Arya, sei un mito: dovresti fare la detective... No, è proprio un errore formale. Certo, non è la sigaretta di prima (che era finita), ma è un'altra sigaretta, accesa mentre riprova a scrivere la lettera. Solo che non ho detto che se ne è accesa un'altra.
Però se l'avessi detto sarebbe sicuramente suonato ripetitivo. E allora forse dovrei evitare di fargli spegnere quella seconda sigaretta: ma mi piace troppo l'immagine della sigaretta che "viola" per la prima volta il posacenere immacolato. E' anche un'immagine (subliminale) importante, perché segna l'inizio della fine del sogno.
Quindi... non so come fare a correggerlo. Tu come faresti, considerato il constraint del posacenere pulito contaminato dalla prima sigaretta? Pensi che la ripetizione sarebbe più tollerabile del lasciar intendere che nel frattempo se ne è accesa un'altra?
1) Sicuro di dover mettere il posacenere pulito contaminato proprio in quel punto, a distanza così ravvicinata dalla sua pulizia? Non hai pensato di metterlo alla fine, visto che lì lui si accende già una nuova sigaretta? Mi sembra comunque in linea col messaggio e forse il parallelismo verrebbe meglio colto anche dal lettore. Quando suonano alla porta chi legge non conosce ancora la trama successiva e non si rende conto del significato simbolico che il gesto ha. Invece alla fine potrebbe capirlo meglio... Inoltre io al suo posto non penso che avrei risporcato subito un posacenere appena pulito, ma qui magari sono io che non comprendo i fumatori accaniti.
2) In alternativa, potresti in qualche modo dire che riprende a fumare senza nominare "sigaretta", ma adesso non mi viene in mente una frase abbastanza bella.
3) Se non riesci a trovare soluzione, la ripetizione mi sembra il male minore. La chiarezza delle immagini viene prima, e in una scena fatta di gesti ripetuti e vita quitidiana squallida la ripetizione delle parole potrebbe anche non stonare troppo.
Però non so, così su due piedi suggerirei la soluzione 1).
Uhm. La soluzione 1 e' proprio quella che mi piace di meno. In generale, i segnali subliminali che indicano la struttura del racconto, devono anticipare questa struttura, non seguirla. Il lettore non li deve affatto "capire", o cogliere: sono li' semplicemente per spingere la sua mente verso un determinato corso di pensieri, rendendola suscettibile ad accettare quanto segue.
La soluzione migliore, per me, sarebbe proprio la 2 (o anche la 3): devo trovare un trucco.
Naturalmente il racconto che ho postato per questo contest non lo modifico, quello che e' fatto e' fatto.
E se non la accendesse?
potrebbe mettersene meccanimente tra le labbra un'altra mentre torna a sedersi, ma una volta lì rendersi conto di averne appena finita una e, sempre come gesto dettato dall'abitudine (e magari un po' di frustrazione, chè dato lo stato d'animo non sarebbe poi così ingiustificata) schiacciarla comunque nel posacenere appena pulito... secondo la Dama una sigaretta distrutta senza nemmeno essere stata fumata, "uccisa" prima ancora che fosse stata accesa "alla vita" dà ancor più il senso di "fine di un sogno"...
così non ci sarebbe la ripetizione dell'accensione e potresti cercare un giro di parole per fargliela solo prendere.
Esprimo anche io un paio di pareri sui vostri racconti
Skie: non concordo su diverse cose per quanto riguarda il contenuto (povero Don Antonio :unsure: ), anche se l'inizio e, soprattutto, la fine, sono molto belli. Concordo con gli altri per quanto rigaurda la parte centrale, effettivamente un po' troppo ripetitiva
Metal duchess: forse è un problema mio, ma non sono mai riuscito a farmi coinvogere nella storia. Come se i personaggi fossero eterei, non reali, anche se forse era questa la tua intenzione.
Tyrion: mi piace il racconto, mi piace come scrivi, bello.
Erin: quello che m'è piaciuto di più, semplicemente perchè mi piace l'idea. Solo un appunto:scrivi bene, ma secondo me tendi ad abusare dei puntini di sospensione.
Ciao a tutti e complimenti!
Beh, ecco il mio...
