Visto che in altre discussioni siamo andati OT su questo argomento, e visto che merita, io aprirei una discussione.
La situazione italiana la conosciamo. Davvero?
Io sulla stessa farei alcune considerazioni.
La storia economica degli ultimi quarant'anni ha portato ad un sistema che non funziona molto bene.
Uno sviluppo economico notevole e una cultura fortemente dirigista (eredità del fascismo, dell'ideologia socialista e cattolica) hanno portato ad un sistema legislativo imperniato sulle grandi imprese, spesso controllate dallo Stato e quindi rispondenti a logiche non sempre economiche, anche quando ve ne era bisogno.
Allo stesso tempo i sindacati hanno acquistato un potere sempre maggiore.
Il risultato (attenzione ho semplificato moltissimo le cose, altrimenti il post diventava un libro ) è un mercato del lavoro rigido in una realtà dove sono le piccole imprese a generare la ricchezza e dove è negato loro di crescere.
Dall'altra parte la gente si è adagiata nella situazione favorevole, non accetta che le cose possano peggiorare, che forse i privilegi di ieri non possono essere garantiti un domani.
Damien in altri post ha scritto delle considerazioni molto valide.
Ashan si è lamenta a ragione dell'attuale situazione.
Qualcuno vuole intervenire? Senza slogan o preconcetti, ma esponendo in modo articolato il proprio pensiero?
Al World Business Forum hanno detto che uno dei principali problemi dell'industria italiana riguarda la miriade di imprese con meno di 20 dipendenti: piccole, frazionate, particolariste.
Di solito sono su base famigliare, e sicuramente un criterio di selezione meritocratico è escluso.
Inoltre la maggior parte dei capitali investiti nell'impresa deriva da stato e famiglia, non dal mercato finanziario come invece accade in tutti i paesi esteri.
Quanto alla capacità di cambiamento, innovazione, disponibilità alla formazione continua... zero.
Insomma, in Italia un colosso come la Coca Cola o la Microsoft non trova proprio le condizioni per esistere, un po' perchè manca l'afflusso di capitali dinamici, non c'è gerarchia selettiva e meritocratica, e si conta molto più sul protezionismo di stato che non sulle proprie capacità di combattere la concorrenza.
Le maggiori imprese italiane, piccole in confronto alle corrispettive estere, godono di ampliissima protezione statale, addirittura di proporzioni macroscopiche come la scelta governativa di sviluppare il trasporto su gomma a scapito del trasporto su rotaia o marittimo/fluviale in favore della Pirelli. Per dirne una, la Fiat che noi consideriamo una grande azienda sta mietendo successi e acquisendo compagnie minori solo in Italia, mentre all'estero è in pesante perdita rispetto alla concorrenza.
Se mi passate un commento poco tecnico, questo è il paese delle mamme...
Per qnt riguarda il settore distributivo c'è frammentazione e inefficienza:
troppe impresette, che non investono perche non hanno convenienza a farlo, e che quindi sono di dimensioni limitate. Questo naturalmente porta a una clientela ridotta, con conseguente aumento dei prezzi.
Da noi la grande distribuzione (che di certo x certi aspetti non è la migliore soluzione possibile, ma almeno è preferibile alla miriade di negozietti) stenta purtroppo a decollare...
La ragione di qst situazione è cmq da cercarsi nella politica effettuata dai governi degli anni del miracolo economico, che, non avendo investito sull'agricoltura ma solo sull'industria, hanno visto un mucchio di contadini rimanere senza lavoro... che hanno fatto allora? hanno distribuito con una larghezza inadatta ai bisogni del mercato licenze commerciali pur di evitare tensioni sociali....e i risultati si vedono adesso.
X l'industria io ho sempre sentito che la ricchezza dell'Italia sono le piccole-medie imprese, che quindi esiterei a definire uno dei maggiori problemi dell'industria italiana...
Da circa un anno lavoro in uno studio dove facciamo, in senso lato, consulenza aziendale. Seguo personalmente varie imprese, ed una sia pur piccola idea me la sono fatta, premesso che reputo molto valide tanto le osservazioni di Ghost tanto quelle di Isky.
