Ósanwe-kenta
by J.R.R. Tolkien
Introduzione, glossario, e note addizionali di Carl F. Hostetter
Il saggio intitolato Ósanwe-kenta, "Indagine nella comunicazione del pensiero", e' ancora esistente in otto pagine dattiloscritte, numerate da 1 a 8 da Tolkien. E' presentato e descritto come un 'riassunto' o 'abbreviazione'(MR:415) da un redattore anonimo di un altro lavoro con lo stesso titolo che l'elfico maestro di saggezza Pengolodh ha messo alla fine del suo Lammas o "Novero delle lingue" (ibid.). Sebbene si tratti di un documento separato, e' stato nondimeno associato ed e' senza dubbio contemporaneo al saggio piu' lungo che Tolkien ha intitolato Quendi ed Eldar ( di cui la maggior parte e' stata pubblicata in The war of the Jewels), con il quale e ' situato tra le carte di Tolkien. Una nota su una delle pagine del titolo di Quendi ed Eldar indica che l' Ósanwe-kenta veniva inteso da Tolkien come un' aggiunta al saggio piu' lungo:"al quale e' inclusa un' abbreviazione dell' Ósanwe-kenta o "Comunicazione del pensiero" (ibid.). Inoltre, Cristhoper Tolkien nota che il padre ha usato il titolo Quendi ed Eldar non solo per il saggio piu' lungo, ma anche per includere l' Ósanwe-kenta ed un altro breve saggio riguardante le origini degli Orchi ( l'ultimo pubblicato in Morgoth's ring, cf. pp. 415 ff.). Tutti e tre i saggi sono ancora esistenti in versioni dattiloscritte che sono" identiche nell' aspetto generale" ( MR:415).
L'associazione dell' Ósanwe-kenta con Quendi ed Eldar e' estesa anche alla terminologia e alla materia del soggetto. Per esempio, l'Ósanwe-kenta impiega certi termini linguistici definiti e discussi in qualche dettaglio in Quendi ed Eldar (e.g. tengwesta, lambe) in un modo che implica che le definizioni e le distinzioni date li' sono gia' note.Ancora, l'Ósanwe-kenta amplia certe affermazioni nella Note on the" language of the Valar" che conclude Quendi ed Eldar: per esempio, che "fu lo speciale talento dell' Incarnato, che viveva in una necessaria unione di hroa e fea, a creare il languaggio" (WJ:405); e, piu' sorprendentemente, che "i Valar e i Maiar potevano trasmettere e ricevere pensieri direttamente (con il volere di entrambe le parti) conformemente alla loro giusta natura", sebbene il loro "utilizzo di una forma corporea...rendeva questo modo di comunicazione meno rapido e preciso" (406). Esso amplia anche con riguardo "alla velocita' con il quale...un tengwesta puo' essere imparato da un ordine piu' alto", con l' aiuto della diretta " trasmissione e ricezione di pensiero" in congiunzione con "il calore del cuore" e "desiderio di capire gli altri", come esemplificato dalla rapidita' con il quale Finrod imparo' il linguaggio dei Bëoriani (ibid.).
Secondo Christopher Tolkien, una delle copie di Quendi ed Eldar e' "conservata in un giornale piegato del Marzo 1960", e le note scritte da suo padre su questo giornale e sulla copertina dell' altra copia includono l'Ósanwe-kenta tra le Appendici a Quendi ed Eldar (MR:415). Christopher conclude che questo complesso di materiale, che include l' Osanwe-Kenta, "era gia' in progresso quando il giornale venne usato per questo scopo, e sebbene, come in altri casi simili, questo non fornisca un terminus ad quem perfettamente sicuro, sembra non esserci ragione per dubitare che appartenga al 1959-60" (ibid.).
Le otto pagine dattiloscritte presentate qui sembrano contenere il solo testo ancora esistente dell' Osanwe-Kenta; se e' stato preceduto da alcune versioni dattiloscritte o manoscritte, non sono state apparentemente conservate. Nel margine superiore della prima di queste pagine, Tolkien ha scritto le tre righe dell' attuale titolo con l' inchiostro. Egli ha anche numerato a mano le prime sette pagine nell' angolo superiore destro, e ha scritto, sempre con l' inchiostro, la notazione "Osanwe" alla sinistra del numerale su ognuna di queste pagine; ma il numero della pagina e la notazione sono dattilografate nelle stesse posizioni sull' ottava pagina. Questo suggerisce che Tolkien potrebbe aver fatto una pausa, o forse aveva originariamente concluso il saggio da qualche parte nella settima pagina, e scritto il breve titolo e il numero della pagina su quei fogli che aveva dattiloscritto fino a quel punto, prima che venisse cominciata l' ottava pagina. Se e' cosi', potrebbe averlo fatto nell' interruzione della settima pagina indicata da uno spazio prima dell' inizio del paragrafo " Se noi parliamo in ultimo della follia di Manwe". Il dattiloscritto e' stato anche modificato da Tolkien con l' inchiostro in alcuni punti, principalmente in correzione di errori tipografici, sebbene in alcune occasioni sostituivano un cambio di parole. Salvo che in pochi casi, questi cambiamenti sono stati incorporati silenziosamente in questa edizione.