DUE MATTONCINI
Mi misi a tavola per cenare, la sera del 18 luglio alle ore 19:00.Vivo solo, in una villa progettata per una famiglia numerosa, o forse anche due, non saprei dire con esattezza. Oltre a me, ci sono squadra di domestici che non vedo mai, dato che hanno il preciso ordine di evitare di incrociarmi, cosa non troppo difficile viste le dimensioni del luogo, e il mio fidato maggiordomo, Duca. Gli ho dato io questo nome, dal momento che non ricordo il suo, e poiché è muto, non può correggermi; non ha più le corde vocali, gli sono state asportate per intero, non a causa di un incidente, anche se non ho la minima idea del perché.
Anche il 18 luglio ero puntualissimo a cena, dopo essere tornato dalla mia consueta passeggiata di due ore esatte: ho adottato questo stile di vita metodico e abitudinario da quando mia moglie se n’è andata, insieme ai nostri figli. Rosa, si chiamava. Ancora non so perché abbiamo divorziato, anche perché non me lo sono domandato molto spesso, né tantomeno l’ho chiesto a lei, e ignoro perché il giudice le abbia assegnato la custodia di tutti i nostri figli; del resto è successo molti anni fa, perciò tendo a perdonarmi queste mancanze. Mia moglie non l’ho mai capita: con me aveva tutto ciò che era necessario per vivere serenamente, dato che sono abbastanza ricco da vivere di rendita, aveva il mio affetto, aveva una famiglia a cui badare, non aveva niente che poteva turbarla. Aveva i nostri bambini. I bambini… ero pronto ai più epici sacrifici per la loro felicità. Curioso, ora non ricordo i loro volti, non rammento neppure quanti erano, né i loro nomi. Mi chiedo se è normale dimenticare le cose più importanti, e preservare nella memoria quelle insulse. Io sono convinto di no.
Dopo cena, fumai la mia sigaretta serale, ascoltando una sinfonia di Mozart, e poi continuai il libro che stavo leggendo fino alle 22:00; come sempre, Duca venne ad avvisarmi dell’ora tarda che si era fatta proiettando la propria ombra sulle pagine sotto i miei occhi.
Il caro Duca. Un giorno lo pagherò per uccidermi. Egli lo sa, e attende con la sua pazienza stoica che arrivi il suo ultimo incarico in questa enorme casa. Devo solo raccogliere il coraggio che ci vuole per dire la parola necessaria e porgere la busta che tengo sotto il materasso. Non è una cosa affatto facile, ma sento che ogni giorno riesco a mettere da parte un mattoncino di determinazione: presto sarebbero diventati sufficienti. Anche il 18 luglio ne conservai uno.
La mattina successiva, ovvero quella del 19 luglio, stavo leggendo il giornale intorno alle ore 6:00, quando mi imbattei nell’annuncio che avrebbe reso quella giornata leggermente diversa da quella che l’aveva preceduta, e da quella che l’avrebbe seguita: il signor Ghissoni, mio conoscente ed ex socio, stava per sciogliere il suo impero commerciale per ritirarsi dagli affari e godersi gli ultimi anni della sua vita.
Sapevo che viveva solo in una villa non molto lontana dalla mia, dato che sua moglie era morta anni prima e i suoi tre figli se n’erano andati poco dopo, non nutrendo molto affetto per quel padre così preso dagli affari. Non ci vedevamo da tempo, a causa dei suoi numerosi impegni e viaggi, ma c’era stata una rispettosa amicizia tra noi due.
Anch’io una volta ero un imprenditore, è così che mi sono arricchito: possedevo una catena di raffinerie che mi aveva fruttato una fortuna, ma che avevo poi venduta integra a Ghissoni che, dal settore tessile, voleva estendere la propria azienda a quello petrolifero.
Sul giornale era chiaramente scritto che le raffinerie che un tempo erano mie sarebbero state smantellate, a causa del fatto che non si era riuscito a trovare un acquirente disposto a investirci.
Questa notizia mi turbò. Non avrei mai pensato che quelle industrie con cui avevo lavorato per gran parte della mia vita, e grazie alle quali mi ero arricchito avrebbero fatto quella fine. Era come se una parte di me, che avevo dato in buona fede a Ghissoni, fosse stata condannata, deliberatamente buttata via, ritenuta di peso, inutile, di troppo. Mi sentii tradito.
Il mio ex socio, ora, era intenzionato a godersi la vecchiaia, senza curarsi degli impegni passati, senza pensieri per la testa, senza l’affanno derivante dal lavoro, senza pensare al torto che mi aveva fatto.
Ebbene, lui mi aveva privato di una parte della mia vita, allora io gli avrei tolto una della sua: l’ultima.