Il primo aspetto è che in Italia la grande impresa non esiste, è esistita in passato ma è praticamente morta. Questo, in massima parte, per la oscena connivenza tra sistema finanziario (leggasi le banche) e sistema politico, che ha fatto sì che prosperassero imprese il cui unico merito fosse quello di distribuire consenso politico, in spregio a quella sacra regola che è la concorrenza. Nel contempo sono state fatte morire imprese potenzialmente di successo, perchè le stesse non disponevano degli adeguati "agganci". Tutto questo è stato reso possibile anche dalla assoluta mancanza di controlli e tutele, che hanno permesso ai soliti ignoti di fare carne di porco, a spese del popolo bue. Dal crack del Banco Ambrosiano alla vicenda Parmalat, faccio notare che praticamente nessuno ha pagato, mentre in molti si sono follemente arricchiti. Ad esempio invito l'amico Ghost, che immagino segua la materia, a buttare uno sguardo alle odierne quotazioni di alcuni titoli bancari, a leggere un articolo del Sole, a fare 2+2 e poi a pensare a quante persone in Italia sono state perseguite per "Insider Trading".........
Il secondo aspetto è che il sistema delle piccole e medie imprese è indubbiamente quello che ha dato forza in Italia, ma oramai è allo stremo. Non è più come 10 anni fa, con la svalutazione che ci aiutava e lo Stato che distribuiva soldi a palate agli "imprenditori"........Adesso ci sono da affrontare, lo so è una frase fatta, le sfide della globalizzazione. Tale sfida non è assolutamente persa in partenza, ma certo che è difficile affrontarla se si è dei nanerottoli......
E poi, specie nel piccolo, l'Impresa è troppo focalizzata sulla persona dell'Imprenditore e su quelle che sono le sue priorità, che è sempre il core business. Si finiscono così per trascurare una serie di aspetti collaterali ma assolutamente fondamentali per la vita dell'Impresa, che finiscono per essere delegati a risorse dall'inesistente professionalità......per esperienza personale, ad esempio, non vi dico le decine di contratti, magari per forniture di milioni di euro, che vedo scritti, con tutto il rispetto per la categoria, da commercialisti o, peggio ancora, da ingegneri. Il risultato sono contratti assolutamente pessimi, che, quanto si arriva alla controversia, non tutelano per nulla l'impresa, costringendo poi a dolorose transazioni, se non addirittura a sonore sconfitte in giudizio.......(e poi è colpa dell'avvocato....)
Per concludere, l'impresa italiana rassomiglia un po' al calabrone, che a vederlo non dovrebbe neppure riuscire a volare, eppure svolazza tra i fiori da qualche milione di anni. Ciò non toglie che tra poco si potrebbe presentare qualcuno con il DDT, ed è il caso di correre, urgentemente, ai ripari.
Some people choose to see the ugliness in this world, the disarray. I choose to see the beauty. To believe there is an order to our days. A purpose.
Alcune considerazioni sugli interventi precedenti (anche se cavolo siete tutti OT ).
Isky devo corregerti sul capitale investito nell'impresa. Il problema Italia è proprio il fatto che le famiglie non investono direttamente nelle imprese, non ai livelli degli altri paesi industrializzati.
Infatti uno dei problemi principali è il massiccio ricorso ai prestiti bancari di imprese sottocapitalizzate (a tal proposito dal prossimo anno entrerà in vigore una legge fatta per combattere questa tendenza, ma come al solito in Italia è una legge che impone, non che invoglia).
Il problema della scarsa propensione delle imprese a cercare nel mercato del capitale di rischio (Borsa e altri mercati regolamentati minori) è da un lato la forte concorrenza che hanno sempre avuto da parte dello Stato (BOT e CCT erano molto più appetibili di azioni, soprattutto in un paese dove le banche non aiutano il cliente piccolo, ma lo spremono) e dall'altro le dimensioni ridotte del business, che non rendeva conveniente la quotazione.
Tutto questo in mezzo ad intrallazzi, corruzione, tangenti ed altre cosucce.
Ma a frenare la crescita delle azienda hanno contribuito non poco i sindacati. Il famoso articolo 18 dello statuto dei lavoratori (si quello del referendum) ha vincolato un numero incredibile di aziende a non assumere più di 15 dipendenti. Alla faccia della tutela dei lavoratori. E pensare che lo volevano estendere anche alle aziende con meno di 15 dipendenti
Mio fieren alleaten, se ti lamenti adesso dei contratti fatti da non esperti (a ciascuno il suo), vedrai tra un po' con la riformen del diritten societarien (per quanto riguarden lo statuten delle società )
Mi scuso per il ritardo, ma non potevo collegarmi
Allora, è un po' complicato.
Per quanto riguarda il discorso citato da LordFGelo devo dire che non è propiamente così. E' proprio di qualche giorno fa una relazione della Commissione Antitrust in cui si dice proprio che l'esagerata quantità di punti vendita dei pochi attori del mercato distributivo ha limitato il numero di concorrenti, costituendo, in poche parole, un oligopolio. Che poi il settore distributivo possa innovare mi sembra un po' assurdo
Apparte questo, che è profondamente OT , non è da sottovalutare l'impatto che la struttura imprenditoriale italiana ha sul mercato del lavoro, anche questo OT, anche se un po' meno.