In questa edizione, il testo di Tolkien e' stato anche riorganizzato leggermente per quanto riguarda il contenuto delle note. Solamente nella prima pagina del dattiloscritto Tolkien ha usato note a pie' di pagina numerate, ma come ha già fatto in Quendi ed Eldar, altrove nell' Ósanwe-kenta egli interrompe in alcuni punti il suo testo con delle note, tipicamente dattilografate nella riga seguente, oppure con il segno di notazione vicino alcune parole, anche nel caso in cui questo interrompa una frase (cf. WJ:359). L' abitudine di Christopher Tolkien di riunire le note del padre alla fine del saggio nella preparazione di Quendi ed Eldar, distinguendole dalle note editoriali riferendosi ad esse nel testo con Nota 1, Nota 2, etc. tra parentesi, e' stato adottato qui per la maggior parte di queste note. Comunque, sette note assai brevi, le quali forniscono semplicemente il glossario Quenya dei termini sotto discussione (quello per sanwe-latya, sàma, làta, indo, pahta, avanir, e aquapahtie), sono state posizionate nel testo principale parenteticamente.
Un breve glossario editoriale delle forme Elfiche incontrate nell' Ósanwe-kenta e' stato fornito seguendo le note di Tolkien, come una posizione conveniente per citare ulteriori informazioni a loro rilevanti da altri testi (specialmente Quendi ed Eldar, parecchi testi in Morgoth's Ring, e The Etymologies ) e per la maggior parte dei commenti editoriali specificatamente linguistici.
Sono grato a Christopher Tolkien per aver fornito questo testo per la pubblicazione su Vinyar Tengwar, e a Christopher Gilson, Wayne Hammond, Christina Scull, Arden Smith, e Patrick Wynne per la loro assistenza nel preparare questa edizione.
Osanwe-Kenta
"Indagine nella comunicazione del pensiero"
(riassunto della discussione di Pengolodh)
Al termine del Lammas Pengolodh discute brevemente la diretta trasmissione del pensiero (sanwe-latya "apertura del pensiero"), facendo diverse asserzioni al riguardo, che dipendono in maniera evidente da teorie e osservazioni degli Eldar trattate altrove e a lungo dagli elfici maestri di saggezza. Essi si interessano principalmente agli Eldar e ai Valar ( includendo i Maiar minori dello stesso ordine). Gli uomini non sono particolarmente considerati, eccetto che nel lontano passato in quanto sono inclusi in considerazioni generali riguardanti gli Incarnati (Mirröanwi ). Pengolodh di loro afferma solamente: "gli uomini hanno la stessa facolta' dei Quendi, ma e' in se stessa piu' debole, ed e' piu' debole nell' attivita' a causa della forza del hröa, sopra il quale la maggior parte degli uomini ha un piccolo controllo della volonta'".
Pengolodh include questo argomento principalmente a causa della sua connessione con il tengwesta. Ma, come storico, e' anche interessato a esaminare le relazioni di Melkor e dei suoi agenti con i Valar e gli Eruhíni, in quanto anche questo ha una connessione con il "linguaggio" , da quando, come egli fa notare, il piu' grande tra i talenti dei Mirröanwi, e' stato trasformato da Melkor nel suo piu' grande vantaggio.
Pengolodh afferma che tutte le menti (sáma, pl. sámar) sono uguali per quanto riguarda lo stato, sebbene differiscano in capacita' e forza. Una mente per sua natura ne percepisce direttamente un'altra. Ma non puo' percepire piu' dell' esistenza di un' altra mente (come qualcosa di altro da se stessa, sebbene dello stesso ordine ) tranne che per il volere di entrambe le parti (Nota 1). Il grado di volonta', comunque, non necessita' di essere lo stesso da entrambe le parti. Se chiamiamo una mente G ( per l' ospite o per colui che arriva) e l' altra H ( per colui che ospita o destinatario), allora G ha la piena intenzione di ispezionare H o di informarla. Ma la conoscenza puo' essere migliorata o impartita da G, anche quando H non domandanda o intende impartire o imparare: l' atto di G sara' efficace, se H e' semplicemente "aperto" (láta; látie "apertura"). Questa distinzione, egli dice, e' della massima importanza. L' "apertura" e' il naturale o semplice stato (indo) di una mente che non e' altrimenti utilizzata (Nota 2). Nell' "Arda Non Corrotta" ( che sarebbe in condizioni ideali, libera dal male) l' apertura sarebbe lo stato normale. Nondimeno qualsiasi mente potrebbe essere chiusa (patha). Questo richiede un atto di conscia volonta': riluttanza (avanir). Potrebbe essere attuata contro G, contro G e qualcun altro, o potrebbe essere un ritiro totale nella "privacy" (aquapahtie).
Sebbene in "Arda Non Corrotta" l' apertura e' la condizione normale, ogni mente ha il diritto di chiudersi, dalla sua prima creazione come un individuo; ed ha l'assoluto potere di renderlo efficace tramite la volonta'. Niente puo' penetrare la barriera della Riluttanza (Nota 3).
Tutte queste cose, dice Pengolodh, sono vere per tutte le menti, dagli Ainur nella presenza di Eru, o i grandi Valar come Manwe e Melkor, fino ai Maiar in Eä, per arrivare al piu' piccolo dei Mirröanwi. Ma gli stati diversi portano delle limitazioni, che non sono pienamente controllate dalla volonta'.
I Valar sono entrati in Eä e nel Tempo di loro spontanea volonta', e si trovano adesso in quest'ultimo, fino a quando esso durera'. Essi non possono percepire niente al di fuori del Tempo, tranne che la memoria della loro esistenza prima che questa cominciasse: essi possono rievocare il Canto e la Visione. Sono, naturalmente, aperti a Eru, ma non possono vedere nessuna parte della Sua mente. Possono aprirsi ad Eru in entrata, ed Egli potra' in seguito rivelargli i suoi pensieri (Nota 4).