Fu così che decisi di ucciderlo. Non sarebbe stata un’impresa difficile, come compresi quando mi informai discretamente sulla sua situazione attuale: viveva sempre nella stessa villa, con una manciata di domestici, senza guardie, senza niente di pericoloso per un potenziale assassino. Probabilmente era convinto di non avere nemici, e che nessuno avrebbe ragione di fargli del male. Sorrisi pensando che era vero.
Saputo tutto ciò, divenni ferreo nel mio proposito. Pranzai risoluto, riflettendo sul modo migliore per portarlo a termine. Mentre sorseggiavo il consueto bicchiere di vino alla fine del pasto, risolsi per il veleno: pratico, senza pericoloso contatto fisico; procurarselo non sarebbe stato un problema, avevo fiducia in Duca per questo, e a cose fatte non sarebbe stato difficile incolpare uno dei suoi domestici, considerata l’enorme ricchezza di Ghissoni e la grande mia.
Diedi così gli ordini necessari a Duca, che non si mostrò per nulla sorpreso, probabilmente perché pensava fosse finalmente giunto il suo ultimo incarico, e mi avviai al sonnellino pomeridiano di due ore.
Dormii profondamente, e al mio risveglio trovai sul comodino una provetta grande quanto metà di una mia falange, colma di un liquido trasparente che avrebbe potuto essere acqua.
Telefonai alla mia vittima. Mi sembrò lieto che mi fossi fatto vivo dopo un così lungo tempo, proprio ora che aveva tutto il tempo libero che voleva, e mi invitò di sua spontanea volontà a cenare da lui. Si offerse perfino di mandare qualcuno a prendermi a casa mia, ma dato che eravamo relativamente vicini, un paio d’ore di strada a piedi sarebbero bastate per raggiungere la sua villa, rifiutai.
Il resto del tempo che mancava alla mia partenza lo spesi leggendo per quaranta minuti. In realtà, le parole e le frasi su cui scorrevo lo sguardo non arrivavano al mio cervello. O forse sì, ma scivolavano via subito dopo. In realtà, la mia mente vagava.
Uccidere è un servizio di pubblica utilità. Dove avevo sentito questa frase? Anzi, apparteneva a un libro. Cercai di ricordare quale, ma non vi riuscii. Tuttavia mi venne in mente un’altra cosa: quella era solo una parte della massima. Uccidere è un servizio di pubblica utilità, a patto di saperlo fare. Provai un senso di soddisfazione per averla ricomposta, ma non riuscivo a capire il senso di quella seconda parte: a cosa si riferiva? Esistevano un assassino capace e uno incapace? Oppure l’incapace era chi non riusciva a uccidere e quindi era inutile alla società?
Vidi un’ombra allungarsi sulle pagine, riposi il libro, mi alzai e mi diressi al pianoforte.
Quando Duca mi avvisò che era giunta l’ora di uscire, lasciai incompiuta l’esecuzione della sonata “Appassionata” di Beethoven e mi avviai verso la mia meta. Mi sentivo piuttosto calmo, come se stessi andando a fare una cosa normale o pianificata da tempo, o forse era solo l’illusione che quella fosse solamente la quotidiana passeggiata di due ore prima di cenare.
Questa mia tranquillità era cullata e incoraggiata: l’aria era calma e calda, anche se si avvertiva il fresco serale che si stava approssimando; il cielo limpido era ancora illuminato dal sole ormai avviato al tramonto ma non ancora giunto al termine del suo arco, mentre a est si cominciava a scorgere un lieve blu crepuscolo, o almeno così mi sembrava.
Non so come mai quei due giorni, il 18 ed il 19 luglio mi siano rimasti così impressi, mentre quasi tutto il mio passato è oscuro come se non mi appartenga: forse perché, come ho già detto, tendo a ricordarmi le cose insulse rispetto a quelle importanti; devo ammettere, infatti, che la vita di Ghissoni aveva ben poco valore per me, come anche del resto quelle mie raffinerie. La risolutezza e la facilità con cui decisi di uccidere mi stupisce ancora oggi, e non la so spiegare. Forse la mia vita di routine, che conduco tutt’oggi, mi dava troppa noia, o forse mi aveva condotto alla pazzia.
Ad ogni modo, mi incamminai sereno verso la villa del mio amico, pensando ancora alla “Appassionata”, a Duca e alla cena che mi aspettava.
