Non condivido: le regole ci sono, e sono quel substrato mediamente condiviso e necessario alla comprensione reciproca. Sono quello che mi dà sicurezza sul fatto che, se dico "Andrò in montagna", il mio interlocutore non penserà che ci sono andato in passato, come se avessi detto "Andai in montagna". Sono anche qualcosa di riscontrabile: se dico "Andai in montagna" intendendo che ci andrò, mediamente (se non totalmente) non verrò capito.
È vero che le regole sono una cosa fatta a posteriori, dovuta a e modificata dall'uso, ma pur nella loro variabilità sono qualcosa di esistente. Se uno mi viene a dire "Andai in montagna" intendendo che ci andrà il giorno dopo... non vedo il problema nel dirgli che la frase è (semanticamente) sbagliata. Né vedo perché considerarla giusta al pari di "Andrò in montagna".
Avevo visto giusto: il mio punto era troppo sottile... Tu commetti un errore comune, che è quello di confondere il segno con il senso. La natura che noi osserviamo (e in particolare quella parte della natura che noi chiamiamo "linguaggio") è un insieme di cose "date", è una fenomenologia che esiste indipendentemente dal fatto che noi le forniamo una "regola". I "segni" esistono indipendentemente dal fatto che noi ne diamo un "senso". Il fatto che "andai" indichi una azione passata è un dato che esiste indipendentemente dal fatto che arrivi un professore di grammatica a spiegarci che si chiama "passato remoto", e che si deve usare in un certo modo. Se uno non comunica, beh, non comunica, basta: ma non è perché ha violato il libro di grammatica: infatti se dico "domani io andare montagna" comunico perfettamente l'idea anche se la frase è scorretta rispetto alle regole codificate (che "fotografano" un'istante nell'infinita evoluzione delle lingue). Sono le regole che corrono dietro alla lingua, e non la lingua che corre dietro alle regole. Ergo, le regole sono posticce - come appunto dicevo.
Aggiunta: discorsi analoghi per errori grammaticali e non semantici.
Idem come sopra... :blink:
C'entra poco: il punto è che c'è una quantità sterminata di persone che usano e capiscono "killare". Se non riesci a cogliere la categoria precisa di quelli che lo fanno, è solo un tuo limite - non ti pare? Non capisco davvero perché occorra per forza determinare una categoria precisa: non basta la diffusione? All'inizio mi sembrava che la pensassi anche tu cosí. Qual è la categoria di quelli che usano e capiscono la parola "antropocentrismo"? I "colti"?Gli antropologi?
Sbagliato... ^_^
E qual è la categoria di chi usa "killare"? Chi usa killare?
Non è importante trovare una categoria: è sufficiente che esista una quantità enorme di persone che usa killare.
Il fatto è che si stava parlando di "killare" in merito alla questione dei linguaggi settoriali, ed è questo che richiede di avere un settore: se non c'è settore, non c'è linguaggio settoriale.
I "settori" nascono e muoiono...
killare adesso lo usa solo una persona?Non l'ho mai detto, era solo un esempio per far vedere il problema dell'auto-referenzialità: se si definisce "Quelli che usano 'killare'" come il settore di cui fa parte il termine settoriale "killare", allora si può trovare un settore per qualunque termine, anche inventato di sana pianta, basta farlo auto-referenziale.
Il mio punto era che ci sono tantissime persone che usano killare. C'è anche un'idea di "settori" di cui questo termine farebbe parte (ad esempio, i programmatori, gli hacker, ecc. - e se poi un hacker non capisse "killare" sarebbe un po' come un medico che non capisse "transaminasi" - insomma, un perso).
Motivo per cui dicevo «anche ammettendo che "Quelli che usano 'killare'" sia un settore è comunque auto-referenziale».
Anche dire che "antropocentrico" è usato dagli antropologi suona vagamente auto-referenziale... ;)
Nota sui neologismi: si è parlato della differenza tra un neologismo che rispetti la struttura dell'Italiano e uno che non la rispetti, chiedendo perché il primo dovrebbe essere trattato diversamente dal secondo. Esempio pratico: l'altro ieri mi è capitato di dire che "il mondo del lavoro si sta imputtanando sempre di piú"; quello con cui stavo parlando non ha avuto un attimo di esitazione, capendo al volo che con "imputtanare" intendevo "andare a puttane, incasinare", nonostante il termine non esista in nessun vocabolairo che ho controllato.
Se avessi detto che "il mondo del lavoro si sta 'messuppando' sempre di piú", italianizzando mess up, dubito che avrebbe capito con la stessa prontezza; anzi, dubito che avrebbe capito.
