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La poesia del giorno.
A di AemonTargaryen
creato il 22 marzo 2019


Seija
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Inviato il 27 gennaio 2020 10:29

Paul Celan è tra i poeti più profondi e complessi del Novecento. Per tutta la vita si confronto' con la "sentenza" di Theodor W. Adorno sull'impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz, lottando fino allo stremo delle forze per affermare il riconoscimento della propria opera, con cui intendeva restituire voce a chi non ne aveva più. La poesia Todesfuge/Fuga di morte è forse la sua più famosa e rappresenta un'emblema dell'elaborazione poetica dell'Olocausto. Scritta nel 1945, finì poi nel suo primo libro noto "Papavero e memoria ", dove il papavero stata per oblio. L' accusa da sempre  rivolta a Celan è l'oscurità, ricercata da lui volutamente, col suo linguaggio audace e delicato, visionario, come le sue immaginose metafore e le sue cicliche ripetizioni.

Fuga di morte è il più tremendo atto di accusa contro gli sterminatori degli ebrei. Celan adotta lo schema musicale ( Bach ) della fuga, a 4 voci ( le strofe ), con monotonia ossessiva, ma in ogni strofa aggiunge temi nuovi, usando l' iterazione, l' accumulo, il crescendo. L'aguzzino , l'intellettuale, legge Goethe e scrive una lettera, intanto organizza lo sterminio di un gruppo di ebrei. Ecco dunque la contrapposizione tra la bionda ariana Margarete con l'ebrea Sulamith, i cui capelli finiranno in cenere nel forno crematorio.

 

 

Negro latte dell'alba noi lo beviamo la sera

noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo

beviamo la notte

noi beviamo e beviamo 

noi scaviamo una tomba nell'aria chi vi giace

non sta stretto

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi

che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi

capelli d' oro Margarete

egli scrive egli s'erge sulla porta e le stelle

lampeggiano

egli aduna i mastini con un fischio

con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare

una tomba nella terra

ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare

 

Negro latte dell' alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti

beviamo la sera

noi beviamo e beviamo

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi

che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi

capelli d' oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo

una tomba nell'aria chi vi giace non sta stretto

 

Egli grida puntate più a fondo nel cuor della

terra e voi altri cantate e suonate

egli estrae dalla cintola il ferro lo brandisce i

suoi occhi sono azzurri

voi puntate più in fondo le zappe e voi ancora 

suonate perché si deve ballare

 

Negro latte dell'alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti

beviamo la sera

noi beviamo e beviamo

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d'oro

Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca

colle serpi

Egli grida suonate più dolce la morte la morte 

è un Maestro di Germania

grida cavate ai violini suono più oscuro così

andrete come fumo nell'aria

così avrete nelle nubi una tomba  chi vi giace

non sta stretto

 

Negro latte dell'alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio la morte è un

Maestro di Germania

noi ti beviamo la sera come il mattino noi

beviamo e beviamo

la morte è un Maestro di Germania il suo

occhio è azzurro

egli ti coglie col piombo ti coglie con mira

precisa

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d'oro

Margarete

egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una

tomba nell'aria

egli gioca colle serpi e sogna la morte è un

Maestro di Germania

 

i tuoi capelli d'oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith

 



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Inviato il 05 febbraio 2020 11:52

Poeta molto prolifico, Ghiannis Ritsos nacque nel 1909 a Monemvassia, villaggio del Peloponneso meridionale; si era sempre definito un "artigiano della parola": interrotti gli studi a 18 anni per la rovina della sua agiata famiglia e un principio di tisi, fu ballerino di avanspettacolo e correttore di bozze, partigiano durante la seconda guerra mondiale e deportato durante il regime dei colonnelli.

L' opera poetica di Ritsos mette al centro l' uomo, trovando questo antropocentrismo nel retaggio di tutta l'arte classica greca. L' uomo è capace di orrori indicibili, e lo testimoniano la lotta al nazifascismo, la guerra civile, le divisioni, e al contempo in grado di alte realizzazioni. Allora ecco lo scopo del poeta secondo Ritsos: sperare, affidare a questo rischio le proprie parole, credere possibile un mondo migliore, dominato dalla bellezza. È una follia, come ammetteva lo stesso poeta, ma i poeti devono  essere " eterni inconsolabili consolatori del mondo" .