Il fatto che l'Italia presenti le caratteristiche già citate limita effettivamente la possibilità di creazione di nuovi posti di lavoro. In particolare la "pigrizia" dell'impresa familiare in termini di innovazione e investimenti a rischio (che sono il sale dei nuovi profitti come dei fallimenti) limita grandemente il ciclico bisogno delle imprese di nuova forza lavoro, al fine di portare avanti nuovi progetti.
Quando si sente che le piccole-medie imprese (come già detto da LordFGelo) sono la forza dell'Italia ci si rifà all'idea che questa struttura sarebbe grandemente in grado di supportare la creazione di nuove grandi imprese che necessitino di un indotto molto importante (alcuni esempi li abbiamo già: Fiat e tutte le relative imprese meccaniche, Ferrero e i corrispettivi partner chimici e dolciari etc etc).
Il problema è che pochissime delle imprese "piccolo-medie" a conduzione familiare rischia il "salto" verso una dimensione superiore (che implica investimenti superiori che, come detto, spaventano).
Il riflesso di tutto questo sul mercato del lavoro è un tendenziale congelamento dei posti (a volte occupati da persone anche incapaci che quindi rappresentano a volte un costo per le aziende stesse) e un'altissimo ricorso a progetti a breve termine e, quindi, a contratti a tempo determinato.
Il che, nella situazione di privilegio che il lavoratore italiano è abituato a vedere, è un male gravissimo.
Attualmente ogni azienda con la volontà, ed in grado, di offrire nuovi "posti fissi" con contratti a tempo indeterminato richiede professionalità che un neolaureato non può avere (generalmente esperienze triennali nel settore o nel ramo professionale) e che, tendenzialmente, dovrebbe prima acquisire e poi ripresentarsi.
Quelli che io chiamo "sopravvalutanti" (lo so, non è italiano, ma a me piace sono tutti coloro che si sopravvalutano) tendono a dire: "MA SE NESSUNO MI DA LAVORO COME POSSO AVERE ESPERIENZA?"
La risposta è semplice e, purtroppo, un po' più "impegnativa". Invece di trovare immediatamente un'occupazione fissa (che, non bisogna temere, in caso di persone davvero talentuose e preparate arriva cmq) bisogna ripiegare su 3 anni di lavori a progetto, in cui si acquisiranno le professionalità sul campo che poi varranno l'assunzione (nelle ditte per cui si è già lavorato o in nuove) a tempo indeterminato. Tutto questo nell'idillico caso che il disoccupato neolaureato valga il lavoro che chiede, cosa fin troppo spesso falsa
Qui chiudo, è un riassunto piuttosto schematico di come la penso ma credo sia abbastanza sensato (ripeto, CREDO )
Ciauz
Il problema Italia è proprio il fatto che le famiglie non investono direttamente nelle imprese, non ai livelli degli altri paesi industrializzati.
D'altra parte ammetterai che a uno passa un po' la voglia, dopo il caso Parmalat. L'impressione è che oltre al rischio di mercato a investire in azioni vi sia un rischio aggiuntivo non controllabile dovuto a carenza di controlli e di informazione obiettiva. Naturale che uno ripieghi su forme di investimento più sicure.
A parte questo, il problema è che in Italia quasi nessuno fa il proprio mestiere come andrebbe fatto.
Mi spiego:
-la stragrande maggioranza dei capitalisti italiani ha l'idea che quanto ricavato dall'impresa vada reinvestito in yacht, pellicce per la moglie, ville di lusso in altre parole nella ricchezza della propria famiglia. Personalmente, senza dare un giudizio sul sistema capitalistico ma ammettendo che è ad esso che si fa riferimento, penso che chi dispone del capitale detiene anche la responsabilità di reinvestirlo nella crescita tecnologica dell'impresa;
-i sindacati hanno perlopiù una visione miope del loro ruolo che li vede sempre opporsi alla proprietà dei mezzi di produzione (e mai collaborare, cosa che sarebbe spesso nell'interesse degli stessi lavoratori) e sempre tesi alla conservazione dei posti di lavoro attuali senza pensare che una maggiore elasticità potrebbe indurre una crescita nel numero degli stessi.
-la classe politica... beh, a me personalmente non piace ed è sintomatico che "politico" è un po' diventato sinonimo di poco obiettivo, ideologico, teso a proteggere interessi di parte mentre etimologicamente è più o meno il contrario.