Gli Incarnati hanno le stesse facolta' per la natura delle sáma; ma la loro percezione e' offuscata dal hröa, perche' il loro fëa e' unito al loro hröa e la sua normale procedura e' attraverso l'hröa, il quale e' in se stesso parte di Eä, senza pensiero. L'affievolirsi e' infatti doppio; perche' il pensiero deve attraversare un manto di hröa e penetrarne un altro. Per questa ragione negli Incarnati la trasmissione del pensiero richiede un rafforzamento per essere efficace.
Il rafforzamento puo' essere per affinita', per urgenza, o per autorita'.
L' affinita' puo' essere imputata alla parentela; perche' quest' ultima puo' aumentare la somiglianza da hröa a hröa , e allo stesso modo degli argomenti e delle modalita' di pensiero dei residenti fëar, la parentela e' normalmente accompagnata anche da amore e comprensione. L' affinita' puo' semplicemente derivare da amore e amicizia, che e' la somiglianza da fëa a fëa. L' urgenza e' impartita da una grande necessita' del "mittente" (sia esso nella gioia, nel dolore o terrore); e se queste cose sono condivise dal "destinatario" in ogni grado, il pensiero e' ricevuto piu' chiaramente.
L' autorita' puo' anche prestare forza al pensiero di qualcuno che ha un dovere nei riguardi di un altro, o di qualsiasi governatore che ha il diritto di emettere ordini o di cercare la verita' per il bene degli altri.
Queste cause possono rafforzare il pensiero per fargli attraversare i veli e raggiungere una mente recipiente.
Ma quella mente deve rimanere aperta, o perlomeno passiva. Se, essendo consapevole di essere interpellata, si chiude, nessuna urgenza o affinita' sara' capace di far entrare il pensiero del mittente.
Ultimamente, anche il tengwesta e' diventato un impedimento. Negli Incarnati e' piu' chiaro e piu' preciso della ricezione diretta del pensiero. Per suo tramite possono anche comunicare facilmente con gli altri, dove non viene aggiunta forza al loro pensiero: come, per esempio, quando persone straniere si incontrano per la prima volta. E, come abbiamo visto, l' uso del "linguaggio" diventa presto abituale, cosi' che la pratica dell' ósanwe (interscambio di pensiero) e' negletta e diventa piu' difficile.
Cosi' vediamo che gli Incarnati tendono sempre di piu' ad usare o a cercare di usare ósanwe solo in caso di grande bisogno o urgenza, e specialmente quando lambe e' infficace. Per esempio quando la voce non puo' essere udita, ciò succede il piu' delle volte a causa della distanza. La distanza in se' non offre alcun impedimento all' ósanwe. Ma coloro che per affinita' possono ben usare ósanwe useranno il lambe quando si trovano in prossimita', per abitudine o per preferenza. E ancora potremmo anche evidenziare come gli "affini" possono capire piu' velocemente il lambe che usano tra loro, ed infatti tutto quello che direbbero non viene messo in parole. Con il minor numero di parole arrivano piu' velocemente ad una migliore comprensione. Non vi puo' essere dubbio che anche qui l' ósanwe sta prendendo piede spesso; perche' la volonta' di conversare in lambe e' la volonta' di comunicare un pensiero, e mette a nudo le menti. Puo' anche essere, naturalmente, che i due che conversano conoscano gia' parte dell' argomento e il pensiero dell' altro al riguardo, cosicche' abbiano bisogno di essere fatte solamente allusioni oscure allo straniero; ma non e' sempre cosi'. Gli affini raggiungeranno una comprensione riguardo ad argomenti che non sono mai stati discussi prima piu' rapidamente degli stranieri, e percepiranno piu' velocemente l' importanza delle parole che, per quanto numerose, ben scelte, e precise, devono rimanere inadeguate.
Hröa e tengwesta hanno inevitabilmente qualche effetto sui Valar, se essi assumono una forma corporea. Il hröa affievolira' di qualche grado la forza e la precisione della trasmissione del pensiero. Se essi hanno acquisito l' abitudine del tengwesta, come alcuni possono avere acquisito la consuetudine di essere ornati (da una forma fisica), allora questo ridurra' la pratica dell' ósanwe. Ma questi effetti sono molto minori che nel caso degli Incarnati.
Questo perche' il hröa di un Vala, anche quando e' diventato abituale, si trova molto di piu' sotto il controllo della volonta'. Il pensiero dei Valar e' di gran lunga piu' forte e piu' penetrante. E finche' riguarda i loro rapporti l' uno con l' altro, l' affinita' tra i Valar e' maggiore di quella tra qualsiasi altro essere; cosi che' l'uso del tengwesta o del lambe non e' mai diventato perentorio, e solo con alcuni e' diventato un'abitudine e una preferenza. E per quanto riguarda i loro rapporti con tutte le altre menti di Eä, il loro pensiero spesso ha la piu' alta autorita', e la maggiore urgenza. (Nota 5 ).
Pengolodh in seguito prosegue agli abusi del sanwe. "Perche'" egli dice, "coloro che hanno letto finora, possono avere gia' messo in dubbio la mia saggezza, dicendo: Questo non sembra essere conforme alle storie. Se il sáma fosse inviolabile dalla forza, come ha potuto Melkor aver ingannato e reso schiave cosi' tante menti? O non e' vero piuttosto che il sáma puo' essere protetto da una forza piu' grande ma anche catturato da quest' ultima? Percio' Melkor, il piu' grande, e che fino all'ultimo ha posseduto il volere piu' rigido, determinato e crudele, poteva penetrare le menti dei Valar, ma nascondersi a loro, a tal punto che anche Manwe nel rapportarsi a lui puo' sembrarci talvolta debole, incauto, e ingannato. Non e' cosi'?"