Solo perché non è entrato nell'uso. Ma se dico che mi è crashato il computer mi capiscono tutti... :unsure:
Avevo visto giusto: il mio punto era troppo sottile... Tu commetti un errore comune, che è quello di confondere il segno con il senso
Oppure ho capito il tuo discorso, ma non lo condivido.
Sono le regole che corrono dietro alla lingua, e non la lingua che corre dietro alle regole. Ergo, le regole sono posticce - come appunto dicevo
Non l'ho mai negato, io stesso ho detto che le regole sono, mi cito, "una cosa fatta a posteriori, dovuta a e modificata dall'uso"; né ho mai detto che la fenomenologia esista perché noi definiamo la regola. Ma, mi cito di nuovo, "pur nella loro variabilità sono qualcosa di esistente".
Il mio punto è semplicemente che non basta che uno dica qualcosa perché questo qualcosa cambi le regole; certo, le regole corrono dietro alla lingua, ma non a ogni singola cosa che viene detta da ogni singola persona. Come piú volte detto, è l'uso a stabilire la regola, quindi un cambiamento deve entrare nell'uso. Proprio perché la regola è l'uso.
Inoltre, io non ho mai detto che una frase scorretta non possa comunicare il significato, ma questo non toglie che sia scorretta. Pur nella sua variabilità, il linguaggio è un'entità strutturata.
Comunque, tornando a "killare", ripeto che la categoria è importante se si parla di linguaggi settoriali, perché senza settore non c'è linguaggio settoriale.
Se invece parliamo di Italiano e non di linguaggio settoriale, la quantità di persone che usano "killare" a mio parere non è abbastanza enorme (dubito che lo usi anche solo la metà della popolazione) da considerare questo termine entrato nella lingua italiana. Ovviamente altri possono avere altre idee; io la penso cosí.
Ma, a parte questo, non è vero che si può identificare nei programmatori o negli hacker il settore del termine: non trasmette nessun significato specifico del settore, non indica un concetto dei programmatori o degli hacker. I primi non è detto che lo usino, essendo un termine dell'ambito ludico e non dell'ambito di programmazione; anche perché quelli che fanno giochi, essendo in gran parte stranieri, non ne hanno bisogno.
I secondi... se giocano e sono italiani magari sí, altrimenti perché dovrebbero usarlo? Un hacker che non capisca "killare" non sarebbe come un medico che non capisca "transaminasi", perché quel termine non rientra nell'attività dell'hacker.
Anche dire che "antropocentrico" è usato dagli antropologi suona vagamente auto-referenziale
Non lo è: lo sarebbe se dicessi "'Antropocentrico' è usato da chi usa 'antropocentrico'"; ma dire che è usato dagli antropologi è come dire che "transaminasi" è usato dai medici.
Solo perché non è entrato nell'uso. Ma se dico che mi è crashato il computer mi capiscono tutti
Ti rendi conto che questo non cambia quanto ho detto io né gli dà contro? Certo, quanto ho detto è capitato perché "messuppare" non è entrato nell'uso; la differenza è che nemmeno "imputtanare" è entrato nell'uso (personalmente non ricordo d'averlo mai sentito e so per certo di persone che non lo avevano mai sentito, ma lo hanno capito senza problemi), eppure viene capito.
Visto che era stato chiesto perché un neologismo che segua la struttura italiana sarebbe diverso da uno che non la segue, ho portato un esempio pratico.
Tu commetti un errore comune, che è quello di confondere il segno con il sensoOppure ho capito il tuo discorso, ma non lo condivido.
Beh, che confondi il segno con il senso mi sembra un fatto... Mi basta questa frase:
la regola è l'uso.
L'uso e' il segno, la regola e' il senso.
Inoltre, io non ho mai detto che una frase scorretta non possa comunicare il significato, ma questo non toglie che sia scorretta. Pur nella sua variabilità, il linguaggio è un'entità strutturata.
Mai detto che la natura (e in particolare il linguaggio) non abbiano "struttura"...
Comunque, tornando a "killare", ripeto che la categoria è importante se si parla di linguaggi settoriali, perché senza settore non c'è linguaggio settoriale.
Se invece parliamo di Italiano e non di linguaggio settoriale, la quantità di persone che usano "killare" a mio parere non è abbastanza enorme (dubito che lo usi anche solo la metà della popolazione) da considerare questo termine entrato nella lingua italiana.
Quindi, comunque la mettiamo, "killare" e' fuori. Fortunatamente questo non turbera' minimamente gli utenti della parola "killare", che continueranno - sbagliando, sbagliando, certo! - a usarla.