A un certo punto, dopo circa un’ora dalla mia partenza, davanti al cancello di una villetta a lato della strada, vidi un cartello: “Divieto di sosta”. Mi fermai a guardarlo, senza sapere perché. Era ridotto male, la vernice era staccata in certi punti e coperta di ruggine in altri. Contro il palo che lo sorreggeva stava un mendicante, sporco e lacero, dall’aria triste di un cane abbandonato dal padrone che si scorgeva a malapena sotto la gran massa dei capelli e della barba, aggrovigliati, cespugliosi e sudici.
Guardava per terra, ma non appena la mia ombra, proiettata dall’ultimo sole, lo toccò, alzò lo sguardo, e, vedendomi immobile davanti a lui, mi guardò con aria interrogativa. Io, così assorto che me ne accorsi a malapena, senza prestargli la minima attenzione, mormorai: -Divieto…-. Guardai nuovamente il cartello senza vederlo, mi voltai verso la strada per la quale ero venuto ripetendo: -Divieto… giusto…-. E dopo una ventina di passi, con un lieve sorriso: -A patto di saperlo fare…-
Tornai a casa per cenare. Riposi la fialetta con il veleno nel cassetto del mio comodino, per evenienze future.
Quel giorno, pensai, avevo forse messo da parte due mattoncini.
Ciao :unsure:
Bel racconto, Mordente: scritto alla maniera... di altri tempi. Ci sta. Gli dona la necessaria grandiosità.
Vediamo comunque se l'ho veramente capito...
Il tipo invecchia, la sua mente s'insenilisce, sviluppando una tremenda ossessione. Le sue giornate sono tutte uguali, ogni evento ha una durata precisa, tutto ormai è un rituale per lui.
Finché giunge il Grande Evento, quello che spingerebbe il protagonista a vivere una giornata "diversa" da tutte le altre.
Si appresta a compiere la sua grande azione, per realizzare una (assurda) vendetta, ma lungo la strada è sufficiente la sola "idea" di divieto a fermarlo, e a farlo tornare sui suoi passi. E' pur sempre vittima della sua mania ossessiva.
Non sono convinto della correttezza della mia interpretazione, perché ci sono dettagli che potrebbero essere rilevanti, ma che nella mia spiegazione non lo sono. Ad esempio, sotto il segnale di divieto c'è un barbone. Oppure, la perdita della memoria non è un sintomo collegabile all'ossessione. E tant'altro.
In ogni caso, questo mi sembra un racconto davvero ottimo, scritto in modo davvero piacevole e accattivante.
Bel racconto, Mordente: scritto alla maniera... di altri tempi. Ci sta. Gli dona la necessaria grandiosità.
Vediamo comunque se l'ho veramente capito...
Il tipo invecchia, la sua mente s'insenilisce, sviluppando una tremenda ossessione. Le sue giornate sono tutte uguali, ogni evento ha una durata precisa, tutto ormai è un rituale per lui.
Finché giunge il Grande Evento, quello che spingerebbe il protagonista a vivere una giornata "diversa" da tutte le altre.
Si appresta a compiere la sua grande azione, per realizzare una (assurda) vendetta, ma lungo la strada è sufficiente la sola "idea" di divieto a fermarlo, e a farlo tornare sui suoi passi. E' pur sempre vittima della sua mania ossessiva.
Non sono convinto della correttezza della mia interpretazioe, perché ci sono dettagli che potrebbero essere rilevanti, ma che nella mia spiegazione non lo sono. Ad esempio, sotto il segnale di divieto c'è un barbone. Oppure, la perdita della memoria non è un sintomo collegabile all'ossessione. E tant'altro.
In ogni caso, questo mi sembra un racconto davvero ottimo, scritto in modo davvero piacevole e accattivante.
Grazie per il commento, i complimenti e l'interpretazione. Vuoi sapere quella che intendevo imprimere io (magari via mp per non guastare la propria agli altri)?
Vuoi sapere quella che intendevo imprimere io (magari via mp per non guastare la propria agli altri)?
Postalo qui, ma sotto spoiler.
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Agli ordini...
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Allora, giusto quanto hai detto sul cristallizzamento della vita del protagonista, che lo porta ad una disperazione conscia e inconscia.