 

Azzurrita'

 

Non scordiamoci mai - disse - i buoni

insegnamenti, quelli

dell'arte greca. Sempre l'azzurro di fianco

al quotidiano. Di fianco all' uomo: l' animale e

l'oggetto -

un braccialetto al braccio della dea nuda; un

fiore

caduto al suolo. Ricordate le belle

raffigurazioni 

sui nostri vasi di terracotta - gli dei con gli

uccelli e animali,

e insieme la lira, un martello, un pomo, la

cassa, le tenaglie;

oh, e quella poesia in cui il dio, finito il suo

lavoro,

tira dal fuoco i mantici, raccoglie gli attrezzi

uno per uno

nella sua cassa d'argento; poi, con una

spugna, s' asciuga

il viso, le mani, il collo muscolo e l'irsuto 

petto.

Così, pulito e ordinato, esce la sera,

appoggiandosi

sulle spalle degli adolescenti d' oro - opera

delle sue mani

dotate di forza, pensiero e voce; esce per

strada,

più maestoso di tutti, il dio claudicante,

il dio lavoratore.

 

 

Scolorimento

 

Più passa il tempo e più ingrandisce il

mare.

Contemporaneamente perde i suoi colori,

le cime si spezzano una a una.

Innumerevoli ancore

arrugginiscono sulla terraferma. Quella

che chiamano 

libertà che non fosse perdita? E che 

sia

la perdita l' unico guadagno? Dopo

né perdita né guadagno. Niente. Le luci

della dogana e della taverna sul mare

spente.

Solo la notte con le sue stelle false.

 

 

Gomitolo di piume

 

Le poesie che ho vissuto tacendo sul tuo

corpo

mi chiederanno la loro voce un giorno,

quando andrai.

Ma io non avrò più voce per ridirle allora.

Perché tu eri abituata 

a camminare scalza per le stanze, e poi ti

rannicchiavi sul letto,

gomitolo di piume, seta e fiamma selvaggia.

Incrociavi le mani

sui ginocchi, mettendo in mostra provocante

i piedi rosa impolverati. Devi ricordarmi così

- dicevi;

ricordami così coi piedi sporchi; coi capelli

che mi coprono gli occhi - perché ti vedo più

profondamente così. Dunque,

come potrò più avere voce. La Poesia non ha

mai camminato così

sotto i bianchissimi meli in fiore in nessun

paradiso.

 

 

Il valore delle cose nude

 

Ridirai la stessa parola

nuda

quella

per la quale hai vissuto

e sei morto

per la quale sei risorto

( quante volte? )

proprio per nulla.

Così tutta la notte

tutte le notti

sotto le pietre

sillaba a sillaba

come la fontana che gocciola

nel sonno dell'assetato

goccia a goccia

ancora e ancora

sotto le pietre

tutte le notti

contate sulle dita 

semplicemente

come quando dici : ti amo

così semplicemente

respirando

davanti alla finestra

<< li - ber - ta' ! >>

 

 

 

 

 

 



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Inviato il 13 febbraio 2020 17:17

Umberto Saba cominciò a scrivere in un periodo in cui imperavano dannunzianesimo e Futurismo, ma non si lasciò mai tentare dalle mode e dai miti letterari rimanendo  sempre legato ad una concezione molto personale della poesia. Saba faceva della semplicità l'idea portante non solo formale, ma anche ideologica della sua poetica, che si fonda sulla celebrazione del quotidiano, sull'adozione di un linguaggio dimesso: "parole senza storia". Il linguaggio degli "umili" è l'unico modo di fare "poesia onesta"dichiarò egli stesso. 

