Sto veramente cadendo nel banale (e nello sciatto: racconti, ammesso che meritino questo nome, scritti di getto e ciao). Ne avrei in cantiere vari, di ben altro impegno e, spero, spessore... ma sono stanca e non riesco nemmeno a pensare di metterci mano. Tanto, sono così a corto di idee che li rovinerei. Speriamo in tempi migliori, va.
E nel frattempo, vai con la sagra della banalità. Solo per chi ha tempo da perdere:
LE SCRIVERO’ UN RACCONTO
“Avanti il prossimo”.
La donna che entrò era grossa, sciatta, il viso segnato dagli anni che probabilmente non aveva mai conosciuto la bellezza nemmeno da giovane. Probabilmente neanche molto pulita, pensò; anche se ormai era rassegnato, per lavoro, all’idea di trovarsi molto vicino a persone non esattamente fragranti di rose e lillà. Lei si sedette sulla sedia o piuttosto ci si lasciò cadere sopra, goffamente, quasi sbuffando. Poi gli espose il suo problema, parlando con voce roca ed evitando il suo sguardo.
La visita fu breve e l’esito immediato e banale, un piccolo polipo alle corde vocali: l’ennesimo caso di routine in una giornata particolarmente noiosa. Le lunghe sequenze di casi facili, come quel giorno, non richiedevano particolare concentrazione o sforzo mentale, ma rendevano le mattinate in ambulatorio quasi interminabili.
La stava congedando –stretta di mano ma va be’, intanto indossava ancora il guanto di lattice- quando lei, per la prima volta in tutta la visita, lo guardò dritto negli occhi. “Posso offrirle qualcosa?”, gli chiese.
Non si stupì: lo aveva pensato sin dall’inizio, che era un po’ strana, per non dire altro. Certo, a volte qualche paziente se ne arrivava con un regalo –e più che l’oggetto in se’, di cui non aveva bisogno, lo intrigava la storia che raccontava. Perché c’era veramente di tutto: dal vino pregiato al terrificante centrino all’uncinetto, che pure, immaginava, era costato decine di ore di lavoro; dalle confetture fatte in casa in barattoli riciclati dall’igiene altamente dubbia al salame accompagnato da un fiero “sa, lo facciamo noi!”, magari in dialetto, che gli riempiva lo studio di salumico -e assai poco professionale- olezzo per tutta la mattina- ma “offrirle qualcosa” era un’espressione insolita. Cosa intendeva? Un orrido aborto di caffè da trenta centesimi alla macchinetta, fuori in corridoio, con tanto di imbarazzatissimo obbligo di conversazione? “Grazie no, la visita è coperta dal ticket”, rispose subito, netto e chiaro. Ma la donna –grossa, trasandata, sottilmente sgradevole in un modo che in qualche modo imprecisabile ma netto, tangibile, andava oltre la sciatteria della persona e dei modi e la assoluta mancanza di avvenenza- rimase ferma davanti a lui. “Be’, allora le scriverò un racconto. Mi dica lei su che cosa”
Ok, niente di strano: il paziente fuori di melone capitava, ogni tanto. Inconvenienti della professione.
“Grazie, ma non si disturbi. La visita è coperta dal ticket, gliel’ho già detto. Buongiorno”.
“Va bene”. La donna si decise ad uscire dal piccolo studio, finalmente, e raggiunse la porta.
“Allora lo scriverò su di lei”, disse di spalle, senza nemmeno voltarsi a guardarlo, un attimo prima di sparire alla sua vista.
Giorni dopo stava uscendo dallo studio dove riceveva privatamente, quando si sentì chiamare per cognome. Nemmeno un “dottore”: solo il cognome. Sgarbato, brutale. Si voltò e si trovò davanti lei, la donna sciatta di qualche giorno prima. “Tenga”, gli disse, quasi nello stesso momento in cui gli girava le spalle e se ne andava. Non gli aveva nemmeno dato il tempo di rifiutare, lui aveva chiuso la mano quasi per istinto, prima di trovare le parole o pensare qualcosa. Si era ritrovato lì come un idiota, in piedi in un parcheggio con in mano un quaderno logoro, vecchio, probabilmente risalente a qualche Upim o Standa chiuso vent’anni prima, con la copertina di plastica blu.
Non sapeva nemmeno lui perché se lo era portato a casa. Aveva immediatamente pensato di buttarlo; ma poi, mentre con lo sguardo cercava invano un cestino, era arrivato un collega, anche lui appena uscito dallo studio. Avevano parlato, erano andati a bere un caffè e prima, inavvertitamente doveva avere buttato il quaderno in auto, insieme alla giacca che lo intralciava. E poi (altra azione eseguita meccanicamente e quasi inspiegabile) scendendo dall’auto doveva avere preso ciò che c’era sul sedile del passeggero, tutto insieme. Sicchè, entrato in casa si era accorto di averlo ancora in mano.
