prudencia,
me da tu corazón valle tendido
con cicuta y pasión de amarga ciencia.
La luce, questo fuoco che divora.
Questo paesaggio grigio che m'attornia.
Questa pena per una sola idea.
Quest'angoscia di cielo, terra e d'ora.
Questo pianto di sangue che decora
lira senza timbro, torcia senza presa.
Questo peso del mare che mi frusta.
Questo scorpione che attende entro di me.
Guirlanda d'amore, letto di ferito,
sono e di insonne, sogno la presenza
tua nel fondo in rovina del mio petto;
e se ricerco una vetta di prudenza
il tuo cuore mi dà una valle densa
di cicuta e passione d'aspra scienza.
El amor duerme en el pecho del poeta
Tú nunca entenderás lo que te quiero
porque duermes en mí y estás dormido.
Yo te oculto llorando, perseguido
por una voz de penetrante acero.
Norma que agita igual carne y lucero
traspasa ya mi pecho dolorido
y las turbias palabras han mordido
las alas de tu espíritu severo.
Grupo de gente salta en los jardines
esperando tu cuerpo y mi agonía
en caballos de luz y verdes crines.
Pero sigue durmiendo, vita mía.
¡Oye mi sangre rota en los violines!
¡Mira que nos acechan todavía!
Non saprai mai cos'è questo mio amore
perché addormentato dormi su di me.
Ti nascondo di lacrime, inseguito
da una voce d'acciaio lancinante.
La norma che scompiglia corpi ed astri
s'è fitta nel mio petto dolorante
e hanno morso le torbide parole
le ali del tuo animo severo.
A gruppi gente salta nei giardini,
attende il corpo tuo e la mia agonia
in cavalli di luce e verdi crini.
Ma continua a dormire, vita mia.
Senti il mio sangue rotto tra i violini?
Attento! ci spia qualcuno, attento!
Noche del amor insonne
Noche arriba los dos con luna llena,
yo me puse a llorar y tú reías.
Tu desdén era un dios, las quejas mías
momentos y palomas en cadena.
Noche abajo los dos. Cristal de pena,
llorabas tú por hondas lejanías.
Mi dolor era un grupo de agonías
sobre tu débil corazón de arena.
La aurora nos unió sobre la cama,
las bocas puestas el chorro helado
de un sangre sin fin que derramada.
Y el sol entró por el balcón cerrado
y el coral de la vida abrió su rama
sobre mi corazón amortajado.
Notte alta, noi due e la luna piena;
io che piangevo, mentre tu ridevi.
Un dio era il tuo scherno; i miei lamenti
attimi e colombe incatenate.
Notte bassa, noi due. Cristallo e pena,
piangevi tu in profonde lontananze.
La mia angoscia era un gruppo di agonie
sopra il tuo cuore debole di sabbia.
L'alba ci ricongiunse sopra il letto,
le bocche su quel gelido fluire
di un sangue che dilaga senza fine.
Penetrò il sole la veranda chiusa
e il corallo della vita aprì i suoi rami
sopra il mio cuore nel sudario avvolto.
Agli inizi degli anni '60 esplode il fenomeno della Neo-Avanguardia, un insieme molto composito di movimenti e singoli artisti ed intellettuali che criticano radicalmente gli stilemi della tradizione letteraria - attaccando in particolare il ripiegamento intimista che ha contraddistinto molta poesia della prima metà del Novecento - sia la società capitalistica il cui conformismo reprime la libera espressione individuale.
Promotore della neoavanguardia è il Gruppo del '63, fondato a Palermo da scrittori e poeti che rimase unito fino al 1970. Gli esponenti di questo Gruppo tentarono di mettere in evidenza la "non-comunicabilità", il "non-senso" delle parole nell'ambito di una società massificata dal potere capitalistico, e per tale motivo si impegnarono coscientemente in un'opera di dissolvimento del linguaggio poetico tradizionale, nell'attesa di una rifondazione etico-ideologica della società capace di promuovere l'avvento di un nuovo e più autentico linguaggio. Tra questi poeti il più interessante e noto è Edoardo Sanguineti. La lirica scelta per oggi inizia come insegnamento e si trasforma in demistificazione. Mentre con il figlio osserva un libro illustrato, il poeta gli insegna che dietro ad ogni cosa in esso rappresentata e ogni manifestazione della vita si nasconde l'onnipotenza del denaro.
PURGATORIO DE L' INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali".
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, e' la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l'autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di
Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo
massetere
è il parto: ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente.
Oggi vado con Vladimir Majakovskij. Un amore che non è fine, ma mezzo. Che finisce forse per perdere la sua dimensione totalizzante e che diviene invece lo strumento per far ricominciare a battere i cuori raffreddati. L'amore, dunque, come mezzo per ricominciare a vivere.
