Ho provato a usare lettercount, ma non riesco ad aprire il sito. Ho provato con word e risultano comunque molto inferiori ai 10.000 :P
Non so se si adatta al tema nonsense, in caso non sia così consideratelo pure fuori concorso :P
MEGACONTEST DI SCRITTURA CREATIVA
TITOLO: BOH
CARATTERI: 5769
STIRLING, 2044
Ricordo tutto come se fosse successo un mese fa. La mia mente ha creato un’enorme diga per bloccare il fiume dei ricordi, per impedire a quelle acque di continuare il loro peregrinaggio verso valle, di svanire nella vastità dell’oceano e confondersi, poi, tra le nebbie che dalla superficie torbida e azzurrognola del pelago evaporano nell’aria al sorgere del sole. No, queste memorie sono come lunghe, fragorose e rugginose catene metalliche attaccate a macigni; urlano la loro presenza, strillano e battono in testa come tamburi aborigeni durante una celebrazione.
Mi chiamo Tiberius Wolfe, e sto per raccontarvi qualcosa che successe trent’anni fa, durante il più bell’anno della mia gioventù, quando il mio unico problema era la ricerca di un lavoro estivo, prima di ritrovarmi ad affrontare l’università e tutte le esperienze intrecciate ad essa come rami di vimini, intimamente ingarbugliati ed inestricabili. In quell’epoca non esistevano cellulari né internet, no, loro son arrivati quindici anni dopo. I ragazzi non avevano sviluppato la malsana abitudine di andare in giro con quegli odiosi auricolari infilati nei timpani (credetemi, ho provato ad indossarli in più di un’occasione, a sopportare la pressione, ma non ho mai resistito più di quindici minuti), e, ovviamente, i computer erano prerogativa esclusiva degli enti governativi. Qui a Stirling, nel cuore della Scozia, l’oggetto più tecnologico era l’apparecchio televisivo. Ed è proprio con un televisore che ha inizio questa storia. Era l’estate del 2014.
STIRLING, 2014
Si vedevano parecchi televisori in esposizione, dalla vetrina di quel vecchio negozio di elettrodomestici in Chevalier St. Ricordo ancora le tracce di sporco sul vetro, le impronte lasciate dalle dita untuose dei passanti che vi appoggiavano le mani e la faccia per vedere meglio all’interno, quando il sole colpiva quel lato della bottega. Vi appoggiavano (forse dovrei usare “ci appoggiavamo”, ammetto di averlo fatto anch’io, una volta o due) il fianco dei palmi come se dovessero tenere una palla grande quanto il loro volto, e poi avvicinavano la faccia, appannando ritmicamente il vetro con il fiato. Nuvolette di vapore prendevano vita e forma per qualche secondo, poi tornavano ad essere parte del tutto, svanendo per sempre, concludendo il loro fuggevole momento in questa vita. Un’esalazione di anidride carbonica, nulla più, il cui unico scopo si conclude nel giro di qualche secondo. Così penso si sia sentito George B. Oliver, un ragazzino di appena dieci anni, investito da un’auto mentre dalla parte opposta del marciapiede correva verso la vetrina del negozio di televisori: qualcuno il cui scopo in questa vita si è esaurito nel giro di pochi secondi. Avevo fatto un corso di pronto soccorso l’estate precedente, corsi immediatamente verso quel corpicino riverso per terra, immerso in una pozza di sangue che piano piano si stava spandendo intorno a lui. Cominciai a praticare la respirazione bocca a bocca, imbrattandomi le mani del suo sangue caldo, le labbra e la faccia con esse. Non servì a nulla. Il battito, dapprima debole, scomparve del tutto pochi secondi dopo. Tutt’intorno a me la scena pareva come un film in slow motion, riuscivo a catturare gli sguardi attoniti e disperati della gente, le loro emozioni. I loro movimenti erano rallentati, le voci, le urla e i pianti si fecero baritonali, come se mi avessero riempito le orecchie di ovatta. Poco lontano dalla testa del ragazzo c’erano i suoi occhiali, semi-distrutti. Non so cosa mi prese, ma mi avvicinai ad essi, li raccolsi e piegai le asticelle per poterli conservare in tasca. Volevo restituirli alla madre. Non ricordo se fosse presente o meno. Mi voltai di nuovo verso il ragazzino, avvicinandomi a lui, a quel corpo la cui essenza era ormai svanita come fiato che si dissolve dalla vetrina di un negozio di elettrodomestici. Avevo la mano accanto alla sua. Riuscivo a sentire la sirena dell’ambulanza che si avvicinava, quando mi accorsi di essere stato saldamente afferrato per il polso. Il terrore mi colpì lo stomaco come il gancio destro di un pugile, sentii il fiato uscire fuori dai polmoni come se avessi, sul serio, fisicamente, ricevuto il colpo. Il giovane, che doveva essere morto, mi aveva afferrato il polso, cercando di trascinarmi verso il basso, mormorando parole incomprensibili miste a gorgoglii sconnessi a causa del sangue che gli fuoriusciva dalla bocca. Relegai il terrore in un angolo disperso del mio cuore, e mi abbassai per sentire cos’aveva da dirmi. Riuscii a capire solo due parole, il cui eco ancora adesso mi tormenta di giorno e di notte, indistintamente:
«Ti… troverà…»
«Chi mi troverà? Di chi parli?»
La presa sul mio polso si fece debole, poi svanì. I suoi occhi rimasero aperti, le pupille si dilatarono (ancora non sapevo che una tale dilatazione non era naturale, non riesco proprio a dimenticare quegli intensi occhi ricoperti del color della pece), e gli abbassai le palpebre. Mi sentii strattonare. Voltandomi indietro vidi un paramedico cercare di farsi strada attraverso la folla, mentre il secondo stava solo cercando di buttarmi fuori dal suo campo d’azione, per prestare il primo soccorso. Non ci fu niente da fare. Più tardi andai all’ospedale, riconobbi la madre e le consegnai gli occhiali. Non le dissi delle agghiaccianti ultime parole del figlio, non ne ebbi il coraggio. Tornai a casa e mi distesi a letto, sperando di dimenticare quell’esperienza. Ovviamente, non ci riuscii. Era solo l’inizio.
Mi svegliai urlando, e mi accorsi che tutto questo era solo un incubo. Tre giorni dopo, Giacobbo mi trovò e mi chiese di raccontargli la mia esperienza e fare un servizio su Voyager. Titolo: "Una cena pesante la sera, ti fa vivere esperienze paranormali? Voyager!"