"Io dico che non e' cosi'. Le cose possono sembrare simili, ma se sono nello stesso modo totalmente differenti devono essere distinte. La preveggenza che e' previsione, e il pronostico che e' l'opinione fatta ragionando sull'evidenza presente, possono essere identiche nelle loro predizioni, ma sono totalmente differenti nel modo, e dovrebbero essere distinte dai maestri di saggezza, anche se il linguaggio giornaliero sia degli Elfi che degli Uomini da a loro lo stesso nome definendoli come sezioni di saggezza".(Nota 6)
In un simile argomento, puo' sembrare che l'estorsione dei segreti di una mente arrivi dal leggerla con la forza malgrado la sua volonta', perche' la conoscenza guadagnata puo' apparire a volte cosi' completa come qualsiasi altra che si potrebbe ottenere. Nondimeno essa non proviene dalla penetrazione della barriera della riluttanza.
Non c'e' infatti nessun axan che affermi che la barriera non dovrebbe essere forzata, perche' essa e' únat, una cosa impossibile ad essere o da essere realizzata, e maggiore e' la forza esercitata, piu' grande e' la resistenza della riluttanza. Ma e' un axan universale che nessuno dovra' direttamente con la forza o indirettamente con la frode prendere da un altro cio' che quest'ultimo ha il diritto di tenere e custodire come suo proprio.
Melkor ha ripudiato tutte le axani. Avrebbe anche abolito (per se stesso) tutti gli únati se avesse potuto. Infatti nel principio e durante i giorni della sua grande potenza la piu' rovinosa delle sue violenze venne dal suo tentativo di ordinare ad Eä che non c'erano limiti o ostacoli al suo volere. Ma non pote' realizzarlo. Gli únati rimasero, un promemoria perpetuo dell' esistenza di Eru e della sua invincibilita', ma anche un promemoria della co-esistenza con se stesso di altri esseri (eguali in origine se non in potere) inespugnabili dalla forza. A partire da questo procede la sua collera incessante.
Egli scopri' che l' approccio aperto di un sáma di potere e di grande forza di volonta' era avvertito da un sáma minore come un'immensa pressione, accompagnata da paura. Dominare tramite il peso del potere e del timore era la sua delizia; ma in questo caso egli li trovo' inutili: la paura chiudeva piu' velocemente la porta. Percio' egli tento' con l'inganno e la manipolazione.
Egli venne qui aiutato dalla semplicita' di coloro inconsapevoli dell'esistenza del male, o non ancora abituati ad essere consapevoli di esso. E per questa ragione e' stato detto sopra che la distinzione tra apertura mentale e volonta' attiva di ricevere era della massima importanza. In quanto egli sarebbe arrivato furtivamente ad una mente aperta ed incauta, sperando di imparare alcune parti del suo pensiero prima che essa si fosse chiusa, e ancora di piu' di inculcare in essa il suo proprio pensiero, di ingannarla e conquistarla alla sua amicizia. Il suo pensiero era sempre lo stesso, sebbene mutevole per adattarsi ad ogni situazione (per quanto aveva capito fino a quel momento): egli era soprattutto benevolo, era ricco e poteva dare ai suoi amici qualsiasi dono essi desiderassero; aveva un amore particolare per coloro a cui si rivolgeva; ma si doveva confidare in lui.
In questo modo egli ottenne l'accesso a numerose menti, rimuovendo la loro riluttanza, e aprendo la porta tramite l'unica chiave, sebbene la sua chiave fosse contraffatta. Ma questo non era ancora cio' che egli piu' desiderava, la conquista dei recaciltranti, la schiavitu' dei suoi nemici. Coloro che ascoltavano e non chiudevano la porta erano molto spesso gia' inclini alla sua amicizia; alcuni (conformemente alle loro capacita') si erano gia' avviati lungo un cammino come il suo, e ascoltavano perche' speravano di imparare e ricevere da lui cose che avrebbero favorito i loro scopi. (Cosi fu con quei Maiar che per primi e prima degli altri caddero sotto il suo dominio. Essi erano gia' dei ribelli, ma mancando del potere di Melkor e della sua volonta' spietata lo ammiravano, e vedevano nella sua leadership la speranza di un'effettiva ribellione.) Ma coloro che erano ancora semplici e incorrotti di "cuore" (Nota 7) erano consapevoli all'istante della sua entrata, e se prestavano attenzione agli ammonimenti dei loro cuori, cessavano di ascoltare, lo espellevano, e chiudevano la porta. Era proprio con questi che Melkor desiderava maggiormente vincere: i suoi nemici, perche' per lui erano nemici tutti coloro che gli resistevano anche nella minima cosa o rivendicavano qualunque cosa come propriamente loro e non sua.
Percio' egli cerco' dei modi per circuire l'únat e la riluttanza. E trovo' la sua arma nel "linguaggio". In quanto parliamo ora degli Incarnati, gli Eruhíni che egli desiderava maggiormente soggiogare per dispetto a Eru. I loro corpi essendo parte di Eä sono soggetti alla forza; e i loro spiriti, essendo uniti ai loro corpi in amore e preoccupazione, sono per loro vantaggio soggetti al timore. E il loro linguaggio, sebbene provenga dallo spirito o mente, opera attraverso e con il corpo: non e' ne' il sáma ne' il suo sanwe, ma puo' esprimere il sanwe nelle sue modalita' e in conformita' alle sue capacita'. Sul corpo, quindi, possono essere esercitate una tale paura e una tale pressione che la persona incarnata puo' essere forzata a parlare.