Per noi
L'amore
non è paradiso terrestre,
a noi
l'amore
annunzia ronzando
che di nuovo
è stato messo in marcia
il motore
raffreddato del cuore.
La poesia delle "odi elementari" di Pablo Neruda elegge a suo tema le cose più umili, e insieme i grandi fenomeni naturali, le persone e i sentimenti, ricreandoli in un'atmosfera quasi fanciullesca di "primo incontro" con essi, e riflettendo sulla magia delle loro presenze nella vita dell'uomo.
Uno dei motivi esistenziali, insito e denso di memoria di vita, è la pioggia, quella pioggia di cui il poeta ricorda intrise infanzia e adolescenza vissute a Parral e a Temuco, nell'umida regione meridionale del Cile. Nell' Ode alla pioggia, la pioggia è tornata non dal cielo o dall' ovest, ma dall'infanzia del poeta. È la pioggia che lo sorprendeva con le scarpe rotte mentre "l'ordito del cielo straripato/si lacerava sopra/la mia testa"; ed è la pioggia che s'insinua nei fori del tetto e fa "infiltrare l'acqua/nelle stanze/dei poveri". Accade che sotto il peso e l'azione erosiva della pioggia le case dei poveri si sgretolino e che, nemica, essa continui a cadere sulle loro disgrazie. Eppure la pioggia è bella, il poeta ama la pioggia benché ostile "come un pugnale di vetro,/ trasparente", benché arrechi danni funesti alle misere case della povera gente ("cataste/di frammenti di ignominia"). Amarla gli ha lasciato nella bocca "un gusto amaro,/un amaro sapore di rimorso". Però la pioggia consente il germogliare del seme: il suo canto operoso e proletario fertilizza monti e praterie, ravviva "lo smorto ruscello/perduto sulla montagna", dà forza "al germe/primaverile del grano". Neruda evoca la pioggia dell'infanzia perché canti sopra i tetti e sulle foglie, canti nella fiducia e sulla vita, perché "con il tuo canto/e con il mio canto/.../entrambi abbiamo/a che fare con le sementi/e compariamo/il dovere cantando".
Volvió la lluvia.
No volvió del cielo
o del oeste.
Ha vuelto de mi infancia.
Se abrió la noche, un trueno
la conmovió, el sonido
barrió las soledades,
y entonces,
llegó la lluvia,
regresó la lluvia
de mi infancia,
primero
en una ráfaga
colérica,
luego
como la cola
mojada
de un planeta,
la lluvia
tic tac mil veces tic
tac mil
veces un trineo,
un espacioso golpe
de pétalos oscuros
en la noche,
de pronto
intensa
acribillado
con agujas
el follaje,
otras veces
un manto
tempestuoso
cayendo
en el silencio,
lla lluvia,
Mar de arriba,
rosa fresca,
desnuda,
voz del cielo,
violín negro,
hermosura,
desde niño
te amo,
no porque seas buena,
sino por tua belleza.
Caminé
con los zapatos rotos
mientras los hilos
del cielo desbocado
se destrenzaban sobre
mi cabeza,
me traían
a mí y a las raíces
las comunicaciones
de la altura,
el oxígeno húmedo,
la libertad del bosque.
Conozco
tus desmanes,
el agujero
en el tejado
cayendo
su gotario
en las habitaciones
de los pobres:
allí desenmascaras
tu belleza,
eres hostil
como una
celestial
armadura,
como un puñal de vidrio,
transparente,
allí
te conocí de veras.
Sin embargo,
enamorado
tuyo
seguí
siendo,
en la noche
cerrando la mirada
esperé el mundo,
esperé que cantaras
sólo para mi oído,
porque mi corazón guardaba toda
germinación terrestre
y en él se precipitan los metales
y se levanta el trigo.
Amarte, sin embargo
me dejó en la boca
gusto amargo,
sabor amargo de remordimiento.
Anoche solamente
aquí en Santiago
las poblaciones
de la Nueva Legua
se desmoronaron,
las vivendas
callampas,
hacinados
fragmentos de ignominia,
el peso de tu paso
se cayeron,
los niños
lloraban en el barro
y allí días y días
en las camas mojadas,
sillas rotas,
las mujeres,
el fuego, las cocinas,
mientras tu, lluvia negra,
enemiga,
continuabas cayendo
sobre nuestras desgracias.