Direi che più o meno tutti avete dettpo cose sensate.
Sulla mancanza di grandi imprese, butto lì un dato. La prima grande impresa italiana nella "classifica mondiale" è l'ENIPower con affiliate SNAm e compagnie varie (insomma, banalmente luce e gas), cioè un'impresa di distribuzione di serivizi. Il fatto si commenta da sè.
Certo, è la piccola impresa a creare ricchezza, ma l'indotto lo crea la grande impresa che traina le altre.
Strannamente nessuno di voi ha citato il seyttore della "ricerca", vero elemento critico della nostra industria.
A mettere in crisi i nostri prodotti è il progressivo sviluppo dei paesi del "Terzo Mondo", oramai in grado di produrre beni di consumo assimilabili ai nostri ma con costi inferiori. In questo la Cina è la campionessa. Ora, se da un lato in campo internazionale bisognerebbe intervenire per imporre un regolamento a questo pernicioso fenomeno, dall'altro spetterebbe cmq alla nostra industeia darsi cmq una mossa, investendo nella ricerca tecnologica. In questo modo i nostri prodotti potrebbero dare un plusvalore che, anche se meno costosi, i paesi emergenti non sono in grado di fornire.
Purtroppo la ricerca in Italia è uno dei campi più problematici. A causa del nostro immenso patrimonio umanistico, anche e soprattutto in campo universitario moltissimi fondi vengo destinati in ricerche in sè poco lucrative, per non dire inutili. Non me ne vogliano coloro che frequentano facoltà di stampo umanistico, ma francamnete trovo quasi aberrante che una facoltà di Lettere abbia lo stesso numero di ricercatori di una facoltà come Matematica. Giustamente la Moratti ha tagliato i fondi alle università, limitando sprechi inutili. Purtroppo ora sarebbe il momento di investire nelle facoltà prettamente scientifiche. D'altra parte il proliferare di facoltà a dir poco curiose aumenta la dispersione dei fondi destinati alle università statali. Anche qui andrebbe posto un limite alle miriadi di facoltà che sono nate negli ultimi anni, concentrando le risorse verso quelle che sono in grado di creare una ricchezza comune con l'innovazione tecnologica.
Difatti, maggiore è il contenuto tecnologico dei nostri prodotti, più difficile da parte di Cina e paesi simili copiare le nostre tecnologie, cusa del gap fra la nostra e la loro cultura scientifica.
Un esempio simile è stata la Finalndia, che negli ultimi anni ha investito moltisimo nell'istruzione scientifica, creando una trentina di "politecnici" (in Italia ce ne sono TRE!). La ricaduta tecnologica è evidente a tutti: il Nokia è famoso in tutto il mondo.
Una nota sulla nostra piccola-media industria. Forse non tutti lo sanno, ma noi italiano siamo leader mondiali anche in prodotti tecnologici, non solo in abbigliamento e scarpe. Quasi il 70% dei motori elettrici per ascensori viene prodotte in Italia, tanto per fare un esempio. Ancora, a Pisa c'è l'unica industria in Europa in grado di costruire motori spaziali al plasma. Non ultima, la Fincantieri è leader mondiale di cosatruzioni di navi da crociera, anche se sempre in costante competizione coi Finnici (ancora loro!). La Aermacchi è ancora in grado di costruire addestratori da sola, come l'M 346 (Chiedete al colosso EADS come và il MAKO....). OTO Melara con il suo 76/62 COMPATTO ha creato il cannone di riferimento mondiale per la categoria di navi militari fra le 500t e le 2500t, vendendo il pezzo in tutto il mondo e facendo di esso il best seller dell'artiglieria navale. Non sono risultati di poco conto.
Sulla Fiat, va detto che cmq con l'acquisto della New Holland è leader mondiale nel settore dei mezzi agricoli: non è di poco conto. Pure, Avio, ex Fiat Avio, è l'unica industria europea a saper fare scatole di riduzione di elevata potenza per turboelica (il che fa sempre arrabbiare Airbus, che da anni cerca di impossessarsi della tecnologia...). E dobbia mo ricordare che la prima ditta a mettere in servizio operativo (non prototipi!) treni ad assetto variabile (i famosi "Pendolino", poi esportati in 8 paesi europei, Germani inclusa...) è stata proprio la Fiat Ferroviaria?
Ciao!