Solo perché non è entrato nell'uso. Ma se dico che mi è crashato il computer mi capiscono tuttiTi rendi conto che questo non cambia quanto ho detto io né gli dà contro? Certo, quanto ho detto è capitato perché "messuppare" non è entrato nell'uso; la differenza è che nemmeno "impu******e" è entrato nell'uso (personalmente non ricordo d'averlo mai sentito e so per certo di persone che non lo avevano mai sentito, ma lo hanno capito senza problemi), eppure viene capito.
Comunque, si dice "spu******e".... :blink:
Visto che era stato chiesto perché un neologismo che segua la struttura italiana sarebbe diverso da uno che non la segue, ho portato un esempio pratico.
Mi piacerebbe concordare con te, ma non posso farlo nemmeno qui... :unsure: Il tuo esempio e', a mio parere, del tutto sbagliato. La sola differenza fra imputtanare e messuppare e' semplicemente che pochi sanno il significato di "mess up", mentre tutti sanno il significato di "pu***na" e derivati. Se tutti conoscono il significato di "chat", allora "chattare" e' acquisito e capito all'istante - mica e' un problema. E se quasi nessuno conosce la parola "ectasia", hai voglia di dire "ectasiare" o "inectasiato" - non ti capira' nessuno, anche se e' italiano.
N.di Darklady
Va bene scrivere un termine "colorito" come esempio una prima volta, ma poi please asteriscate! ^_^
se quasi nessuno conosce la parola "ectasia", hai voglia di dire "ectasiare" o "inectasiato" - non ti capira' nessuno, anche se e' italiano.
E che valore comunicativo (ben distinto da linguistico) ha un espressione come "ectasiare",se quando la dico non mi capisce nessuno? ^_^ :unsure: :blink:
Mi basta questa frase:la regola è l'uso.
L'uso e' il segno, la regola e' il senso
Intendevo che la regola deriva dall'uso: se cambia l'uso, cambia la regola. Non sto dicendo che siano la stessa identica cosa. Per vedere la regola si guarda all'uso; in questo senso la regola è l'uso.
Quindi, comunque la mettiamo, "killare" e' fuori. Fortunatamente questo non turbera' minimamente gli utenti della parola "killare", che continueranno - sbagliando, sbagliando, certo! - a usarla
Come detto, personalmente penso che faccia al piú parte del gergo di Internet; che continueranno a usarla non mi tocca, ma se, come piú volte detto, è l'uso a fare la grammatica, allora dalla prima volta che un termine viene usato a quando questo entra nella lingua passa un lasso di tempo, perché appunto deve diffondersi.
si dice "spu******e"
Hanno accezioni diverse; comunque, appunto, "impu******e" è un neologismo, mentre "spu******e" è già sdoganato.
Il tuo esempio e', a mio parere, del tutto sbagliato. La sola differenza fra imputtanare e messuppare e' semplicemente che pochi sanno il significato di "mess up", mentre tutti sanno il significato di "pu***na" e derivati
Conoscere il significato di mess up non implica necessariamente capire "messuppare". Ma non è strano: quando si ascolta, se ben ricordo la prima cosa che fa il cervello, ancora prima di chiedersi "Cosa vuol dire quello che sto sentendo?", è chiedersi "In che lingua è?"; se la risposta a questa domanda è "Italiano", una parola che rientri nelle strutture proprie di questa lingua sarà piú facilmente recepita, perché non richiede un cambio di lingua.
che valore comunicativo (ben distinto da linguistico) ha un espressione come "ectasiare",se quando la dico non mi capisce nessuno?
Ha un valore comunicativo all'interno del suo ambito specifico, dove comunica specifici concetti.
C'è anche da dire che "ectasia" è un termine specialistico e, in uno dei suoi ambiti, antico.
N.di Darklady
Per favore asteriscate le espressioni colorite!!!
Mi basta questa frase:la regola è l'uso.
L'uso e' il segno, la regola e' il senso
Intendevo che la regola deriva dall'uso: se cambia l'uso, cambia la regola. Non sto dicendo che siano la stessa identica cosa. Per vedere la regola si guarda all'uso; in questo senso la regola è l'uso.
E questo e' corretto: quello che non potevo accettare e' cio' che mi sembrava una tua pretesa che la "regola" fosse nei dati stessi, piuttosto che essere imposta a posteriori, come "interpretazione" degli stessi. La pretesa, cioe', che il "modello" sia identico alla realta' modellata - che esso abbia un valore ontologico. Questo, a mio parere, e' sbagliato. E sono costretto a rifiutarlo... anche per ragioni prettamente etiche, ideologiche, devo ammetterlo... Infatti, pretendere di estendere l'autorita' assoluta della realta' alle "regole" inventate da un tizio affetto da obsessive compulsive disorder (aka "scienziato", o "grammatico"), e' una manovra autoritaria, che io non posso far altro che rifiutare - in qualsiasi contesto, incluso quello linguistico.