E solo per una oziosa, a rigore incomprensibile curiosità autolesionista, prima di gettarlo nella pattumiera, quella sera, si era seduto sul divano davanti al camino acceso, senza nulla di preciso da fare o da voler fare –lei non c’era, non quella sera e forse nemmeno quella dopo: forse non ci sarebbe stata più, ad essere obiettivi- e lo aveva aperto. Alla prima pagina.
Chi lo avrebbe detto, che sarebbe diventato un medico. Il suo sogno era fare altro. Non sapeva nemmeno lui che cosa: bastava che fosse “altro”. Non il lavoro di suo nonno, di suo padre; non quello che tutti si aspettavano da lui, la strada già tracciata da altri, già percorsa. Invece, era bastato un momento di debolezza, di distrazione –quante altre cose a cui pensare, quanto erano belle le ragazze, quanto c’era da vivere, a diciannove anni- e si era ritrovato a guardare il primo cadavere, nei seminterrati dalle piastrelle bianche illuminati da una luce tagliente come una lama che separava i due mondi, dei vivi e dei morti. Aveva sentito salire un conato di vomito, lo aveva rimandato giù a forza. Si sarebbe abituato, si era detto. E sì, si era abituato. Anche troppo. E l’abitudine è la tomba dei sogni.
Non è possibile, si disse. E’ una coincidenza. Ma una sensazione sinistra gli corse lungo la schiena.
Intanto, la vita scorreva. Ancora in quella fase magica, illusoria, in cui non toglie nulla e dà, dà solamente. E tu allora credi che lei sarà così per sempre, benevola, un dono dopo l’altro… povero illuso. L’indipendenza dai genitori. Le uscite con gli amici, le serate in discoteca, a bere, a fare l’alba in spiaggia o semplicemente – e non erano le più brutte, anzi- a parlare. Perché quante cose c’erano da dirsi, a vent’anni, quanto si era infinitamente lontani dalle conversazioni raffinate sul miglior Pinot Chardonnet o sul ristorantino di nicchia appena scoperto o, al massimo della trasgressione, sulla carriera sospetta di un collega. Dall’ironia pacata ed elegante, facendo ben caso a mostrare sempre il giusto, divertito distacco; dalle conversazioni tra coppie di amici in cui ognuno dava sfoggio di sé riuscendo a parlare una sera intera senza che venisse detto assolutamente nulla. Com'era tutto diverso, allora. Allora c’erano l‘entusiasmo, i sogni; c’era un mondo tutto nuovo, che sembrava appartenere solo a loro. Allora erano vivi. Era vivo.
E viveva. Qualche canna occasionale, senza esagerare però sì perché bisognava provare tutto, perché tutto era vita. Le avventurette da poco e poi, un pomeriggio di ottobre, nella corsia di un ospedale che in un attimo si era fatta sfocato sfondo indistinto, quel trasalimento irrazionale, inspiegabile, sconosciuto, davanti allo sguardo improvviso di due occhi chiari. Occhi tra il grigio e il celeste, sorpresi quanto, in quello stesso momento, dovevano essere i suoi; occhi che forse erano amore. Erano seguite settimane di scaramucce, attrazione mascherata da antipatia, per vezzo, per gioco, più probabilmente per paura. Alcune uscite insieme, che non avevano portato a nulla. E poi, finalmente, parlarsi davvero, trovarsi. E il corpo di lei. Timido, dolce, impaurito; poi accogliente; infine avido, assetato, ebbro. Quel corpo prima assaltato con furia, poi esplorato adagio, alla fine conosciuto: finche era diventato noto, consueto, familiare, scontato. Talmente scontato da non interessargli più. Mentre la stessa cosa accadeva a quegli occhi chiari. E alla persona che li possedeva.
Un brutto addio, affrettato, maldestro, aspro, le parole tutte sbagliate, davanti alla fermata di un tram. Il suo viso in lacrime dietro il vetro sporco e bagnato del 13 barrato che partiva e si allontanava nella pioggia grigia. E in lui, per un attimo, una fitta dentro. La sensazione di amarla ancora, terribilmente. Di avere fatto un enorme errore; di avere buttato via una parte di se stesso, la più preziosa. L’aveva ricacciata giù subito, a forza, quella sensazione; come quel giorno in sala dissezione.
Non era possibile. Non. Era. Possibile. Non poteva, in nessun modo non poteva essere tutto così esatto. Eppure… eppure, lo era.