Yo creo
que algún día,
que inscribiremos en el calendario,
tendrán techo seguro,
techo firme,
los hombres en su sueño,
todos
los dormidos,
y cuando en la noche
lla lluvia
regrese
de mi infancia
cantará en los oídos
de otros niños
y alegre
será el canto
de la lluvia en el mundo,
también trabajadora,
proletaria,
ocupadisima
fertilizando montes
y praderas,
dando fuerza a los ríos,
engalanando
el desmayado arroyo
perdido en la montaña,
trabajando
en el hielo
de los huracanados
ventisqueros,
corriendo
sobre el lomo
de la ganadería,
dando valor el germen
primaveral del trigo,
lavando las almendras
escondidas,
trabajando con fuerza
y con delicadeza fugitiva,
con manos y con hilos
en la preparaciones de la tierra.
Lluvia
de ayer,
oh triste
lluvia
de Loncoche y Temuco,
canta,
canta,
canta sobre los thecos
y las hojas,
canta en el viento frío,
canta en mí corazón, en mi confianza,
en mi techo, en mis venas,
en mi vida,
ya no te tengo miedo,
resbala
hacia la tierra
cantando con tu canto
y con mi canto,
porque los dos tenemos
trabajo en las semillas
y compartimos
el deber cantando.
È tornata la pioggia.
E non è tornata dal cielo
o dall' ovest.
È tornata dalla mia infanzia.
S'è aperta la notte, un tuono
l'ha scossa, il boato
ha spazzato la solitudine,
ed allora
è arrivata la pioggia,
è ritornata la pioggia
della mia infanzia,
prima
una raffica
collerica,
poi
come la coda
bagnata
di un pianeta,
la pioggia
tic tac mille volte tic
tac mille
vite una slitta,
un martellare lento
di petali oscuri
nella notte,
d'improvviso
intensa
crivellando
di aghi
il fogliame,
altre volte
un manto
tempestoso
che si rovescia
nel silenzio,
la pioggia,
mare di sopra,
rosa fresca,
nuda,
voce del cielo,
violino nero,
bellezza,
fin da quando ero bambino
ti amo,
non perché tu sia buona,
ma per la tua bellezza.
Camminavo
con le scarpe rotte
mentre l'ordito
del cielo straripato
si lacerava sopra
la mia testa
portando
a me e alle radici
le sostanze
dell'altitudine,
l'ossigeno umido,
la libertà del bosco.
Conosco
i tuoi eccessi,
il foro
nel tetto
che fa
infiltrare acqua
nelle stanze
dei poveri:
lì sveli
la tua bellezza,
sei ostile
come una
celestiale
armatura,
come un pugnale di vetro,
trasparente,
lì
t'ho conosciuto veramente.
E però,
non smisi
di essere
innamorato
di te;
nella notte,
chiudendo gli occhi,
aspettai che tu cadessi
sul mondo,
aspettai che tu cantassi
soltanto per me,
perché il mio cuore custodiva ogni
germe terrestre
e in esso precipitano i metalli
e cresce il grano.
Amarti, tuttavia,
m'ha lasciato nella bocca
un gusto amaro,
un amaro sapore di rimorso.
Giusto ieri notte
qui a Santiago
i quartieri
della Nuova Lega
sono franati,
le fungaie
di alloggi,
cataste
di frammenti di ignominia,
sotto il peso del tuo passo
si sono sgretolate,
i bambini
piangevano nel fango
e lì giorni e giorni
sui letti bagnati,
le sedie rotte,
le donne,
il fuoco, le cucine,
mentre tu, pioggia nera,
nemica,
continuavi a cadere
sopra le nostre disgrazie.
Io credo
che un giorno,
che annoteremo nel calendario,
avrà un tetto sicuro,
un tetto solido,
il sonno degli uomini,
di tutti
gli uomini
e quando nella notte
la pioggia
ritornerà
dalla mia infanzia,
canterà alle orecchie
di altri bambini
e allegro
sarà il canto
della pioggia nel mondo,
e sarà anche operosa,
proletaria,
impegnatissima
a fertilizzare monti
e praterie,
a dar forza ai fiumi,
a ravvivare
lo smorto riscello
perduto sulla montagna,
a lavorare
nel gelo
dei nevai
battuti dalle tormente,
a correre
sulla groppa
del bestiame,
a dare forza al germe
primaverile del grano,
a lavare i diamanti
nascosti,
a lavorare con forza
e con dicatezza fuggitiva,
con mani e con fili
nei preparativi della terra.
Pioggia
di ieri,
oh triste
pioggia
di Loncoche e di Temuco,
canta,
canta,
canta sopra i tetti
e sulle foglie,
canta nel vento freddo,
canta nel mio cuore, nella mia fiducia,
sul mio tetto, sulle mie vene,
sulla mia vita,
non ho più paura di te,
scivola
verso la terra
cantando con il tuo canto
e con il mio canto,
perché entrambi abbiamo
a che fare con le sementi
e compartiamo
il dovere cantando.