Conoscere il significato di mess up non implica necessariamente capire "messuppare".
Beh, io l'ho capito subito, e credo che sia perche' conosco "mess up"...
Ma non è strano: quando si ascolta, se ben ricordo la prima cosa che fa il cervello, ancora prima di chiedersi "Cosa vuol dire quello che sto sentendo?", è chiedersi "In che lingua è?";
E si risponde istantaneamente "Italiano", visto che la terminazione -are e la posizione nella frase lo identifica senza alcuna ambiguita' come verbo italiano (discorso gia' fatto settimane fa, dove io suggerivo che i nomi stranieri, non essendo modificati da questo tipo di prefissi e suffissi, non dovessero essere considerati parte dell'italiano - ma se ben ricordo tu mi hai (molto giustamente) corretto su questo.
che valore comunicativo (ben distinto da linguistico) ha un espressione come "ectasiare",se quando la dico non mi capisce nessuno?Ha un valore comunicativo all'interno del suo ambito specifico, dove comunica specifici concetti.
C'è anche da dire che "ectasia" è un termine specialistico e, in uno dei suoi ambiti, antico.
Ma non c'e' problema, visto che tutto quello che mi premeva dimostrare e' che la comprensione e' la chiave, non la lingua: io capisco "pu****a" e "chat", e non capisco "mess up" e "ectasia". Mi pare non faccia una piega...
N.di Darklady
Idem come il post precedente ^_^ Please ASTERISCATE le terminologie poco ortodosse!!!!
quello che non potevo accettare e' cio' che mi sembrava una tua pretesa che la "regola" fosse nei dati stessi, piuttosto che essere imposta a posteriori, come "interpretazione" degli stessi
Non lo nego, anzi io stesso l'ho detto: le regole sono "una cosa fatta a posteriori".
pretendere di estendere l'autorita' assoluta della realta' alle "regole" inventate da un tizio affetto da obsessive compulsive disorder (aka "scienziato", o "grammatico"), e' una manovra autoritaria, che io non posso far altro che rifiutare - in qualsiasi contesto, incluso quello linguistico
Il mio discorso è diverso: tu stesso dici che è corretto dire che per vedere la regola si guarda all'uso; a questo punto, il passo successivo è chiedersi quale uso: basta che una persona lo abbia usato? Se io su una tavola di un fumetto scrivo chixor, automaticamente diventa una parola italiana? Se una volta uso "Io andare", automaticamente la regola si è modificata? Personalmente, penso di no.
Ovvio, come detto è impossibile tracciare una linea netta "Prima no, dopo sí", ma proprio per il fatto che la regola discende dall'uso un cambio di regola richiede un cambio di uso; quando l'uso sarà di dire "Io andare", la regola sarà che "Io andare" è giusto. Ma se l'uso è dire "Io vado", la regola è che è giusto dire "Io vado".
Se bastasse che uno dica "Io andare" per considerarlo giusto, a prescindere che quella forma entri nell'uso o no, allora la regola cambierebbe prima dell'uso; ma questo dà contro a quanto detto finora, che la regola discende dall'uso.
si risponde istantaneamente "Italiano", visto che la terminazione -are e la posizione nella frase lo identifica senza alcuna ambiguita' come verbo italiano (discorso gia' fatto settimane fa, dove io suggerivo che i nomi stranieri, non essendo modificati da questo tipo di prefissi e suffissi, non dovessero essere considerati parte dell'italiano - ma se ben ricordo tu mi hai (molto giustamente) corretto su questo
Ma il non-rispetto della parola nel suo complesso delle strutture italiane può ingenerare confusione e quindi non-comprensione; non dico che capiti sicuramente, ma può succedere, è un fatto visto.
N.di DarkladyIdem come il post precedente :unsure: Please ASTERISCATE le terminologie poco ortodosse!
Provvedo, ma non mi pareva nulla di offensivo o volgare ^_^
La mia idea personale è che il gergo sia qualcosa di meno definito del linguaggio settoriale: laddove il secondo si rifà a uno specifico settore, il primo si rifà a un gruppo meno definito; e mentre il secondo nasce per espandersi all'intero settore magari per specificare determinati concetti (quando conio "AIDS" lo faccio per indicare lo specifico oggetto e per parlarne con quanti piú medici possibile), il primo magari nasce per essere usato localmente e senza particolari necessità di specificazione ("non mi ha ca***o [di striscio]" non esprime nulla di particolarmente specifico, rispetto a "non mi ha considerato [per nulla]/mi ha ignorato [del tutto]").