Cosi' penso' Melkor nell'oscurita' della sua premeditazione molto tempo prima che noi ci destassimo. In quanto nei Tempi Remoti, quando i Valar istruivano ad Aman gli Eldar nuovi venuti riguardo all'inizio delle cose e all'ostilita' di Melkor, Manwe stesso disse a coloro che avrebbero ascoltato:" Tra i figli di Eru, Melkor sapeva meno dei suoi pari, prestando meno attenzione a cio' che egli avrebbe potuto imparare, come facemmo noi, nella Visione della loro Venuta. Tuttavia, mentre noi adesso lo temiamo da quando lo conosciamo nel suo vero essere, la sua mente era acuta e badava ad ogni cosa che poteva aiutare i suoi piani per la supremazia, ed il suo scopo balzo' in avanti piu' rapidamente del nostro, non essendo limitato dall' axan. Fin dall' inizio egli era molto interessato al "linguaggio", quel talento che gli Eruhíni avevano per natura; ma non ci accorgemmo subito della sua malizia in questo interesse, perche' molti di noi lo condividevano, soprattutto Aule. Ma col tempo scoprimmo che egli aveva creato un linguaggio per coloro che lo servivano; ed egli ha imparato la nostra lingua con disinvoltura. Ha una grande abilita' in queste faccende.
Sopra ogni dubbio egli arrivera' a conoscere a fondo tutti gli idiomi, persino il bel linguaggio degli Eldar. Quindi, se mai dovreste parlare con lui, attenti!"
"Ahime'!" dice Pengolodh, "a Valinor Melkor ha usato il Quenya con tale padronanza che tutti gli Eldar erano sbalorditi, perche' il suo utilizzo non poteva essere migliorato, ed è stato appena eguagliato anche dai poeti e dai maestri di saggezza."
Cosi' tramite l'inganno, le menzogne, il tormento del corpo e dello spirito, tramite la minaccia del tormento ad altri beneamati, o con il puro terrore della sua presenza, Melkor tento' sempre di forzare gli Incarnati che cadevano in suo potere, o arrivavano alla sua portata, a parlare e a dirgli tutto quello che voleva sapere. Ma la sua propria Menzogna genero' una progenie infinita di bugie.
Con questi metodi egli ha distrutto molti, ha causato perfidie indicibili, e ha ottenuto la conoscenza di segreti a suo grande vantaggio e per la rovina dei suoi nemici. Ma questo non e' successo penetrando la mente, o leggendola per com'e', suo malgrado. No, nonostante la conoscenza che egli ottenne, dietro le parole (anche di quelle in paura e tormento) dimora sempre l'inviolabile sáma: le parole non sono in esso, sebbene possano derivarvi (come grida da dietro una porta chiusa); devono essere giudicate e accertate per quella verita' che puo' esserci in loro.
Quindi, il Bugiardo dice che tutte le parole sono menzogne: tutte le cose che egli ode sono cariche di inganno, evasioni, significati nascosti, odio. In questa immensa rete egli stesso fu irretito dalle lotte e dalla collera, consumato dal sospetto, dal dubbio, e dalla paura. Non sarebbe stato cosi', se egli avesse potuto rompere la barriera, e vedere il cuore per com'e' nella sua verita' rivelata.
Se parliamo infine della "follia" di Manwe e della debolezza e sconsideratezza dei Valar, stiamo attenti a come giudichiamo. Nelle storie, infatti, potremo essere stupiti e addolorati di leggere come Melkor (apparentemente) ingannasse e imbrogliasse gli altri, e di come perfino Manwe apparisse talvolta quasi un sempliciotto comparato a lui: come se un gentile ma imprudente padre stesse trattando con un figlio ribelle che avrebbe con il tempo percepito sicuramente l'errore nelle sue maniere. Mentre noi, guardando avanti e conoscendo le conseguenze, vediamo adesso che Melkor conosceva bene l'errore nei suoi comportamenti, ma era fissato ad essi ,senza possibilita' di ritorno, dall'odio e dall'orgoglio.Egli poteva leggere la mente di Manwe, perche' la porta era aperta; ma la sua propria mente era falsa ed anche se la porta sembrava aperta, c'erano anche porte di ferro chiuse per sempre.
Come l'avresti avuto altrimenti? Manwe e i Valar dovrebbero incontrarsi segretamente con sotterfugi, il tradimento con la falsita', le bugie con altre bugie? Se Melkor usurpasse i loro diritti, loro dovrebbero negare i suoi? Puo' l'odio sopraffare l'odio? No, Manwe era piu' saggio; oppure essendo sempre aperto a Eru faceva il Suo volere, il che e' piu' che saggezza. Egli era sempre aperto perche' non aveva niente da nascondere, nessun pensiero che fosse dannoso per qualcuno conoscere, se avessero potuto comprenderlo. Invece Melkor conosceva la sua volonta' senza metterla in dubbio; e sapeva che Manwe era vincolato ai comandi e alle ingiunzioni di Eru, e avrebbe fatto questo o si sarebbe astenuto da quello in accordo a questi ultimi, sempre, pur sapendo che Melkor li avrebbe infranti se questo avesse soddisfatto il suo scopo. Fino a tal punto il crudele contera' sempre sulla misericordia, e i bugiardi faranno uso della verita'; perche' se la misericordia e la verita' sono nascoste al crudele e al menzognero, esse hanno cessato di essere onorate.