Le ragioni che lo spingono a decidere di uccidere il suo ex socio sono ben diverse da quelle che crede (esprime egli stesso questo dubbio più avanti nel racconto): come dice, infatti, le raffinerie avevano poca importanza per lui; afferma anche che la vita di Ghissoni gli era indifferente: questa invece è una bugia. Infatti il vero motivo per cui lo vuole uccidere è il desiderio di uccidere se stesso. Loro due sono molto simili: entrambi hanno perso la famiglia, anche se per motivi diversi, sono ricchi, vecchi, non hanno nulla con cui distrarsi, vivono in ville enormi ma vuote. Il protagonista vede in ciò che Ghissoni sarebbe diventato una copia di sè e della sua vita, e vuole risparmiargli il tormento quotidiano che lui stava vivendo; inoltre, egli desidera e insieme teme il suicidio, e uccidere "un altro se stesso" avrebbe potuto esorcizzare questo atto che si decideva ogni giorno di più a compiere. Tutto ciò, ovviamente, è nascosto nel suo inconscio e lui non se ne rende conto.
Il divieto non è un qualunque divieto, ma rappresenta quello imposto dalle regole sociali di non uccidere: il protagonista nel suo desiderio di uccidersi non considera ciò fino a che non vede il cartello di divieto di sosta e improvvisamente si rende conto di star facendo qualcosa che "non si può fare"; questo basta a ricondurlo all'inerzia in cui vive, regalandogli due mattoncini di determinazione, cioè ravvivandogli il desiderio di morire.
Il mendicante, che mostra un'aria sperduta e un aspetto trascurato e lacero è il ritratto di un'autorità che convive con il divieto delle regole sociali e avrebbe anche il compito di promuoverle e difenderle, ma ormai ha dimenticato il suo scopo e, non avendo la forza di staccarsi dal cartello, continua a vivere senza uno scopo preciso, ombra di quello che era e che dovrebbe essere: infatti a far desistere il protagonista dal suo proposito è il divieto e solo esso, non colui che lo accompagna, che viene a stento notato.
Quel "a patto di saperlo fare" che il protagonista ripete mentre torna a casa indica la presa di coscienza del coraggio che ci vuole per infrangere il divieto e che lui non possiede (come non possiede quello che gli occorre per dare l'"ultimo incarico" a Duca), coraggio che non è follia in quanto l'omicidio non è un'azione sbagliata a prescindere, ma lo è solo a livello di pensiero collettivo, e può addirittura divenire, paradossalmente, "un servizio di pubblica utilità".
Mi sembra di aver detto quanto era necessario, mi scuso di essere così logorroico :unsure:
Ciao ;)
Molto intelligente, e devo dire che tutto quello che hai detto "trapela", nel racconto, anche se non sempre (come nel mio caso) arriva tutto a livello conscio. Ma va benissimo cosi'.
Forse il mendicante e' superfluo, pero'. Senza di quello, con la sola visione del vecchio segnale "divieto di sosta", l'idea dietro al racconto passerebbe piu' facilmente.
Forse il mendicante e' superfluo, pero'. Senza di quello, con la sola visione del vecchio segnale "divieto di sosta", l'idea dietro al racconto passerebbe piu' facilmente.
Infatti l'ho aggiunto a posteriori, nell'idea originale non c'era. Però secondo me aiuta a confinare tutto nella sfera del personale e del soggettivo, e soprattutto ad accrescere l'aria di squallore che, a contrasto della scena precedente, avvolge l'incontro con il divieto (cosa che passa anche se non si cercano particolari interpretazioni).
Cmq volendo si potrebbe anche togliere senza compromettere niente.
Si vede che sono reduce da "La coscienza di Zeno"? XD
Ciao :unsure:
Mordente: non è male. Di solito direi che non è una buona idea uno stile così di scrittura da riassunto, ma in questo caso ci può stare e qualche immagine efficace comunque c'è, dove serve. Ci sono delle cose nella punteggiatura secondo me da aggiustare, ma nel complesso è ok.
Anche per me la figura del barbone è superflua, e mi sembra un uso di simboli un po' fine e a sè stesso ed evitabile. Forse è meglio toglierla.
Ho capito abbastanza il significato del brano, tranne che f8d84daf3863bfd0362f9e74a2cf2429'f8d84daf3863bfd0362f9e74a2cf2429
per il fatto che lui vuole uccidere il tizio perchè vede sè stesso in lui
. Non so se è un problema mio o se era meglio trasmetterlo in modo più chiaro.
Non so se è un problema mio o se era meglio trasmetterlo in modo più chiaro.
Non vedo perchè dovrebbe essere reso più esplicito: gli elementi per capirlo mi sembra ci siano (la voglia di morire del protagonista, la situazione di Ghissoni praticamente uguale alla sua, l'ammissione del protagonista di come effettivamente il "pretesto" per uccidere, cioè le raffinerie, fosse poco importante per lui). Se si coglie, si capisce meglio il racconto, se no, pace.
No?