Credo che tu sia riuscito a sintetizzare perfettamente altre sfumature a proposito dell'argomento gergo vs linguaggio settoriale. :unsure: Condivido in pieno!
La mia impressione è che, laddove il linguaggio settoriale è una branca specifica dell'Italiano, il gergo gli si affianchi, come una sorta di dialetto.
Qui però entra in gioco un'altra nozione, quella di "dialetto". Il dialetto è un codice completamente differente dall'italiano, con le sue regole grammaticali, la sua fonologia, il suo lessico, etc. Però se uso l'espressione gergale "non mi ha ca*** di striscio", penso che tutti capiscano che è italiano, anche chi non usa l'espressione. Anche se non capissero il senso, riconoscerebbero che le regole grammaticali dell'italiano sono rispettate e capirebbero ogni parola presa singolarmente. Quindi non credo che il gergo sia proprio come un dialetto. Talvolta può esserlo, talvolta può mescolarsi con il dialetto (ma anche l'italiano lo fa, sempre più spesso), ma non è proprio la stessa cosa. Lo vedo più simile ad un "sottosettore", al pari del linguaggio lessicale.
Riguardo al fatto che il gergo venga usato per non farsi capire, è vero, talvolta non è così. Ma questa affermazione, secondo me, serve per sottolineare il fatto che il gergo appartiene ad un gruppo di persone che vuole distinguersi dal resto della società, che è distinto dal resto della società (la società, per sua stessa natura, è divisa in gruppi). Quindi, a volte è vero che si sceglie di usare una parola per non farsi capire dagli altri, ma solo da chi è del gruppo. Ma questo non avviene solo con il gergo; avviene anche con il dialetto, con lingue straniere...Però non è sempre così.
Il problema, però, è che "gergo" e "linguaggio settoriale", "dialetto" e "italiano", sono etichette per riferirsi a categorie. Ma la realtà non è divisa in categorie! Quindi, dove finisce il gergo e dove inizia l'italiano? Dove finisce il dialetto e dove inizia l'italiano? "Non mi ha ca*** di striscio" fa parte del gergo giovanile, hai detto...Però mia mamma (come altri cinquantenni penso!) non solo lo capisce, ma lo usa anche! Queste etichette, queste categorie, non sono così chiare e nette, nella realtà non esiste un contenitore chiamato "italiano" in cui metto un certo numero di parole e uno chiamato "gergo" in cui ne metto altre. Quindi è difficile stabile come stanno davvero le cose...E' difficile stabile dove finisce una cosa e inizia l'altra. Anche perché, ripeto, la lingua cambia in ogni istante, in ogni istante ci sono processi di transizione da una "categoria" all'altra (magari "Non mi ha ca*** di striscio" era gergale, ora sta diventando italiano di una varietà bassa), e i confini stessi delle categorie sono labili...
^_^
N.di DarkladyIdem come il post precedente :unsure: Please ASTERISCATE le terminologie poco ortodosse!
Provvedo, ma non mi pareva nulla di offensivo o volgare ^_^
Da Regolamento sono vietate le parolacce e le espressioni volgari "imput*****e o sput*****e" non sono proprio parole "pudiche" :blink:
Qui però entra in gioco un'altra nozione, quella di "dialetto". Il dialetto è un codice completamente differente dall'italiano, con le sue regole grammaticali, la sua fonologia, il suo lessico, etc.
Certo, ho detto "una sorta di dialetto" solo nel tentativo di rendere per analogia il concetto, non volevo dire che sia un dialetto ^_^
dove finisce il gergo e dove inizia l'italiano? Dove finisce il dialetto e dove inizia l'italiano? "Non mi ha ca*** di striscio" fa parte del gergo giovanile, hai detto...Però mia mamma (come altri cinquantenni penso!) non solo lo capisce, ma lo usa anche
Verissimo: anche il gergo, come i linguaggi settoriali, può benissimo diffondersi nella lingua normale. "Metastasi" è (era) linguaggio settoriale, ma ormai è sdoganato anche nella lingua normale.
Per dove finisca il gergo e cominci l'Italiano, penso che valga la stessa considerazione fatta per altre cose: stabilirlo con certezza è, se non impossibile, estremamente difficile. Come giustamente tu dici, i confini sono labili, mutevoli nel tempo.
pretendere di estendere l'autorita' assoluta della realta' alle "regole" inventate da un tizio affetto da obsessive compulsive disorder (aka "scienziato", o "grammatico"), e' una manovra autoritaria, che io non posso far altro che rifiutare - in qualsiasi contesto, incluso quello linguisticoIl mio discorso è diverso: tu stesso dici che è corretto dire che per vedere la regola si guarda all'uso;
Esatto: ma in definitiva io sto affermando che la regola è praticamente inutile, anzi, è un ostacolo all'agilità del linguaggio. Perché, dimmi, a cosa serve realmente dire che una cosa è "sbagliata", se funziona per la comunicazione? Ad esempio:
Se una volta uso "Io andare", automaticamente la regola si è modificata?