Manwe non poteva tramite la costrizione tentare di obbligare Melkor a rivelare i suoi pensieri ed i suoi scopi, o (se egli avesse usato parole) a dire la verita'. Se egli avesse parlato e detto: questa e' la verita', egli sarebbe stato creduto finche' non fosse stato provato il falso; se egli avesse detto: Questo faro', come tu comandi, gli sarebbe stata permessa l'opportunita' di mantenere la sua promessa. (Nota 8)
La forza e le limitazioni che furono usate su Melkor dal potere unito di tutti i Valar, non furono utilizzate per estorcere confessioni (di cui non c'era bisogno); ne' per obbligarlo a rivelare i suoi pensieri (il che era illecito, anche se non vano). Egli venne fatto prigioniero come punizione per i suoi atti malvagi, sotto l'autorita' del Re. Cosi' potremo dire; ma sarebbe stato meglio dire che egli venne privato di una condizione, legato dalla promessa, del suo potere di agire, cosicche' egli potesse fermarsi e considerare se stesso, e avere cosi' l'unica possibilita' che la misericordia servisse da pentimento e ammenda. Per la guarigione di Arda, ma anche per la sua propria guarigione. Melkor aveva il diritto di esistere, e il diritto di agire ed utilizzare i suoi poteri. Manwe aveva l'autorita' per governare e comandare il mondo, per quanto potesse, per il benessere degli Eruhíni; ma se Melkor si fosse pentito e fosse tornato alla fedelta' a Eru, avrebbe dovuto essergli concessa nuovamente la sua liberta'. Non poteva essere reso schiavo, o la sua parte essere negata. Il compito dell'Anziano Re era di trattenere tutti i suoi sudditi in fedelta' a Eru, o riportarli ad essa, e in quella fedelta' lasciarli liberi.
Percio' Melkor non veniva buttato totalmente giu' e privato per sempre di tutto il potere di fare o disfare, se non fino all'ultimo, o tramite espresso comando di Eru e del Suo potere.
Chi tra gli Eldar riteneva che la prigionia di Melkor a Mandos (che venne raggiunta con la forza) fosse imprudente o illecita? Ma il proposito di attaccare Melkor, non soltanto di resistergli, di incontrare violenza con la collera a rischio di Arda, venne preso da Manwe con grande riluttanza. E consideriamo: che cosa avrebbe realizzato di buono l'uso illecito della forza? L'avrebbe rimosso per breve tempo e avrebbe sollevato la Terra di Mezzo dal peso della sua malignita', ma non avrebbe estirpato il male che aveva fatto, perche' non poteva farlo. A meno che, forse, Melkor si fosse davvero pentito. (Nota 9) Ma egli non si penti', e nell'umiliazione egli divenne piu' ostinato: piu' scaltro nei suoi inganni, piu' astuto nelle sue menzogne, piu' crudele e piu' codardo nelle sue vendette. La piu' debole e la piu' imprudente di tutte le azioni di Manwe, come sembra a molti, fu il rilascio di Melkor dalla prigionia. Da questo vennero la piu' grande perdita e il danno: la morte degli Alberi, e l'esilio e l'angoscia dei Noldor. Ma attraverso questa sofferenza venne anche, come forse in nessuna altra maniera avrebbe potuto realizzarsi, la vittoria Dei Tempi Remoti: la caduta di Angband e l'ultima disfatta di Melkor.
Chi puo' dire con sicurezza che se Melkor fosse stato tenuto in catene minore malvagita' sarebbe seguita? Anche diminuito, il potere di Melkor e' al di sopra del nostro calcolo.
Ma qualche scoppio rovinoso della sua disperazione non e' il peggio che sarebbe potuto accadere. La liberazione era conforme alla promessa di Manwe. Se Manwe avesse infranto la promessa per i suoi propri scopi, sebbene intendendo ancora fare del "bene", egli avrebbe intrapreso un passo lungo il cammino di Melkor. Si tratta di un passo pericoloso. In quel momento e con quell'atto egli avrebbe cessato di essere il vicerè dell'Uno, diventando invece un re che si approfitta del rivale che ha conquistato con la forza. Avremmo avuto allora i dispiaceri che infatti accaddero; o l'Anziano Re avrebbe perso il suo onore, e si sarebbe passati cosi', forse, ad un mondo preso in affitto da due orgogliosi signori che combattono per il trono? Di questo possiamo essere sicuri, noi figli dalla debole forza: chiunque tra i Valar avrebbe potuto intraprendere il cammino di Melkor e diventare come lui: uno era gia' abbastanza.
Note dell'Autore all'Ósanwe-kenta
Nota 1
Qui níra (volonta' come potenziale o facolta') dal momento che il minimo requisito e' che questa facolta' non dovra' essere esercitata nel rifiuto; un'azione o un atto di volonta' e' il nirme; come il sanwe "Pensiero" o "un pensiero" e' l'azione o l'atto di un sáma.
Nota 2
Puo' essere impegnato nella meditazione e disattento ad altre cose; puo' essere "volto in direzione di Eru"; puo' essere occupato in una "conversazione del pensiero" con una terza mente. Pengolodh dice: "Solo grandi menti possono conversare con piu' di una allo stesso tempo; diverse possono conferire, ma alla fine soltanto una comunica, mentre le altre ricevono."
Nota 3
"Nessuna mente puo', comunque, chiudersi contro Eru, contro la Sua ispezione o contro il Suo messaggio. Quest'ultimo puo' non essere inteso, ma non si puo' dire che la mente non l'abbia ricevuto."