La poesia Ulisse è tratta dalla raccolta Mediterranee (1946). Saba ripropone qui il mito di Ulisse associando il suo " viaggio "a quello dell'eroe omerico. Tema centrale è la ricerca, continua e perenne non dell'approdo, ma della "verità". Il mare diventa il suo regno e qui scopre l'intramontabile amore per la vita, un doloroso amore per la vita. Il poeta è consapevole che la vita è intrisa di dolore, ma che solo a questa condizione è vita vera, che proprio per questo vale la pena di amarla. 

 

 

Nella giovinezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d'onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede, 

coperti d'alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l'alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più a largo, 

per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito, 

e della vita il doloroso amore. 



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Inviato il 20 febbraio 2020 11:51

Le poesie di Nazim  Hikmet richiamano spesso alla mente passaggi lirici e retorici alternativi con epopee narrative che mostrano eventi di un passato lontano o per evocare quelli provenienti dalla vita diretta dell'autore. 

La poesia Prima che bruci Parigi richiama tantissimi paesaggi e motivi romantici, focalizzando nella mente del lettore precisi momenti, situazioni e talvolta emozioni. 

 

 

Finché ancora tempo, mio amore

e prima che bruci Parigi

finché ancora tempo, mio amore

finché il mio cuore è sul suo ramo

vorrei una notte di maggio

una di queste notti

sul lungosenna Voltaire

baciarti sulla bocca

e andando poi a Notre-Dame

contempleremmo  il suo rosone

e a un tratto serrandoti a me

di gioia paura stupore

piange resti silenziosamente

e le stelle piangerebbero

mischiate alla pioggia fine. 

 

Finché ancora tempo, mio amore

e prima che bruci Parigi 

finché ancora tempo, mio amore

finché il mio cuore è sul ramo

in questa notte di maggio sul lungosenna

sotto i salici, mia rosa, con te

sotto i salici piangenti molli di pioggia

ti direi due parole le più ripetute a Parigi

le più ripetute, le più sincere

fischietterei  una canzone

e crederemmo negli uomini. 

 

In alto, le case di pietra

senza encavi né gobbe

appiccicate

coi loro muri al chiar di luna

e le loro finestre dritte che dormono in piedi

e sulla riva di fronte il Louvre

illuminato da noi due

il nostro splendido palazzo

di cristallo. 

 

Finché ancora tempo, mio amore

e prima che bruci Parigi

finché ancora tempo, mio amore

finché il mio cuore è sul ramo

in questa notte di maggio, lungo la Senna, nei depositi

ci siederemmo sui barili rossi

di fronte al fiume scuro della notte

per salutare la chiatta dalla cabina gialla che passa

- verso il Belgio o verso l'Olanda? -

davanti alla cabina una donna 

con un grembiule bianco

sorride dolcemente. 

 

Finché ancora tempo, mio amore

e prima che bruci Parigi

finché ancora tempo, mio amore. 

 

 



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Inviato il 28 febbraio 2020 18:37

La bellezza nella semplicità, questa è la poesia di Sergej Esenin, poeta russo nato a Konstantinovo nel 1895 e morto suicida a Leningrado nel 1925, a soli 30 anni. 

Bellissimo, romantico, bisessuale, spregiudicato capace di usare sia uomini che donne per raggiungere le sue mete, cerca appoggio presso uomini influenti. 

Dotato di una personalità romantica, Esenin si innamora di frequente, tanto che arriva a sposarsi per ben 5 volte. Allo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre Sergej sostiene la rivoluzione credendo che avrebbe comportato una vita migliore, ma ben presto si disillude arrivando persino a criticare il governo bolscevico. Nel 1918 fonda una propria casa editrice " Compagnia lavorativa moscovita degli artisti della parola". Nel 1921 mentre visita lo studio di un pittore conosce la celebre ballerina americana Isadora Duncan, che diventa la sua terza moglie. Isadora ha 17 anni più di lui e non conosce una parola di russo e Sergej non conosce l'inglese, ma l'incontro riempie per mesi la sua poesia; la vita con la ballerina è tormentata e difficile, piena di stravaganze e scandali. Esenin accompagna la celebre moglie in tournée in Europa  e negli Stati Uniti. La Duncan approfitta del giovane marito spesso ubriaco e drogato, che faceva notizia con le due crisi di rabbia, per ravvivare la sua notorietà in declino. Il matrimonio dura poco. Nel 1925 sposa la sua quinta moglie, Sofia Andreevna Tolstaja, nipote di Lev Tolstoj. La moglie cerca di aiutarlo, ma Sergej non riesce ad evitare un esaurimento nervoso. Nel novembre 1925 è ricoverato in un ospedale psichiatrico dove resta per un mese. Viene dimesso per Natale, ma due giorni dopo si taglia un  polso e scrive con il suo sangue la sua ultima poesia, che rappresenta il suo addio al mondo. Si impicca nella stanza di un albergo a San Pietroburgo il giorno dopo. 