Io rispondo: chi se ne importa? L'espressione "io andare" può essere usata per comunicare un senso di confusione, o per comunicare l'idea di uno straniero che cerca di spiegarsi, o per far ridere - non ha importanza. Se a questo punto arriva un "grammatico" a spiegare che è un errore, non sposta nulla, anzi: devia il discorso, impedisce la comunicazione. Perché la sua osservazione è irrilevante. Un altro esempio:
N.di DarkladyIdem come il post precedente :unsure: Please ASTERISCATE le terminologie poco ortodosse!
Provvedo, ma non mi pareva nulla di offensivo o volgare ^_^
Infatti non era assolutamente ne' volgare, ne' offensivo, in misura benché minima. Stavamo parlando di linguaggio: il tuo esempio era calzante, e la parola da asteriscare aveva una accezione che con la prostituzione non aveva nulla a che fare (aveva il senso di "cosa che è andata storta in tutti i modi"). Inoltre non era usata nemmeno in modo offensivo, come è evidentissimo a chiunque. Eppure la "regola" viene applicata, impedendo di fatto la comunicazione, e addirittura introducendo essa stessa la volgarità che voleva evitare - e che prima non c'era.
L'espressione "io andare" può essere usata per comunicare un senso di confusione, o per comunicare l'idea di uno straniero che cerca di spiegarsi, o per far ridere - non ha importanza. Se a questo punto arriva un "grammatico" a spiegare che è un errore, non sposta nulla, anzi: devia il discorso, impedisce la comunicazione
Attento a una cosa: qui entriamo in ambiti comunicativi specifici, in registri particolari. Sí, se volessi comunicare confusione, o l'idea di uno straniero che cerca di spiegarsi, usare la versione sgrammaticata sarebbe sicuramente piú efficace. Ma questo è perché la particolare struttura si adatta alla specifica situazione.
Posso farti io stesso un esempio con una valenza comunicativa molto forte: "Sono una mamma che non ha avuto figli". Semanticamente, è sbagliata: se non hai avuto figli, non sei una mamma. Emotivamente, è fortissima: chi parla ha un istinto materno talmente forte da considerarsi nonostante tutto una mamma, e la forza emotiva della frase esce proprio dal contrasto tra "mamma" e "non ha avuto figli".
Ma il mio discorso era generico, non su casi specifici. Non vorrei che tu avessi capito male una cosa: nel mio dire che ci sono regole non voglio in alcun modo dire che quelle regole non si possono infrangere; lo si può fare, speranzosamente sapendo cosa si sta facendo. La differenza è che se io dico "Io andare" pensando che sia giusto, è un errore; se lo dico consapevole che è sbagliato, ma mirando a ottenere specifici effetti che altrimenti non potrei avere, è qualcosa di estremamente mirato, una struttura linguistica usata per uno specifico scopo. L'errore c'è ancora, ma vista la situazione ha una natura completamente diversa. In quel caso, la cosa forse migliore è dire che è stato giusto sbagliare (sperando di essere riuscito a spiegarmi).
Forse paradossalmente, il sapere le regole serve piú a sapere quando vale la pena di uscirne e quali non considerare, che a seguirle pedissequamente tutte. Questo vorrei che fosse chiaro, e che venisse considerato anche nel ragionare su tutto quanto ho detto finora.
Attento a una cosa: qui entriamo in ambiti comunicativi specifici, in registri particolari.
Ma il linguaggio è questo. E poi, in fondo, tutti i registri sono particolari - io ho parlato di questo caso estremo dato che l'avevi proposto tu: ma le "violazioni", anche molto piccole, ci sono ogni volta che un livello non banale di comunicazione deve essere stabilito. Di fatto, non parliamo come un annunciatore del telegiornale: noi usiamo parole e grammatica in modo immensamente più sofisticato, nella nostra vita quotidiana. Un esempio sono le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche: le leggi, e ti sembrano spaventose. La gente, quando parla, va ben oltre la grammatica.