Nota 4
Pengolodh aggiunge: "Alcuni dicono che Manwe, tramite una grazia speciale del Re, poteva ancora in qualche misura percepire Eru; alcuni piu' probabilmente, che egli rimase molto vicino ad Eru, ed Eru era maggiormente pronto ad ascoltarlo e a rispondergli".
Nota 5
Qui Pengolodh aggiunge una lunga nota sull'uso degli hröar da parte dei Valar. In breve egli afferma che sebbene in origine sia "un ornamento a se' stante", puo' tendere ad avvicinarsi allo stato dell' "incarnazione", specialmente con i membri minori di quell'ordine (i Maiar). "Si dice che piu'a lungo si usa lo stesso hröa, piu' grande e' il vincolo dell'abitudine, e poco conta il desiderio dell'ornamento di lasciarlo. Come abbigliamento puo' cessare presto di essere un ornamento, e diventa (come viene detto sia nella lingua degli Elfi che in quella degli Uomini) un' "abitudine", una divisa consuetudinaria. Oppure se viene indossato tra Elfi e Uomini per mitigare il calore o il freddo, presto rende il corpo vestito meno abile a resistere a queste cose quando e' nudo." Pengolodh cita anche l'opinione che se uno "spirito" (che sarebbe, uno di coloro non incarnato dalla creazione) usa un hröa per assistere i suoi propositi personali, o (ancora di piu') per il divertimento delle sue facolta' corporee, trova sempre piu' difficile operare senza il hröa. Le cose che legano di piu' sono quelle che negli Incarnati hanno a che fare con la vita dello hröa stesso, il suo sostentamento e la sua propagazione. Cosi' bere e mangiare sono vincolanti, ma non il piacere nella bellezza del suono o della forma. Maggiormente vincolante e' procreare o ideare.
"Noi non conosciamo gli axani (leggi, regole, come in primo luogo provenienti da Eru) che vennero formulate sui Valar con riferimento particolare al loro stato, ma sembra chiaro che non c'erano axan contro queste cose. Nondimeno sembra essere un axan, o forse una conseguenza necessaria, che se essi sono creati, allora lo spirito deve dimorare nel corpo che viene usato, e trovarsi sotto le stesse necessita' degli Incarnati. L'unico caso che si conosce nelle storie degli Eldar e' quello di Melian che divenne la sposa di Re Elu-thingol. Questa certamente non era una cosa malvagia o contro il volere di Eru, e sebbene porto' al dispiacere, sia gli Elfi che gli Uomini furono arricchiti.
"I grandi Valar non fanno queste cose: non concepiscono, e nemmeno mangiano e bevono, tranne che al grande asari, come simbolo del loro rango e della loro dimora di Arda, e per la benedizione del sostentamento dei Figli. Tra i Grandi solo Melkor divenne all'ultimo legato ad una forma corporea; ma questo fu a causa dell'uso che egli ne fece per il suo scopo di diventare Signore degli Incarnati, e delle grandi malvagita' che egli fece nel suo corpo visibile. Egli aveva anche dissipato i suoi poteri originari nel controllo dei suoi uomini e servitori, cosicche' divenne infine, in se stesso e senza il loro supporto, una cosa indebolita, consumata dall'odio e incapace di rinvigorire se stesso dallo stato in cui era caduto. Nemmeno la sua forma visibile poteva ancora a lungo dominare, cosicche' la sua bruttezza non poteva piu' essere mascherata, e mostro' la malvagita' della sua mente. Allo stesso modo fu anche per alcuni dei suoi piu' grandi servitori, come vediamo in questi tardi giorni: essi divennero uniti alle forme dei loro atti malvagi, e se questi corpi gli venivano presi o distrutti, erano annullati, fino a quando ricostuivano un'apparenza delle loro precedenti abitazioni, con le quali essi potevano continuare nelle loro malvagie direzioni alle quali erano diventati fissi". (Pengolodh qui si riferisce evidentemente a Sauron in particolare, della cui ascesa egli fuggi' infine dalla Terra di Mezzo. Ma la prima distruzione della forma corporea di Sauron venne registrata nelle storie dei Tempi Remoti, nel Lai di Leithian.)
Nota 6
Pengolodh elabora qui (sebbene non sia necessario per la sua argomentazione) questo problema della "preveggenza". Nessuna mente, egli asserisce, conosce cio' che non e' in lei. Tutto quello di cui ha fatto esperienza e' in essa, sebbene nel caso degli Incarnati, che sono dipendenti dagli strumenti del hröa, alcune cose possono essere "dimenticate", e non immediatamente disponibili per la memoria. Ma non vi e' nessuna parte del futuro, perche' la mente non puo' vederlo o averlo visto: si tratta quindi di una mente collocata nel tempo. Una mente tale puo' imparare il futuro solo da un'altra mente che l'ha visto. Ma questo significa in definitiva solo da Eru, oppure indirettamente da una mente che ha visto in Eru determinate parti del Suo fine (cosi' come gli Ainur che sono adesso i Valar in Eä). Un Incarnato puo' cosi' conoscere solo qualcosa del futuro, tramite istruzioni derivanti dai Valar, o tramite una rivelazione che proviene direttamente da Eru. Ma qualsiasi mente, che sia dei Valar o degli Incarnati, puo' dedurre con la ragione cosa accadra'. Questa non e' preveggenza, sebbene non possa essere piu' chiara in termini e infatti e' perfino piu' precisa delle apparizioni fugaci di preveggenza. Neppure se consiste in visioni apparse in sogno, che e' un mezzo per cui la "preveggenza" e' anche frequentemente presentata alla mente.