Avrà parlato con qualcuno che mi conosce, provò a dirsi. Ma si rivelò un escamotage miserrimo, fragile come carta velina: sapeva benissimo che non poteva essere una spiegazione. Perché quelli non erano solo fatti, cose successe nella sua vita: erano emozioni. Sensazioni. Cose che aveva provato, sentito, nella carne e in un cuore che si era dimenticato di avere. Appena abbozzate, in quelle righe sintetiche ma precise, nette e spietate come il taglio di un bisturi. Cose di cui non aveva parlato con nessuno, non lo avrebbe mai fatto, non ne avrebbe nemmeno trovato le parole. Era una persona razionale; non credeva alle sciocchezze esoteriche o soprannaturali; non ci avrebbe mai creduto. Ma il quaderno era lì, reale, tra le sue mani. Il quaderno era copertina di plastica e vecchia carta stropicciata ed ogni cosa era solida, tangibile, vera. Non capiva come potesse essere possibile, eppure... eppure lo era.
E intanto, eccolo. L’altro protagonista, l’invitato di pietra. Il tempo. Che giocava il suo eterno trucco da fiera, quello che ripete con tutti: sembra fermo e invece scorre veloce, implacabile. I giorni erano sabbia che scorre tra le dita, finchè ti ritrovi, incredulo, a contemplarti le mani ormai quasi vuote. Anni scivolati via. Lo avrebbe capito per la prima volta a trentadue anni, dopo una brutta giornata in cui tutto era andato storto, aveva ricevuto un richiamo sul lavoro per un errore non suo e per finire, nel parcheggio dietro l’ospedale, già con la chiave in mano, aveva scoperto che gli avevano rubato l’auto. Era di pessimo umore, insonne nel cuore della notte pensava, per la prima volta, in un registro diverso da quello suo consueto, lieve ed orientato al fare: e per la prima volta aveva percepito, forte e tagliente come una rivelazione, l’inganno del tempo.
Oh Dio. Questo è troppo. Non è... non può... E’ follia. E’... E’… non lo so. Non lo so, e non voglio saperlo. Basta con questo incubo, qualunque cosa sia. Basta!
Buttò il quaderno sul pavimento. Come se scottasse. Come sé, allontanandolo da sè, l’incomprensibile che conteneva potesse divenire meno pericoloso.
Il quaderno dalla logora copertina blu cadde aperto, il dorso in alto, un foglio piegato a metà.
Si passò una mano sulla fronte (e no, non aveva la febbre). Non sapeva cosa fare. Aspettò che il battichore si quietasse; interminabili, disorientati attimi vuoti di pensieri. Poi, non sapeva nemmeno lui perché, si alzò dal divano e lo raccolse.
Cos’altro poteva fare? E, contro la sua stessa volontà, la fronte imperlata di sudore… proseguì.
Egli scagliò via il quaderno. Si passò una mano sulla fronte (per inciso, non aveva la febbre. Cosa che lo agitò ulteriormente, perché avrebbe fornito un’ottima spiegazione a quanto gli stava accadendo. Razionale, comoda, perfettamente accettabile: davvero un’ottima spiegazione. Ma no, non aveva la febbre. Le spiegazioni importanti non sono quasi mai così a buon mercato). Poi, non sapeva nemmeno lui per quale motivo, forse per quella istintiva attrazione che, su alcuni di noi, esercitano proprio le cose che vorremmo sfuggire perché sappiamo che potrebbero farci del male, lo raccolse dal pavimento. Su cui era caduto aperto, il dorso in alto, un foglio piegato a metà.
Era sconvolto. Lo era già prima, ma leggere di quest’ultima coincidenza –il quaderno gettato a terra e caduto esattamente come scritto nel quaderno stesso- per un attimo gli fece quasi mancare il respiro. Ma bisogna capirlo: certe rivelazioni non sono facili, tutt’altro. E non aveva mai immaginato che tutto di lui era già stato scritto. E forse non solo in quel quaderno, appena il giorno prima. Nel quaderno era scritto anche di un matrimonio in un sabato di marzo, pioveva, l’abito della sposa era troppo leggero, non adatto a quel tardivo ritorno di inverno. Di lei che, sorridente, cercava di conferire una qualche grazia anche ai brividi, al freddo che provava, come se fosse divertente, mentre fremeva di rabbia e delusione ed era sull’orlo delle lacrime, per quello che doveva essere il suo giorno perfetto. Sarebbe finito male, come tutte le sue storie fino ad allora (non avrebbe esattamente aiutato il fatto di averla tradita, in successione, con due infermiere e una collega, ma anche lei gli aveva reso il favore); ma in quel momento, in quel giorno, voltandosi ogni tanto a guardare il profilo di lei che sorrideva mentre rabbrividiva nell’inverosimile, fuori luogo abito senza maniche, lui ci credeva davvero. E si sentiva così sicuro del futuro. Così felice.
Un’ondata di nausea lo travolse. Come quel giorno all’università, ma cento volte peggiore; perché adesso non bastava stringere i denti e rimandarla giù: adesso, non aveva la minima idea di cosa fare. Non avevas la minima idea di niente. Né idee, né pensieri: solo incredulità, stupore. Sudore che scorreva sotto la camicia, colava lungo la schiena. E un presagio che gli dava il panico.