La cosa che ci svia, qui, è che invece di parlare scriviamo. Noi animali da forum. E il nostro messaggio viene riletto, corretto, limato, finché non ci sembra che vada bene - e premiamo SEND. Ma proprio per questa ragione è un mezzo di comunicazione estremamente limitato, che porta costantemente a incomprensioni, e spesso a flames (lo sa bene qualsiasi moderatore). Ma se fossimo "al bar", comunicheremmo in modo completamente diverso, accompagnando frasi parziali e gesti allusivi, a sorrisi, ci interromperemmo a vicenda - e guarda un po', alla fine ci capiremmo meglio pur violando costantemente tutte le regole.
Posso farti io stesso un esempio con una valenza comunicativa molto forte: "Sono una mamma che non ha avuto figli". Semanticamente, è sbagliata: se non hai avuto figli, non sei una mamma. Emotivamente, è fortissima: chi parla ha un istinto materno talmente forte da considerarsi nonostante tutto una mamma, e la forza emotiva della frase esce proprio dal contrasto tra "mamma" e "non ha avuto figli".
Esempio assolutamente stupendo... >_>
Ma il mio discorso era generico, non su casi specifici.
È il contrario: il tuo discorso non era generico, ma si limitava al caso specifico delle "comunicazioni ufficiali" (telegiornale, romanzo di basso livello, ecc.). Non appena si vuole un livello più profondo di comunicazione (ad esempio, nella poesia), ecco che le regole devono essere violate (e si parla di "licenza poetica"...).
Non vorrei che tu avessi capito male una cosa: nel mio dire che ci sono regole non voglio in alcun modo dire che quelle regole non si possono infrangere;
Ma allora, a che servono? Il punto è che le regole sono interessanti da un punto di vista puramente scientifico - nient'altro. Non servono ne' a far evolvere un linguaggio, ne' a mantenerlo costante; non servono ad arricchirlo, e non ne prevengono l'impoverimento. Il grammatico è solo uno studioso di uno dei tanti miracoli della natura: il linguaggio.
lo si può fare, speranzosamente sapendo cosa si sta facendo. La differenza è che se io dico "Io andare" pensando che sia giusto, è un errore;
Ma non è un errore in quanto è stata infranta una "regola": è un errore solo nella misura in cui la comunicazione è fallita (o anche solo resa più ardua). È un errore nei limiti della funzione stessa che il linguaggio dovrebbe avere. L'errore esiste già prima ancora che venga varata una regola - ed è un errore fattuale, e non "secondo il codice". Tanto è vero che, anche dicendo una frase italianissima e grammaticalmente corretta, si può non essere capiti.
In quel caso, la cosa forse migliore è dire che è stato giusto sbagliare (sperando di essere riuscito a spiegarmi).
Giustissimo - solo che non è unicamente "in quel caso": è sempre cosí.
Forse paradossalmente, il sapere le regole serve piú a sapere quando vale la pena di uscirne e quali non considerare, che a seguirle pedissequamente tutte. Questo vorrei che fosse chiaro, e che venisse considerato anche nel ragionare su tutto quanto ho detto finora.
Ho capito quello che vuoi dire, ma vorrei che andassimo più in la'. E possiamo. Yes, we can! ^_^
Ma il linguaggio è questo. E poi, in fondo, tutti i registri sono particolari - io ho parlato di questo caso estremo dato che l'avevi proposto tu: ma le "violazioni", anche molto piccole, ci sono ogni volta che un livello non banale di comunicazione deve essere stabilito. Di fatto, non parliamo come un annunciatore del telegiornale: noi usiamo parole e grammatica in modo immensamente più sofisticato, nella nostra vita quotidiana. Un esempio sono le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche: le leggi, e ti sembrano spaventose. La gente, quando parla, va ben oltre la grammatica
Qui c'è sicuramente un'ulteriore distinzione tra fare, ossia quella tra scritto e parlato: il secondo, per sua natura, è piú istintivo, ha strutture particolari; non ultimo, si appoggia a linguaggi che vanno oltre alla sola lingua. Ma entrare in questo discorso sarebbe allungherebbe e complicherebbe ancora di piú la discussione... ti consiglio Italiani Scritti, di Luca Serianni: è sullo scritto, ma tratta brevemente anche delle differenze col parlato; personalmente, l'ho trovato un testo molto interessante.
Comunque, il punto è che ci sono dei casi in cui lo stesso significato si potrebbe trasmettere senza violazioni; altri in cui la violazione è funzionale alla stessa comunicazione di uno specifico significato. Io non metto in dubbio che ci siano continue violazioni; ma, parlando dei casi in cui questa non viene fatta avendo in mente uno scopo comunicativo ben preciso, queste violazioni o entreranno nell'uso, diventando giuste in generale; o saranno dimenticate.