Vainamoinen
A parer mio in Italia si sputa letteralmente sulla cultura scientifica; è una cosa vergognosa... Detto questo, l'istruzione non comincia dall'università. Va bene che ora cercano di demolire anche quella, ma il punto è che non si insegnano abbastanza scienza e -perché no- tecnica nella scuola dell'obbligo. Con questo non vorrei essere frainteso; io sono uno di quelli che pensa che un tecnico privato della profondità di pensiero che un'educazione umanistica può dare sia una creatura povera.
Io direi che i paesi emergenti sono abbondantemente emersi dal punto di vista scientifico e tecnologico; credo che lo sviluppo sociale ed economico dell'Asia porti scompensi (a proposito, non si può pretendere di vendere in tutto il mondo senza essere a propria volta mercato degli altri) ma anche l'apertura di mercati incredibilmente vasti (e impensabili dieci anni fa: pensate a quanto acciaio assorbe la Cina). Comunque, capisco che ai nazionalisti (che, mi pare di capire, abbondano qua in giro) faccia storcere il naso, ma razionalmente cosa cambia se la proprietà della tua azienda è in Finlandia o negli USA o in Giappone o a Singapore anziché a Milano?
E' vero, è vergognosos che si sputi sulla cultura scientifica in Italia. Ma credo anche che molti istituti tecnici non sarebbero considerati di serie B se per primi gli alunni che li frequentano si impagnassero a non renderli tali... Perchè l'ITIS ad esempio sarebbe un'ottima scula di preparazione per ingegneria, se fatto come si deve...
Cosa importa se la ditta è in Italia piuttosto che all'estero? Semplice e banale: i posti di lavoro sono in Italia invece che all'estero. Non è nazionalismo, ma interesse nazionale.
Ancora, più che sacrosanto che tutti abbiano accesso ai mercati globali. ma francamente lo sfruttamento del lavoro nei paesi del Terzo Mondo proprio non mi va giù. E sarebbe giusto a parer mio boicottare paesi come la Cina, fino a quando questi non si adegueranno agli standard lavorativi dei paesi Occidentali.
beh, non credo che sia possibile dettare legge in casa della Cina o di qualsiasi altro paese estero, quindi dobbiamo adeguarci. L'importante è dare alle imprese del Made in Italy i mezzi e gli strumenti per difendersi. E' il mercato poi a decidere chi è a meritare.
Un inciso, amare la propria patria ed essere nazionalisti non è un malattia, nè un problema. Non è xenofobia ma nazionalismo . Il problema è non amare la propria patria profondamente, una cosa fin troppo diffusa qua da noi direi.
Non credo assolutamente poi che il problema siano gli investimenti finanziari, sono l'ultima delle possibilità che un'impresa in crescita dovrebbe sfruttare, una volta certa di poter contare su una forte struttura patrimoniale. Al contrario, le imprese investono troppo l'una nell'altra, le banche nelle imprese e le imprese nelle banche, piuttosto che portare investimenti in innovazione, tecnologia e processi produttivi.
Sono abbastanza d'accordo con voi sul problema della dispersione delle risorse nell'università italiana e sulla necessità di dare maggiore forza alle facoltà e alla ricerca scientifica. Quello che dice inoltre Vaina è molto vero, pochi frequentano le scuole con l'intento di imparare, ma solo perchè sanno che avere un diploma, almeno, è una necessità.
Come ho già detto però nessuno si rende conto che un pezzo di carta non dimostra granchè, le cose bisogna saperle e saperle fare, aldilà di quel che è scritto.
Vorrei farvi notare che siamo abbondantemente OT e che sarebbe interessante ritornare sull'argomento lavoro in se. Ci sono non pochi spunti nei post precedenti e non sarebbe male sfruttarli.
Ciauz
Una risposta veloce veloce alla domanda di Marzio sulla localizzazione di un'impresa. Al di là dei posti di lavoro (risposta già data da Vaina), cosa cambia se la sede di un'impresa è a Milano o a Singapore? Cambia che le imposte che l'impresa paga vanno all'Italia o allo stato di Singapore. Con quelle imposte si potrebbe produrre ulteriore ricchezza (dedotta la percentuale destinata alle tangenti, ovvio ), utilizzandole per lavori pubblici, ricerca, servizi, ecc.
Che poi l'Italia spenda la maggior parte delle proprie risorse per mantenere il clientelarismo è un altro discorso (del tipo vi siete mai domandati perchè in Germania le poste hanno la metà dei dipendenti e funzionano comunque meglio?).
Quanto alla ricerca è ovvio sottolineare la miopia di chi, ad esempio, anni fa si oppose alla riforma dell'Università che prevedeva la possibilità per le imprese di finanziare progetti di ricerca.
In nome di una libertà non meglio specificata di pensiero...