Leggere le poesie di Esenin graffia anima e nervi, provocando piccole, livide ferite. I suoi versi ipnotizzano e straziano, illuminano e gettano nel profondo dove buio e silenzio regnano. La vita è comunque protagonista assoluta, anche quando è negata, assente, anche quando sembra giunta ad una fine già scritta, predestinata. Definito poeta contadino per le due origini rurali, Esenin fece sempre riferimento nei propri componimenti alla Sua Russia, quella terra fatta di cavalli, capanne, villaggi e ricordi. Una Russia davvero madre, riferimento assoluto, porto nel quale tornate e da amare comunque, anche nel cambiamento. 

Quello di Esenin è il percorso di chi ama la vita e dalla vita viene sopraffatto, in una caduta libera che lo porta a soffrire di allucinazioni e a tentare più vite il suicidio. 

 

Sul piatto azzurro del cielo 

 

Sul piatto azzurro del cielo

C'è un fumo melato di nuvole gialle, 

La notte sogna. Dormono gli uomini, 

L' angoscia solo me tormenta. 

 

Intersecato di nubi, 

Il bosco respira un dolce fumo. 

Dentro l' anello dei crepacci celesti

Il declivio tende le dita. 

 

Dalla palude giunge il grido dell' airone, 

Il chiaro gorgoglio dell' acqua, 

E dalle nuvole occhieggia, 

Come una goccia, una stella solitaria. 

 

Potere  con essa, in quel torbido fumo, 

Appiccicare un incendio nel bosco, 

E insieme perirvi come un lampo nel cielo. 

 

 

Confessione di un teppista

 

Non tutti possono cantare. 

Non a tutti è dato cadere

Come una mela ai piedi degli altri. 

 

È questa la più grande confessione

Che possa fare un teppista. 

 

Vado a bella posa spettinato, 

Col capo, come un lume a petrolio, sulle spalle. 

Mi piace rischiarare nelle tenebre

Lo spoglio autunno delle anime vostre. 

Mi piace che i sassi dell' ingiuria

Mi volino addosso, come grandine

Di ruttante bufera. 

Allora stringo solo con le mani più forte

La bolla dondolante dei capelli. 

 

Ma è così dolce allora ricordare

Lo stagno erboso e il fioco stormire dell' alno,

Che ho un padre e una madre lontani, 

Cui non importa di tutti i miei versi, 

Cui son caro, come un campo e la carne, 

Come la pioggerella, 

Che a primavera fa soffici i verdi. 

Loro verrebbero a infilzarvi 

Con le forche per ogni vostro grido

Scagliato contro di me. 

 

Poveri, poveri contadini! 

Siete certo imbruttiti, 

E temete il Signore

E le viscere palustri. 

Oh! poteste capire

Che vostro figlio

È il miglior poeta di Russia! 

Non vi brinava sul cuore

Per la sua vita, 

Quando coi piedi nudi si bagnava

Nelle pozze autunnali? 

Ora invece cammina in cilindro

E scarpe di vernice. 

 

Ma vive ancora in lui l' antica foga

Del monello campagnolo, 

Che ogni cosa vuoi rimettere a posto

Ad ogni mucca sulle insegne di macelleria

Egli manda un saluto di lontano. 

E incontrando in piazza i vetturini

E ricordando l'odore del letame

Dei campi natali, 

È pronto a reggere la coda a ogni cavallo, 

Come lo strascico d' un abito nuziale. 