A cosa servono le regole, mi chiedi; a dare una struttura di base condivisa che renda la lingua largamente fruibile. Tu dici che nel parlato ci si capisce meglio che qui sul forum; dipende, ho visto nel parlato incomprensioni ancora maggiori di quelle viste qui.
Vedi, se non ci fossero le regole, il mio esempio "Sono una mamma che non ha avuto figli" non potrebbe esistere. Esiste perché c'è una struttura (semantica, in questo caso) che ci dice determinate cose, e la forte emotività di quella frase viene proprio dal fatto che esce da questa struttura. E perché è l'eccezione: se tutti la dicessero, se diventasse una struttura semantica normale (variando quindi il significato dei termini), non avrebbe accezioni emotive particolari. Se non ci fossero regole, se ogni errore fosse giusto e ammissibile, l'errore in sé perderebbe di forza comunicativa (per citare Gli Incredibili: "E quando tutti saranno super… nessuno lo sarà piú").
Andare contro le regole non è un male in sé, è questo che ora sto cercando di dire; ma bisogna vedere perché è fatto. Se è fatto a caso, perché nemmeno si sa che è sbagliato, e non ha in sé particolari significati, non ha nessun motivo di essere; se è fatto per uno specifico motivo, per comunicare qualcosa, il discorso è diverso. E, nota, che nella seconda parte non rientra solo chi lo fa consciamente, ma anche chi lo fa inconsciamente (la donna del mio esempio, che non ha sicuramente pensato consciamente di usare una simile struttura), il punto è che la specifica struttura esce dalle regole per motivi precisi, e questi motivi vengono raggiunti proprio perché la frase esce dalle regole.
A mio parere, come detto, il punto delle regole non è saperle per seguire tutte sempre e comunque; ma è saperle per essere in grado di decidere quando e come romperle per comunicare. Conoscere le regole dà la base per usare al meglio le strutture che ne escono. La differenza tra l'errore e la licenza poetica è (almeno a volte) la consapevolezza: chi sbaglia non sa nemmeno se e quale significato particolare comunicherà; il poeta non solo lo sa, ma usa la cosiddetta licenza proprio per ottenerlo. Ma può farlo perché conosce le regole.
E stiamo comunque parlando di regole che lasciano spazio di manovra.
Aggiunta: Per correttezza, sottolineo che l'esempio della mamma non è mio: esempio e spiegazione vengono dall'Accademia della Crusca (forse, ma vado a memoria, da Nencioni) ^_^
Non servono ne' a far evolvere un linguaggio, ne' a mantenerlo costante; non servono ad arricchirlo, e non ne prevengono l'impoverimento
Non condivido: tempo fa ho detto che la forma del linguaggio esce dal contrasto tra la sua naturale tendenza a evolvere e l'altrettanto naturale inerzia che si oppone al cambiamento. Le regole, ossia la codificazione dell'uso largamente diffuso, sono una componente di questa inerzia. È vero, come dici, che l'errore esiste prima ancora che venga varata la regola; ma a mio parere per un motivo diverso: perché la regola segue l'uso, non lo precede, e quindi ci sarà un momento di disallineamento.
In quel caso, la cosa forse migliore è dire che è stato giusto sbagliare (sperando di essere riuscito a spiegarmi)Giustissimo - solo che non è unicamente "in quel caso": è sempre cosí
Considerando i discorsi fatti, estendo la tua risposta a "è sempre così, purché non venga inficiata la comunicazione".
A mio parere, non è come dici: se sbaglio e la comunicazione non guadagna significati particolari, è un caso diverso; se sbaglio e la comunicazione guadagna significati che non volevo, è un caso diverso.
A volte è giusto sbagliare; a volte no.
Ma come fai a scrivere questo:
il punto delle regole [...] è saperle per essere in grado di decidere quando e come romperle per comunicare.
La differenza tra l'errore e la licenza poetica è (almeno a volte) la consapevolezza:
chi sbaglia non sa nemmeno se e quale significato particolare comunicherà;
il poeta non solo lo sa, ma usa la cosiddetta licenza proprio per ottenerlo. Ma può farlo perché conosce le regole.
e poi, allo stesso tempo, questo:
non rientra solo chi lo fa consciamente, ma anche chi lo fa inconsciamente (la donna del mio esempio, che non ha sicuramente pensato consciamente di usare una simile struttura),
^_^
Eppure quella donna ha comunicato perfettamente, anche senza pensare alla "semantica".
Ti consiglio anch'io un libro: The Language Instinct, di Steven Pinker. Occorre leggerlo in inglese, perché gli esempi riportati sono tutti intraducibili. Ma ti cambierà la vita. Spero in meglio! >_>