Sì, era così. Tutto, di lui, era già stato scritto, prima ancora che lo vivesse. E molto è in questo quaderno. Anche la data della sua morte; il giorno e l’ora. Sarebbe avvenuta
Era arrivato al fondo della pagina di destra, dove la frase si interrompeva per proseguire nella pagina successiva, implacabile. E ormai lo sapeva: sarebbe stata esatta. Inesorabile. Perché tutto ciò che aveva letto fino a quel momento era a sua vita, era... era lui. Perché per qualche motivo assurdo, in quel quaderno da niente, dalla dozzinale, brutta copertina di plastica blu, in quelle parole scarabocchiate con una grafia disuguale, sgraziata, quasi da persona che fa fatica a scrivere, c’era la sua vita. C’era LUI.
Aveva il respiro affannoso, sentiva i capelli incollati al collo dal sudore. Cosa faccio adesso? si chiese. Volterò la pagina?
No, si disse; no. Guardò il quaderno, di taglio: dopo quella c’erano ancora vari fogli. Non tantissimi: la metà era passata da un pezzo -quello lo colse subito, con una sensazione sgradevole e improvvisa all’altezza dello stomaco che proprio lui, medico, non avrebbe saputo descrivere o identificare- ma ce n’erano. Ed erano sgualciti come il resto del quaderno, impossibile capire se fossero scritti o no. Voltare quella pagina e sapere che vivrai ancora quarant’anni, che morirai anziano. Forse, chissà, che le pagine sono molte perché la tua vita sarà rada di eventi; forse, per il poco che si può, con l’amara, incompleta serenità di una vita vissuta appieno, ancora disperatamente, ferocemente bramoso di vita. O compiere quello stesso infinitesimo gesto per scoprire che ti restano dieci anni. Cinque. Uno. No, si ripetè; no. Non avrebbe mai compiuto quel gesto. Non avrebbe mai saputo. Eppure, che follia quell’urgenza che pure sentiva dentro, di andare avanti, di finire la frase. Di squarciare il velo che copriva il futuro, e guardare oltre.
No, disse ancora a se stesso.
No.
No.
No.
Gettò ancora una volta il quaderno sul pavimento, ma con più rabbia, più paura, più disperazione. Desiderando che potesse disintegrarcisi contro, andare in mille pezzi come un soprammobile delicato, affondarvi e sparire alla vista come in acque fangose e scure. Dopo un tempo lungo o forse brevissimo, lo riprese; muovendosi in fretta, per negarsi il tempo di cambiare idea, il cuore all’impazzata come un animale nel puro terrore, lo afferrò e lo lanciò nel camino, nella fiamma che bruciava vivace. Mentre le pagine si accartocciavano crepitando e venivano distrutte per sempre, si abbandonò sul divano come un peso morto, ansimando, e si passò una mano sulla fronte sudata, ora gelida, mentre il batticuore aumentava ancora.
Anche la pagina dopo, quella che aveva scelto di non leggere, stava per bruciare.
Il quaderno cadendo nelle fiamme si era riaperto, al punto in cui lo aveva lasciato. Mentre il fuoco, che aveva già accartocciato e fuso la brutta copertina di plastica, faceva il suo lavoro, per un brevissimo attimo il foglio di destra, accartocciandosi, si sollevò, e ciò che era scritto nella pagina dietro divenne leggibile, anche se lui, occhi chiusi per non vedere mai più quell’impossibile, maledetto quaderno, non lo vide. Su di essa, in alto a sinistra, un’unica riga.
per un infarto, subito dopo aver gettato il quaderno nella fiamma del camino.
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La luce nuda e bassa della lampadina sospesa al solo filo elettrico, senza lampadario né paralume, ebbe come un calo di tensione, un’interruzione brevissima. Era durato un attimo, quasi impercettibile, infinitesimo. La donna grassa, sciatta, sprofondata sul divano scassato nella stanza piena di oggetti ammassati alla rinfusa lo notò comunque: era abituata a cogliere certe piccole anomalie, i segnali minimi, appena al di qua della soglia dei sensi. “L’ultima riga è arrivata”, pensò. Rimase lì a fissare il vuoto, o un punto imprecisato nel caos di scatoloni e sacchetti di plastica davanti a lei, come prima. Non si sentiva in colpa, non più. “Non sono io che creo le storie. Io le scrivo soltanto.”, disse alla stanza, al silenzio, al nulla. La luce della lampadina -ma era davvero una lampadina?- era tornata normale. Una luce fioca ma dura si rovesciava sulla donna e sulla stanza -ma era davvero una stanza?- avvolta in un silenzio assoluto, al centro della notte e del buio.