 

Amo la patria, 

Amo molto la patria! 

Anche se copre i suoi salici

Rugginosa mestizia. 

Mi son cari i grifi imbrattati dei maiali

E nella quiete notturna la voce

Risonante dei rospi. 

Dei ricordi d' infanzia, 

Sogno la bruma

Delle serate umide d' aprile

Il nostro acero pareva

Si fosse accoccolato a riscaldarsi

Al falò del tramonto. 

Oh, quante uova rubavo ai nidi dei corvi, 

Arrampicandomi sui rami! 

È sempre lo stesso, anche ora, 

Con la sua cima verde? 

La sua corteccia è dura come allora? 

 

E tu, mio prediletto

Fedele cane pezzato?! 

Per la vecchiaia ora sei stridulo e cieco

Ed erri nel cortile,

Trascinando la coda penzolante, 

Senza più riconoscere al fiuto

Dove sia la porta e la stalla. 

Oh, come mi son care quelle birichinate, 

Quando, rubato alla mamma un cantuccio di pane, 

Lo mordevo insieme uno alla volta, 

Senza lasciare cadere una briciola 

L' uno all'altro. 

 

Io non sono mutato. 

Nel mio cuore non sono mutato. 

Come fiordaliso nella segale, 

Gli occhi fioriscono nel volto. 

Stendendo stuoie dorate di versi, 

Ho voglia di dirvi una tenera parola

Buona notte! 

A voi tutti buona notte! 

Più non tintinna nell'erba del crepuscolo

La falce del tramonto. 

Quest'oggi ho tanta voglia di pisciare

Dalla finestra mia contro la luna. 

 

Luce azzurra, luce sì azzurra! 

In quest'azzurro persino morire 

Non duole. Ebbene, che importa

Se ho l'aspetto d' un cinico

Che si è agganciato al sedere un fanale.

Vecchio, buon Pegaso spossato, 

Ho forse bisogno del tuo morbido trotto? 

Son venuto come un  servo maestro

A decantare e celebrare i topi. 

La mia testa, come agosto, 

Si effonde in vino di capelli ribelli. 

 

Ho voglia d'essere una gialla vela

Per il paese verso cui navighiamo. 

 

 

Arrivederci, amico mio, arrivederci

 

Arrivederci, amico mio, arrivederci, 

Tu sei nel mio cuore

Una predestinata separazione

Un futuro incontro promette. 

 

Arrivederci, amico mio, 

Senza strette di mano e parole, 

Non rattristarti e niente

Malinconia sulle ciglia:

Morire in questa vita non è nuovo, 

Ma più nuovo non è nemmeno vivere. 

 

 

 

 

 

Modificato il 05 July 2024 17:07


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Inviato il 10 marzo 2020 17:11

Oggi è tristemente nota come "l' isola dei dannati", un tempo fu la terra madre della lirica monodica, poesia sviluppatasi intorno al VI secolo nell'isola di Lesbo. Secondo il mito fu la testa del cantore Orfeo ( che era stato decapitato dalle donne di Tracia), sospinta dal mare fino alle spiagge di Lesbo, e qui sotterrata a rendere l'isola la culla della poesia lirica. 

L'isola si accompagna ancora oggi alla fama di Saffo Alceo, i massimi esponenti della Grecia arcaica di lirica eolica. La loro poesia nasce per rispondere alle esigenze culturali di circoli aristocratici ed elitari, decisamente esclusivi: la comunità femminile del tiaso e i" banchetti degli amici" d' eteria. I due poeti cantavano e rappresentavano due volti di una società, a cavallo tra il VII e il VI secolo a. C., ricca, colta e inficiata da dinamiche politiche: poetessa d'amore Saffo, compositore civile e politico Alceo. La letteratura antica testimonia, anche se in maniera controversa, di un legame biografico fra Alceo e Saffo, e di una presunta passione dell'uomo per la donna. Quello che è certo è che fra i due esisteva una differente interpretazione della figura di Elena di Omero. Alceo la condanna in modo irreversibile perché la giudica fedifraga e adultera, non soltanto del marito, ma anche di valori etici e sociali. La lealtà al marito e alla patria erano i valori fondamentali della mentalità omerica. Saffo, invece, giustifica e perdona la donna perché, vittima di Afrodite, scelse la cosa più bella, cioè il suo amore, scatenando la guerra. 