Le menti che hanno una grande conoscenza del passato, del presente, e della natura di Eä possono predire con grande accuratezza, e piu' vicino e' il futuro piu' chiaro esso risultera' (salvando sempre la liberta' di Eru). Quindi la maggior parte di cio' che e' chiamata "preveggenza" in discorsi noncuranti e' solo la deduzione del saggio; e se viene ricevuta dai Valar come avviso o istruzione, puo' essere solo la deduzione del piu' saggio, sebbene possa essere qualche volta "preveggenza" di seconda mano.
Nota 7
enda. Lo traduciamo con "cuore", sebbene non abbia riferimenti fisici ad alcun organo del hröa. Significa "centro", e si riferisce (sebbene tramite allegoria fisica) al fëa o sáma stesso, distinto dalla periferia per i suoi contatti con il hröa; consapevole di se'; dotato della primordiale saggezza del suo creatore che lo rende suscettibile a qualsiasi cosa che sia ostile al minimo grado.
Nota 8
Per il quale motivo Melkor disse spesso la verita', e infatti menti' raramente senza una mescolanza di verita'. A meno che non si trarrasse delle sue menzogne contro Eru; e fu, forse, per averle messe in circolazione che gli fu proibito il ritorno.
Nota 9
Alcuni sostengono questo, sebbene il male avrebbe potuto essere mitigato, non poteva venire disfatto nemmeno dal pentimento di Melkor; perche' il potere era fuoriuscito incontrollato da lui e non era piu' sotto il controllo del suo volere. Arda venne corrotta nel suo proprio essere. I semi che la mano semina cresceranno e si moltiplicheranno anche se la mano e' stata rimossa.
Glossario editoriale all'Osanwe-Kenta
Tutte le parole sono Quenya a meno che non sia indicato altrimenti.
aquapahtie "privacy". E' composta apparentemente da aqua-' completamente, interamente' (WJ:392) + *paht-ie 'chiusura' (cf. pahta 'chiuso' e látie 'apertura', sotto).
asar, pl. asari 'tempo prefissato, festivita' ' (WJ:399).
avanir 'riluttanza'. E' composta apparentemente da ava-, che esprime rifiuto o proibizione (cf. WJ:370-71 s.v. *ABA ) + 'volonta' ' (cf. níra sotto).
axan, pl. axani 'legge, regola, comandamento'; come provenienti da Eru'. Adottato dal Valarin akasān 'Egli dice', riferito a Eru (WJ:399).
enda 'centro, cuore'; di persone, non ha alcun riferimento all'organo fisico, ma al fëa o sáma stesso, distinto dai suoi contatti con il hröa. Cf. ÉNED- 'centre' (LR:356).
Eruhíni 'Figli di Eru', p.e. Elfi e Uomini (WJ:403).
fëa, pl. fëar 'anima, spirito dimorante, di un essere incarnato' (MR:349,470). Anche cf. WJ:405.
hröa, pl. hröar 'corpo (di un essere incarnato)' (MR:350,470). Anche cf. WJ:405.
indo n. 'stato', forse piu' specificatamente 'disposizione d'animo (sáma)'. In "LQ 2" (MR:216, 230 n. 16) indo viene usato per 'mente', che qui e' la traduzione di sáma; mentre The Etymologies intende per indo 'cuore, stato d'animo' (LR:361 s.v. ID-).
kenta 'indagine.' Cf. Essekenta *'nome-indagine' (MR:415). Cf. il verbo ken- 'vedere, osservare' (MC:222) e l'elemento cenyë 'vista' in apacenyë 'preveggenza' e tercenyë 'intuito' (MR:216), che suggerisce che kenta possa piu' letteralmente significare 'esaminare a fondo' qualche argomento.
lambe Cf. l'introduzione lambe nel glossario editoriale dell'estratto di Quendi and Eldar App. D, sopra (p. 12).
láta agg. 'aperto'. Cf. LAT- 'essere esposto' (LR:368)
látie 'franchezza'.
latya 'apertura'.
Mirröanwi 'Incarnati', letteralmente 'coloro messi nella carne (hröa)' (MR:350).
níra n. 'volonta', come facolta' e potenziale'. Cf. S. aníra '(egli) desidera' (SD:128-29).
nirme 'l'azione o l'atto di níra'.
ósanwe 'comunicazione o scambio di pensiero'. Composto apparentemente dal prefisso o- "usato in parole che descrivono l'incontro, la congiunzione, o l'unione di due cose" (WJ:367 s.v. *WO) + sanwe (q.v.).14
pahta adj. 'chiuso'. Cf. aquapahtie sopra.
sáma, pl. sámar 'mente'.
sanwe 'Pensiero; un pensiero; come azione o atto di un sáma. Cf. ósanwe sopra.
tengwesta Cf. tengwesta nel glossario editoriale dell'estratto di Quendi and Eldar App. D, sopra (p. 14).
únat, pl. únati 'una cosa impossibile da esistere o da farsi'. Composto apparentemente da ú- + nat 'cosa' (cf. LR:374 s.v. NĀ2-). The Etymologies da' il Q. prefisso ú con significato 'non, in, (solitamente con significato negativo)' (LR:396 s.v. UGU-), ma qui la forza di ú- e' maggiore di quella trasmessa dalle glosse isolate. Compariamo la distinzione tra avaquétima 'da non dirsi, che non deve essere detto' e úquétima 'indescrivibile, impossibile da dire, da rendere con le parole, o impronunciabile' (WJ:370 s.v. *ABA). Cf. ú nel glossario editoriale dell'estratto di Quendi and Eldar App. D, sopra (p. 14).
Gil Galad - Stella di radianza