La querelle la iniziò sicuramente Alceo con due poesie su Elena. 

 

Elena e Thetis

 

È fama che da te per le tue colpe, 

Elena, a Priamo ed ai suoi figli venne

amara pena, e Zeus diede alle fiamme 

la sacra Ilio. 

Non tale il figlio d' E'aco, illustre eroe, 

che alle nozze invitò tutti i beati, 

dalle stanze di Nereo portò via

tenera sposa in caso di Chirone:

egli alla vergine

sciolse il cinto, e così fiorì l'amore

tra Peleo e la Nereide più bella. 

In capo ad un anno le nacque un figlio, 

il semidio più forte, 

gagliardo auriga di cavalle saure:

per Elena così caddero i Frigi

e cadde tr**a. 

 

La follia di Elena

 

(Afrodite) E sconvolse nel petto il cuore a Elena

d'Argo, che folle per l'eroe troiano

traditore degli ospiti con lui

fuggì per mare, 

e in casa abbandonò la figlia e il talamo

sontuoso del marito; indotta a cedere

nell'animo all'amore, lei che nacque

da Leda e Zeus. 

... follia ... 

e molti dei fratelli ha il nero suolo

della piana di tr**a, uccisi in guerra

a causa sua, 

tra i carri rovesciati nella polvere, 

molti guerrieri dallo sguardo vivido

giacquero calpestati, atroce gioia

al chiaro Achille. 

 

 

A queste due poesie rispose Saffo con la famosa La cosa più bella-L'amore di Elena. 

 

Dicono che sopra la terra nera 

la cosa più bella sia una fila di cavalieri, 

o di ospiti, o di navi. 

Io dico : quello che s'ama.

Chiunque può capirlo facilmente:

colei che superava di molto 

tutti i mortali per bellezza, Elena, 

abbandonò lo sposo

e il più eccellente degli uomini _

e fuggì a tr**a per mare. 

Dimenticò la figlia, dimenticò

i cari genitori. 

Fu Afrodite a sviarla.

.... 

Così ora mi torna alla mente

Anattoria lontana. 

Oh, preferirei rivedere

il suo amabile passo, 

il candore splendente del viso, 

piuttosto che i carri dei Lidi

e battaglie di uomini in armi. 

 

 

 

 

 

 



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Inviato il 09 aprile 2020 16:46

Cristina  Campo è una delle voci poetiche più alte del Novecento. Nasce a Bologna nel 1953 e per via di una malformazione cardiaca congenita vive appartata con due genitori in apprensione perenne. Non gioca con gli altri bambini e non frequenta la scuola.  Studia a casa, legge moltissimo: Omero e Shakespeare, Leopardi e Dante, Le mille e una notte, la Bibbia. E le fiabe, specialmente quelle francesi. È attratta dai loro simboli da bambina, ne scriverà  da adulta esplorandone la profondità. A casa i classici si leggono in lingua originale, così impara francese, tedesco, inglese,  spagnolo. Il russo no, ma legge anche i russi.

La famiglia nel 1925 si trasferisce prima a Parma e poi a Firenze, ambiente dove si forma grazie anche alle amicizie con il germanista Leone Traverso ( con cui ebbe una relazione sentimentale ), Mario Luzi ( amore segreto perché  già sposato), Gianfranco Draghi, Margherita Pieracci Harwell e Gabriella Bemporad. Con molti amici mantiene rapporti  epistolari che tengono vivo il dialogo a distanza ma svelano anche il suo universo culturale e personale, che per lei coincidono. Altra amicizia significativa è quella con Anna Cavalletti; in lei Cristina vede il suo doppio, la riconosce sorella. L' amica però muore tragicamente nel 1943 sotto un bombardamento. 

Cristina ha un' indole solitaria, rifugge la mondanità, i riconoscimenti  e il mercato letterario. Ha in orrore la massificazione, l' omogeneità e la perdita di senso che comportavano. Diceva di sé " ha scritto poco, e le piacerebbe avere scritto meno". Era in cerca di perfezione, un' ossessione sia nella scrittura che nella vita. Non solo sulla pagina è esatta, pulita, ma anche nei gesti quotidiani, nello stile di vita trattenuto. Non le interessano gli orpelli e abbellimenti, la parola coincide con il suo significato più profondo e risplende da sé. Vale anche per le traduzioni: John Donne, Virginia Woolf,  Katherine Mansfield, ma soprattutto Hugo Von Hofmannsthal e Simone Weil, punti fermi nel suo universo letterario.

Con Draghi fonda la posta letteraria del Corriere dell'Adda su cui pubblica i primi saggi. Nelle sue pagine appaiono Alda Merini e Mario Luzi, ma si dà spazio anche agli stranieri, da Machado a Pound. In questo periodo viaggia, ma si stanca presto. Con il tempo il suo mondo fisico si riduce sempre più fino a coincidere con la camera dove, tormentata dall' insonnia, scrive e traduce fino a tardi, lima e lucida parole.

Nel 1955 segue la famiglia a Roma, dove nonostante ci metta tempo ad ambientarsi stringe nuovi sodalizi. Conosce Margherita Dalmati, Maria Zambrana, Elsa Morante,  Ignazio Silone e Corrado Alvaro. Cristina è assorbita dall'assistenza alla madre malata, scrive poco o niente, ma si interessa alla causa di Danilo Dolci in Sicilia e mobilita tutti gli amici per sostenerlo. Nelle questioni si butta a capofitto, dalla lotta per l' indipendenza di Cipro, al massacro dei Watussi alla cagnetta Laika spedita nello spazio. Al trasporto per le grandi cause accosta l'attenzione  per gli individui. 

Nel 1957 incontra Elemire Zolla che è legato a Maria Luisa Spaziani ma il divorzio non è  concepibile e una relazione con un uomo sposato è disdicevole. Eppure i due trovano il modo di frequentarsi e poi anche convivere.

Nell'ultima parte della sua vita l' interesse per la poesia trova uno sbocco spirituale con la conversione alla religione cattolica e l'amore per la liturgia. Quando il Concilio Vaticano II abolisce la messa latina, torna alla tradizione ortodossa e si batte per ripristinare il rito tradizionale. 

Ha 53 anni quando una delle tanti crisi cardiache la strappa alla vita.

 

La neve era sospesa tra la notte e le strade

La neve era sospesa tra la notte e le strade

come il destino tra la mano e il fiore.

 

In un suono soave

di campane diletto sei venuto...

Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.

Oh tenera tempesta

notturna, volto umano! 

 

( Ora tutta la vita è nel mio sguardo,

stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude ).

 

 

Si ripiegano i bianchi abiti estivi 

Si ripiegano i bianchi abiti estivi

e tu discendi sulla meridiana, 

dolce Ottobre, e sui nidi.

 

Trema l' ultimo canto nelle altane

dove sole era l' ombra e ombra il sole,

tra gli affanni sopiti.

 

E mentre indugia tiepida la rosa

l' amara bocca già  stilla il sapore

dei sorridenti addii.

 

 

Oltre il tempo, oltre un angolo

Troppe cose hanno accolto le tue palpebre 

l'attenzione t' ha consusato le ciglia.

Troppe vie t' hanno ripetuta, 

stretta, inseguita.

 

La città da secoli ti divora

ma per te travede,  sogno e sfacelo,

di luci e piogge, lacrime senili

sulla ragazza che passa

febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.

 

Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,

la ronda della piscina di Siloè 

con i cani, gl' ibridi, gli spettri

che non si sanno e tu sai

radicati con te

nel glutine blu dell' asfalto

e credono al tuo fiore che avvampa, bianco _

 

perché tutti viviamo di stelle spente.

 

 

 

 

 

 


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Seija
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